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L’ATTACCO ISRAELIANO ALL’IRAN E GLI EFFETTI PER LE POTENZE REGIONALI E QUELLE GLOBALI DELLA QUESTIONE DI GAZA

di - 18 Giugno 2025
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CIRCOLO DI STUDI DIPLOMATICI                                                                              LETTERA DIPLOMATICA

Piazzale della Farnesina, 1                                                                                         n. 1400 – Anno MMXXV

00135 Roma                                                                                                                Roma, 14 giugno 2025

 

L’ATTACCO ISRAELIANO ALL’IRAN E GLI EFFETTI PER LE POTENZE REGIONALI E QUELLE GLOBALI DELLA QUESTIONE DI GAZA

L’attacco israeliano contro i siti e i protagonisti della ricerca nucleare iraniana rappresenta un passaggio fondamentale della strategia di Netanyahu concernente la “messa in sicurezza” di Israele. Si tratta infatti di un attacco preparato da tempo e che durerà vari giorni e per scatenare il quale, il Primo Ministro ha trovato il pretesto dell’insoddisfacente andamento dei negoziati USA-IRAN sull’arricchimento dell’uranio. L’importante per Netanyahu era, secondo il parere degli specialisti dell’area, di effettuare l’attacco prima di sistemare la questione palestinese a Gaza e in Cisgiordania, allo scopo di evitare rappresaglie importanti, nonché le possibili forti ripercussioni internazionali e forse anche interne che la soluzione della questione palestinese auspicata dall’attuale governo israeliano avrebbe potuto causare. Mai come oggi, infatti, le implicazioni regionali e globali del conflitto Israelo- Palestinese sono state cosi inquietanti, influenzate dalla guerra tra Israele e Hamas e dalla conseguente tragedia umanitaria dei Palestinesi della striscia di Gaza, ma anche dalla permanente violenza praticata in Cisgiordania. Le forti tensioni che ne sono derivate avevano già rischiato di coinvolgere nella guerra anche l’Iran, il potente, tradizionale nemico di Israele e protettore di Hamas e degli Hezbollah libanesi. Eppure nel 2023 le cose sembravano andare piuttosto bene, almeno tra Israele e alcuni Paesi arabi, sulla scia della conclusione dei primi “Accordi di Abramo”, voluti da Trump e da suo genero, i quali avevano introdotto questa iniziativa durante il primo mandato del Presidente. Purtroppo i testi dei predetti accordi non si sono rilevati abbastanza cogenti circa gli obblighi di Israele nei confronti dei Palestinesi, mentre il Governo israeliano, da parte sua, non si è dimostrato solerte nel mantenere un equilibrio tra i vantaggi che gli accordi gli hanno portato (come il riconoscimento dello Stato di Israele da parte di alcuni Paesi arabi) e le azioni concrete da compiere a favore dei Palestinesi. Gli “Accordi di Abramo”, dunque, mentre aprivano delle speranze verso una futura progressiva pacificazione dell’area araboisraeliana, nello stesso tempo suscitavano, insieme alle altre note divisive questioni, la rivolta tra i Palestinesi sobillati da Hamas e indirettamente dall’Iran, contrario agli accordi di Abramo, che avrebbero determinato un suo sostanziale isolamento nell’area, a parte la Siria di Assad e il Libano, fino ad arrivare al 7 di ottobre con gli esecrabili attentati di Hamas a danno della popolazione civile israeliana. Da quel momento, il Presidente Netanyahu ha approfittato dell’occasione che gli si presentava, cioè di predisporre e di scatenare una “legittima azione di difesa militare” nei confronti non solo di Hamas, nella striscia di Gaza e in Cisgiordania, ma anche contro gli Hezbollah libanesi che partecipavano ai bombardamenti sul territorio israeliano, oltre ad occupare con truppe israeliane delle zone in Siria prima gestite dalle milizie sciite sostenute dall’Iran e oltre. In seguito, Israele ha condotto importanti operazioni di “punizione” dell’Iran per il suo appoggio ad Hamas e agli Hezbollah e ha anche colpito direttamente e continua a farlo, gli Houthi yemeniti responsabili di attaccare tramite missili a lunga gittata e droni le navi da trasporto e lo stesso territorio israeliano, in rappresaglia all’occupazione e i bombardamenti israeliani a Gaza. I successi ottenuti dagli Israeliani usando la propria conosciuta potenza militare con il costante appoggio degli USA, a maggior ragione dopo il cambio presidenziale a Washington del Gennaio 2025, hanno determinato una nuova situazione nella regione. Israele si trova infatti oggi in una posizione più potente che in passato, sia dal punto di vista militare, continuando a beneficiare dell’appoggio americano e avendo l’ambizione, come poi si è visto, di ridurre ulteriormente le capacità di risposta dei suoi nemici più vicini, come l’Iran, per prevenire