Ignazio Musu, Cambiamento climatico: la delusione della COP 29.
La 29a Conferenza delle Parti (COP29) della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC) che si è conclusa a a Baku nell’Azerbaigian il 24 novembre è stata l’ennesima delusione.
Il risultato più importante dell’accordo raggiunto dai quasi 200 paesi riuniti a Baku, noto come New Collective Qualified Goal (NCQG, Nuovo Obiettivo Collettivo Quantificato) della Finanza sul Clima, riguarda essenzialmente l’impegno per i paesi avanzati a triplicare, da 100 miliardi di dollari all’anno a 300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035, i finanziamenti ai paesi in via di sviluppo per gli investimenti necessari a garantire che l’aumento della temperatura globale che non superi 1,5 °C, come richiesto dagli scienziati dell’Intergovernmental Panel for Climate Change (IPCC)
È già qualcosa, anche se poco se si considera, ad esempio, che, secondo un gruppo internazionale di esperti (Independent High-Level Expert Group on Climate Finance), sarebbe necessario mobilizzare un trilione di dollari annui nel 2030 soltanto nei paesi emergenti e in via di sviluppo diversi dalla Cina; e comunque si tratta di impegno al quale non è detto che segua una effettiva decisione di spesa.
Il documento conclusivo della COP 29 richiama altri risultati che però, anche questi, sono soltanto impegni, e neppure ben definiti.
Per esempio, si afferma la necessità di garantire modalità di funzionamento appropriate dei mercati del carbonio in modo da rendere operativi gli scambi tra paesi dei crediti di carbonio, stabiliti nell’Accordo di Parigi del 2015 e ancora non attuati dopo nove anni.
Ci troviamo oggi in una situazione globale nella quale le emissioni di CO2 stanno solo lievemente riducendosi nei paesi avanzati, mentre sono in continua crescita non solo in Cina e in India ma nel resto del mondo, con il risultato che la concentrazione di CO2 nell’atmosfera, dalla quale dipende l’aumento della temperatura globale continua a crescere con una tendenza che va ben al di là non solo di un aumento della temperatura globale entro 1,5°C, ma anche entro i 2°C.
Un mercato del carbonio funzionante a livello globale sarebbe uno strumento importante per canalizzare risorse dai paesi avanzati verso quelli in via di sviluppo orientate verso investimenti per trasformare le loro economie a basso contenuto di carbonio.
Infatti, le innovazioni tecnologiche che pur hanno portato a un calo dei costi delle energie rinnovabili, in particolare dei pannelli solari, e delle batterie non previsto da molti modelli economici, vanno incentivate per passare alla fase di attuazione con aiuti finanziari e investimenti soprattutto nei paesi emergenti e in via di sviluppo.
Secondo il documento conclusivo della COP 29 si dovrebbe arrivare a un mercato centralizzato del carbonio nell’ambito delle Nazioni Unite, attuando il Meccanismo di Accreditamento dell’Accordo di Parigi ancora non attuato; ma anche qui si tratta di un auspicio perché non si definiscono i passaggi per arrivare a un tale mercato centralizzato; vi sarà un Organo di Vigilanza che istituisce il nuovo meccanismo di accreditamento del carbonio per il quale però è stato solo elencata una lunga lista di cose da fare per il 2025.
La COP 29 dimostra ancora una volta che simili assemblee possono essere utili per tener desta a livello globale l’attenzione sul problema del cambiamento climatico, ma non bastano.
Occorrerebbe un impegno specifico delle più importanti economie del mondo come gli Stati Uniti, l’Unione Europea, il Giappone, la Cina; ma la nuova presidenza Trump degli Stati Uniti non fa sperare nulla di buono in questa direzione che richiederebbe non uno scontro, ma una collaborazione, tecnologica e commerciale innanzitutto tra Stati Uniti e Cina.
Forse, il coinvolgimento della Tesla di Elon Musk in Cina nel campo delle auto elettriche e delle batterie può portare a un ridimensionamento delle posizioni più radicalmente contrarie a una collaborazione con la Cina nell’amministrazione Trump; ma è solo una possibilità.
La Cina, molto avanti nel campo delle energie rinnovabili, anche se con un sistema energetico ancora fortemente dipendente dal carbone, potrebbe fare molto a livello globale, soprattutto attraverso la Digital Silk Road all’Interno della Belt and Road e utilizzando la sua azione di promozione geopolitica fondata sull’allargamento dei BRICS, l’impegno necessario dei quali è esplicitamente riconosciuto nella Dichiarazione di Kazan.
Ma il possibile peggioramento dei rapporti tecnologici e commerciali con l’Occidente non va nella direzione di rafforzare questo impegno; e comunque non si può puntare solo sulla Cina e le sue crescenti relazioni egemoniche con i paesi in via di sviluppo per affrontare un problema globale come quello del cambiamento climatico.
L’Unione Europea rivela la sua incapacità di promuovere una organica transizione energetica con la distanza tra le aspirazioni nelle sue direttive verso una economia a basso contenuto di carbonio e la loro concreta realizzazione per un eccesso di regole spesso confuse che rimangono inattuate anche a causa del divario tra le dichiarazioni dei Governi e della stessa Commissione e le applicazioni concrete.
L’Unione Europea non può pensare di contribuire a fare dei passi avanti verso la decarbonizzazione dell’economia mondiale se le sue azioni concrete si limitano ai dazi contro le auto elettriche prodotte in Cina.
Insomma, nonostante qualche piccolo segnale positivo che si può, sia pure con una certa fatica, cercare nelle conclusioni della COP 29, non si può non essere pessimisti sulle possibilità che il mondo sia oggi in grado di affrontare con qualche successo la sfida del cambiamento climatico; con la speranza di essere smentiti dai fatti.