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Note a margine del convegno del 10 marzo 2017

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di Francesco Levino Petrosemolo
Contributo collegato a: L’intervento di capitali privati nella realizzazione di opere pubbliche in Italia

Con questa nota vorrei fissare e puntualizzare un po’ più estesamente alcuni degli argomenti da me sollevati nel corso del Convegno, commentare brevemente alcuni spunti di altri interventi e auspicare che il tutto possa avere un seguito e non essere uno dei tantissimi quanto sterili episodi di genere.
In realtà, il nodo dell’attrazione del capitale privato per le opere pubbliche, se è questo il tema che interessa veramente, riguarda solo marginalmente il tema del Codice degli Appalti. L’algoritmo è molto più complesso e coinvolge una molteplicità di fattori endogeni ed esogeni al Codice stesso.
Il capitale privato, che come è noto è apolide, va dove meglio (e prima) trova una sua remunerazione, con buona pace di troppe visioni provinciali e inadeguate ai tempi di oggi che ancora impastoiano il sistema nostrano degli investimenti.
Ora, se questo Paese vuole realmente incrementare la propria dotazione infrastrutturale (considerando l’enorme deficit di cui possiamo essere fieri in questo campo rispetto ad altri paesi) contando “anche” sull’intervento del capitale privato, esso non può fare ipocritamente finta che le esigenze del capitale siano secondarie alle garanzie, sacrosante, che la P.A. deve pretendere. Devono essere perlomeno paritetiche, in caso contrario l’equazione non tornerà mai, perché il capitale privato non ha nessun obbligo a essere tirato per i capelli e non aspetta altro che di trovare altre collocazioni.
Sfido chiunque a sostenere il contrario.

1. Premessa
Sono profondamente convinto che se si cerca di analizzare i problemi da una prospettiva statica “ad oggi” non si riuscirà mai a trovarne una soluzione. È fondamentale invece cercare di andare a ritroso nel tempo, ed effettuare una “anamnesi” che chiarisca quali sono i presupposti sbagliati da cui è partita la filiera degli errori che si scontano oggi.

2. La questione della gestione
Ha detto bene chi al Convegno ha ribattuto a chi sosteneva che bisogna trovare il sistema di far decollare il PF in Italia: da noi il PF non deve decollare o svilupparsi, deve ancora partire da zero.
È a tutti noto che i vagiti del PF in Italia nascono ben 23 anni fa con l’avvento della Merloni 1. È un po’ meno noto, visto il tempo ormai trascorso e il fatto che coloro che vissero in diretta quell’epopea, sono sempre meno, che la Merloni nacque, sull’onda di Tangentopoli, come strumento catartico per liberarsi di un intero sistema che, norma più norma meno, durava quasi da 150 anni.
Come spesso accade, insieme all’acqua sporca fu buttato anche il bambino.
I due grandi pilastri innovativi e fondanti del nuovo “sistema” furono: a) la creazione ex novo di una nuova filiera di responsabilità nel sistema pubblico, culminante con la creazione del RUP (per la verità un accenno c’era stato già con la 241 del ‘90, ma zoppo di quella paroletta “unico”), che finalmente individuava un parafulmine di tutte le nefandezze che potevano verificarsi nell’apparato pubblico (anche sul RUP gli errori sono stati catastrofici sin dall’inizio e varrebbe la pena di dedicarvi un Convegno), b) l’invenzione della “concessione di costruzione e gestione” che, cancellando con un colpo di spugna la precedente concessione, quella famigerata “di committenza”, che portò praticamente allo sfacelo il sistema delle partecipazioni statali, salvo farlo risbucare da altri tombini (leggi Grandi Stazioni, Sistemi Urbani, Invitalia, EUR SpA, CDP Immobiliare, ecc.), introduceva la bacchetta magica del Project Finance all’Italiana, che d’incanto avrebbe sostituito col privato la caduta verticale ed inarrestabile della spesa per investimenti nel bilancio dello Stato (per fare sempre più posto alla ipertrofica spesa corrente).
E lì, a causa della fretta e dello scarso approfondimento del tema, tutt’altro che semplice, si consumò il “peccato originale” che si trascina ancora oggi come un sofisma dalle premesse sbagliate in tutta quella corposa parte delle norme ove si parla del PF e dei suoi corollari, e cioè i vari Codici, integrazioni, Regolamenti, Decreti Correttivi e Norme Transitorie che si sono accavallati nel corso di 23 anni, senza portare a nessuna svolta concreta.
L’errore, madornale se solo si fosse messo il naso al di là delle Alpi, consistette nell’impostare subito il magico strumento come un sottoprodotto dell’appalto tradizionale di lavori e quindi irregimentandolo senza rimedio nel groviglio delle norme sulle opere pubbliche e mettendo sotto il mirino il solito attore protagonista, nel bene e nel male, della trasformazione del nostro territorio dal dopoguerra in poi: il costruttore.
Il povero costruttore, ignaro, consapevole solo del fatto che si stava raschiando il fondo del secchio per trovare risorse tradizionali pubbliche per le infrastrutture, all’inizio salutò con entusiasmo la nuova trovata e ci mise un grande impegno per trovare formule che gli consentissero di tornare ad essere la primadonna nel settore: diede suggerimenti, partecipò a commissioni, fece accordi col sistema del credito, cominciò a investire (poco, pochissimo) in progetti innovativi.
Poi, a poco a poco, capì la magagna, ovvero che: a) doveva fare fior di progetti, costosissimi, senza avere la minima certezza che sarebbero stati realizzati e quando, b) che, quand’anche fossero stati realizzati, avrebbe dovuto tenersi sul groppone per 30 o 50 anni un oggetto ingombrante, facendo un lavoro che non era il suo per gestirlo, c) faticare come una bestia per rientrare del sangue che aveva anticipato per realizzare l’oggetto, quando, con un margine d’appalto o con una vendita immobiliare, poteva avere grandi soddisfazioni in poco tempo, comprarsi la barca e farsi una bellissima villa in Sardegna. Ce ne era abbastanza per tirarsi indietro e tornare al vecchio caro sistema degli appalti e dell’edilizia, quel poco che ne restava, dove il turn-over imprenditoriale era al massimo di 5-6 anni.
Il legislatore non capì un’acca di quello che stava succedendo e si accanì pervicacemente nei vari correttivi successivi, mettendo paletti, facendo concessioni e poi rimangiandosele, insomma peggiorando sempre di più la situazione.
A voler poi far peccato essendo maliziosi, come diceva un certo signore che non c’è più, ma la sapeva lunga, si potrebbe sospettare che il tutto sia stato architettato dalla categoria degli avvocati per potersi assicurare il lavoro per i prossimi 30 anni.
A nessuno venne in mente in ogni caso che bastava spostare di poco l’asse dell’impegno legislativo per collimare e mettere a fuoco la vera figura protagonista del Project: il gestore.

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