ulteriori rappresaglie e poter procedere a regolare la questione Palestinese come meglio crede, escludendo, come deliberato anche dalla Knesset, la soluzione “a due Stati”. Ciò naturalmente comporterebbe un alto costo politico da pagare a quel resto di mondo, Paesi arabi in testa, che tuttora credono, o fanno mostra di credere nell’applicabilità di tale ultima soluzione. La larga maggioranza dei Paesi dell’Unione Europea sarebbe certamente contraria ad azioni contrarie ai diritti dei Palestinesi così come la Cina, preoccupata per i suoi vasti interessi in Medio Oriente. La Russia è un caso a parte: da un lato essa ha, come noto, altri problemi da risolvere con l’Ucraina; dall’altro la continuazione di un fronte di guerra in Medio Oriente può, almeno parzialmente, distrarre l’Occidente dall’Ucraina; Infine i suoi rapporti con Israele sono abbastanza controversi, nonostante l’alleanza russa con l’Iran, a causa della forte emigrazione russa in Israele e tutti gli interessi che ne conseguono. Si ritiene che anche gli Stati Uniti d’America potrebbero incontrare difficoltà interne a legittimare apertamente un simile atteggiamento da parte di Netanyahu. Tuttavia il noto “Piano Trump per Gaza”, le sirene di vantaggi economici da condividere eventualmente con alcuni Paesi arabi della regione e le dichiarazioni dell’Ambasciatore Usa in Israele, Mike Huckabee il quale dichiara che “Washington non sostiene più pienamente la creazione di uno Stato palestinese indipendente” fanno per il momento capire chiaramente che il Governo USA sostiene Netanyahu. Il Regno Unito invece, insieme a Canada, Australia, Nuova Zelanda e Norvegia, hanno deciso di sanzionare due leader dell’estrema destra, ministri del governo israeliano, Itamar Ben Gvir e Bezelel Smotrich per le loro posizioni sull’espansione delle colonie in Cisgiordania. Tuttavia, prima ancora di pensare alle reazioni nel contesto regionale e globale ad un’eventuale “soluzione radicale” imposta da Israele, resterebbe da verificare quale sia l’atteggiamento reale dell’opinione pubblica israeliana, dove covano larghe sacche di ostilità nei confronti del Presidente del Consiglio e ove, la teoria dei “due Stati” risulta ancora accettabile da taluni schieramenti, anche se non si tratta certo di un disegno di semplice esecuzione. La palla è sempre nelle mani del Primo Ministro, ma anche lui non potrebbe forse permettersi di “tirare troppo la corda” con coloro che lo disapprovano dall’estero e con una buona parte, anche bi-partisan, del suo Paese. A conferma di ciò, i partiti dell’opposizione hanno recentemente presentato una mozione per sciogliere la Knesset e procedere a nuove elezioni, ma, sia pure di stretta misura, la maggioranza ha retto. Ciò detto, non resta più molto tempo per un’iniziativa diplomatica “forte” in favore dei “due Stati”. Netanyahu sta infatti procedendo rapidamente contro tale ipotesi. Ormai sappiamo che il piano israeliano per Gaza consiste in una occupazione militare del 75% della “striscia”, concentrando i Palestinesi in campi situati in tre separate zone di quel territorio, all’ingresso dei quali le Forze di Difesa israeliane cercheranno per quanto possibile di filtrare e arrestare gli elementi collegati, o sospettati di esserlo, ad Hamas. Dell’aiuto umanitario in questi campi è stata già incaricata una apposita Associazione americana, la “Gaza Humanitarian Foundation”, per escludere Hamas una volta per tutte dal suo coinvolgimento clandestino nella destinazione e distribuzione dell’aiuto. Sappiamo peraltro che la predetta Associazione di origine USA ha incontrato difficoltà anche da parte dei suoi stessi responsabili, di cui alcuni si sono dimessi nella fase iniziale dell’operazione. In ogni caso, qualunque sarà la sorte del piano per Gaza, le masse palestinesi già nel passato, ma in particolare da oltre due mesi, sono state mantenute in uno stato di indigenza fisica e morale, che notoriamente può facilitare l’imposizione senza contestazioni di qualunque soluzione concernente il loro futuro, purché essi (i Palestinesi) abbiano la sensazione che il nuovo destino possa assicurargli la certezza della sopravvivenza per loro e le loro famiglie, nonché una prospettiva di miglioramento della qualità della loro vita. Ciò potrebbe voler dire, come viene argomentato già da tempo tra gli specialisti dell’area in questione, un trasferimento di massa di una parte o di una gran parte di Palestinesi in altri Paesi arabi. Ma un tale esodo, o trasferimento non è al momento praticabile perché nessuno dei vicini lo accetta. E se mai avvenisse, potrebbero venire coinvolti indirettamente nel medio o lungo periodo i Paesi europei, che potrebbero trovarsi prima o poi di fronte a un considerevole fenomeno di immigrazione di Palestinesi nell’antico continente. C’è tra i commentatori chi vedrebbe, in questa eventuale situazione, un cinico “regalo” all’Europa da parte dei suoi autori e di quei Paesi che intendessero appoggiarla. D’altronde Netanyahu ha dimostrato fin da quando fu incaricato di formare il nuovo governo israeliano dopo l’assassinio di Rabin quasi trenta anni fa, di essere contrario alla soluzione “a due Stati”, oggi fortemente osteggiata anche dal suo attuale governo, tanto che si comincia a temere anche per la sorte dei Palestinesi in Cisgiordania, dopo i più recenti e consistenti insediamenti di coloni israeliani. Il Primo Ministro ha indicato ripetute volte che il suo obiettivo principale è l’eradicazione di Hamas da Gaza, anche se a spese di ulteriori numerose vittime palestinesi. Cosa succederebbe dopo, non è ancora stato chiaramente esplicitato da Netanyahu. Rimarrebbe l’ipotesi non molto rassicurante di trattenere i Palestinesi in territorio israeliano con uno status discriminato rispetto alla piena cittadinanza, oppure quella ancora più inquietante della estromissione di gran parte dei Palestinesi da Gaza e dalla Cisgiordania per trasferirli in luoghi per il momento non definiti. Ricordiamo comunque che se questo regime di custodia dei Palestinesi a Gaza dovesse durare ancora per un certo tempo nelle stesse condizioni e se il Governo israeliano non dovesse predisporre tempestivamente il necessario per procedere all’ipotesi prescelta, c’è il rischio di una emergenza umanitaria senza precedenti nella sua portata, con inevitabili coinvolgimenti della comunità internazionale. Di fronte a questa davvero preoccupante prospettiva, nonostante che buona parte della opinione pubblica internazionale denunci ripetutamente le condizioni in cui sono tenuti i Palestinesi e confermi la sua fiducia circa la soluzione “a due Stati”, si sono registrate finora poche proposte “strutturate” per tentare di superare concretamente il problema. Una di queste è la nota proposta egiziana, sostenuta dalla Lega Araba, per la ricostruzione di Gaza, che sarebbe ripresa come base dalla prossima conferenza indetta dalle Nazioni Unite dal 17 al 20 giugno 2025 a New York, poi rimandata a tempi migliori, dopo l’attacco israeliano all’Iran. Tale conferenza farebbe seguito alla Risoluzione promossa da Francia e Arabia Saudita, approvata dall’Assemblea Generale il 4 Dicembre 2024 con 157 voti favorevoli e otto contrari, per la convocazione di una conferenza internazionale di alto livello per la pace in Medio Oriente e l’attuazione della “Soluzione a due Stati”. La proposta egiziana prevede, come noto, la ricostruzione di Gaza grazie ai finanziamenti delle Banche del Golfo e rimane aperta ad altri finanziamenti volontari. Prevede inoltre l’affidamento della gestione della striscia all’OLP, escludendo categoricamente qualsiasi partecipazione di Hamas o di altre organizzazioni politiche. Otto diversi gruppi di lavoro sarebbero previsti dopo la cerimonia inaugurale. La sicurezza dei due Stati costituirebbe il nodo principale della Conferenza. L’Amministrazione Trump ha nei giorni scorsi invitato i Governi di tutto il mondo a non partecipare alla Conferenza, considerata “controproducente” per gli sforzi in corso per porre fine alla guerra a Gaza e liberare gli ostaggi. Nella mattinata del 13 giugno, tuttavia, è giunta la notizia dell’attacco israeliano ai siti di ricerca nucleare in Iran, con la conseguente inevitabile conseguenza di chiudere tutti gli aeroporti internazionali e 4 nazionali dell’area, per evidenti ragioni di sicurezza. Ciò ha portato le autorità organizzatrici della predetta conferenza a rimandarne la tenuta fino a quando non torneranno le condizioni di sicurezza che consentano i viaggi necessari e la stabilità necessaria al successo dell’iniziativa. Vedremo che tipo di proposta l’eventuale futura Conferenza riuscirà a predisporre, a partire soprattutto del primo dei problemi identificati dal Governo di Israele per rigettare il piano “a due Stati”, cioè quello della sicurezza dello Stato ebraico e affronti concretamente tutte le altre questioni che consentirebbero la creazione di uno Stato palestinese che “ viva in pace e sicurezza accanto a Israele”. Strada in salita, date le premesse. Ma anche le opzioni Netanyahu, quali che siano, presentano rischi di vasta portata per i protagonisti come per le potenze regionali, con estensioni possibili alle potenze globali in caso di trasferimenti di massa, per il momento solo ipotetici. La fantasia diplomatica potrebbe forse suggerire altre alternative rispetto a quelle qui presentate. Ma finora nessuno ci ha provato e non bisogna dimenticare, come ampiamente illustrato qui sopra, che ormai il tempo stringe.

Paolo Casardi

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