Sul progetto di revisione della forma di governo parlamentare
- Il 15 novembre del 2023 Il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro per le riforme istituzionali hanno presentato al Senato un disegno di legge costituzionale (rectius: di revisione costituzionale) che, modificando alcune disposizioni costituzionali, prevede l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri e l’abolizione della nomina, da parte del Presidente della Repubblica, dei senatori a vita, con l’obiettivo – dichiarato nella stessa intitolazione del disegno di legge – di rafforzare la stabilità dei governi. Com’è noto, l’art. 138 della Costituzione prevede un procedimento aggravato per l’esame e l’approvazione delle leggi di revisione costituzionale e la procedura in corso è solo ai suoi primi passi: la Commissione affari costituzionali del Senato ha approvato alcuni emendamenti al testo del disegno di legge governativo – e fra questi non pochi proposti dallo stesso Governo – e, nel momento in cui si scrive, il testo è all’esame dell’Aula del Senato. Ove approvato, il testo passerà alla Camera dei deputati, dove subirà analogo esame, prima in commissione e poi in Aula. L’art. 138 prevede per i progetti di revisione costituzionale una doppia deliberazione di ciascuna Camera e che tra la prima e la seconda intercorra un tempo non inferiore a tre mesi. Se nella seconda votazione il progetto è approvato con la maggioranza assoluta dei componenti dell’Assemblea – e non dai due terzi – è possibile che un quinto dei membri di una Camera, cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali chiedano il referendum. È verosimile perciò ritenere che, se il disegno di legge giungerà ad essere approvato dalle Camere, i cittadini italiani saranno chiamasti ad esprimersi su esso.
Nella relazione illustrativa del disegno di legge è confermato l’obiettivo – come accennato sopra, già dichiarato nel titolo – di fronteggiare l’instabilità governativa e alla instabilità dei governi sono accostati, come aspetti problematici e, diremmo, patologici, della forma di governo italiana, “l’eterogeneità e la volatilità delle maggioranze [e] il ‘transfughismo’ parlamentare”. A questo obiettivo la proposta di legge affianca un altro che appare specialmente rilevante, quello di “consolidare il principio democratico, valorizzando il ruolo del corpo elettorale nella determinazione dell’indirizzo politico”. Un tale risultato conseguirebbe proprio dall’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri e dalla stabilizzazione della sua carica, “per dare appoggio e continuità al mandato democratico”. Il disegno di legge, pertanto, vorrebbe consentire al governo in carica di progettare ed attuare un indirizzo politico di lunga durata e, al tempo stesso, di arrestare i processi di disaffezione dei cittadini nei confronti della politica, processi che deriverebbero dal disallineamento fra il voto espresso dai cittadini e i comportamenti dei parlamentari. In breve, se i partiti, raccolti o non in coalizioni, non mantengono, dopo le elezioni, gli impegni programmatici e di schieramento assunti durante le campagne elettorali, le conseguenze si misurano poi sia sul versante della scarsa tenuta delle maggioranze governative e della conseguente instabilità dei governi, sia su quello della impossibilità dei rappresentati di mettere a fuoco con relativa sicurezza le responsabilità della classe politica.
Il disegno di legge governativo presenta alcuni tratti essenziali che sono, in sintesi:
- L’elezione, diretta e a suffragio universale, per cinque anni del Presidente del Consiglio, per non più di due legislature consecutive. Il Presidente del Consiglio potrà essere eletto anche per una terza legislatura qualora nelle precedenti abbia ricoperto l’incarico per un periodo inferiore a sette anni e sei mesi. Le votazioni per eleggere le due Camere e il Presidente del Consiglio avverranno contestualmente. Una nuova legge elettorale dovrà assicurare una maggioranza dei seggi, in entrambe le Camere, alle liste e ai candidati collegati al Presidente del Consiglio. Il Presidente della Repubblica conferisce (deve cioè conferire) l’incarico di formare il Governo al Presidente del Consiglio eletto e, su proposta di questi, nomina e revoca i ministri.
- Il Governo, presieduto dal Presidente eletto, deve ricevere la fiducia delle Camere. Nel caso non la ottenga, il Presidente della Repubblica rinnova (cioè deve rinnovare) l’incarico al Presidente eletto. Se di nuovo il Governo non ottiene la fiducia delle Camere il Presidente della Repubblica le scioglie e si torna al voto.
- Se, con mozione motivata, il Parlamento revoca la fiducia al Presidente eletto, il Presidente della Repubblica scioglie le Camere. Qualora il Presidente del Consiglio rassegni le dimissioni dalla carica potrà proporre lo scioglimento delle Camere al Presidente della Repubblica, che dovrà disporlo. Se il Presidente dimissionario non propone lo scioglimento e nei casi di morte, impedimento permanente e decadenza dalla carica, il Presidente della Repubblica può conferire, per una sola volta nel corso della legislatura, l’incarico di formare il Governo allo stesso Presidente dimissionario o ad altro parlamentare eletto in collegamento con il Presidente del Consiglio.
- È abrogata la disposizione costituzionale (art. 59, comma 2) che prevede la nomina, da parte del Presidente della Repubblica, dei senatori a vita.
L’aspetto più rilevante del disegno di legge è certamente la previsione dell’elezione diretta del Presidente del Consiglio, specie per la sua connessione, come si è visto, con gli obiettivi che con essa la proposta di legge si propone di perseguire: stabilità governativa e consolidamento del principio democratico. L’elezione diretta del Capo del Governo permetterebbe ai cittadini di identificare agevolmente la leadership delle coalizioni che competono nella campagna elettorale e di distinguere, nella legislatura che si aprirà, la responsabilità della maggioranza al governo e quella dell’opposizione, sapendo che né ribaltoni né nuovi diversi accordi fra le forze politiche potranno alterare il quadro delle alleanze fra i partiti. In questo ordine di idee, pertanto, è valorizzato un aspetto meccanico e squisitamente elettorale del principio democratico, quello della corrispondenza fra il voto espresso dall’elettore e la fedeltà delle forze politiche che compongono la coalizione al patto che le lega ed ai contenuti programmatici cui si sono vincolate davanti all’elettorato. Non è poco ed è certamente desiderabile che partiti e personale politico si dispongano con atteggiamenti di schiettezza e di lealtà nei reciproci confronti e nei riguardi degli elettori. Tuttavia il nostro ordinamento costituzionale, specie se osservato alla luce delle profonde trasformazioni che la storia dei quasi ottanta anni della Repubblica vi ha impresso, presenta un quadro più complesso, che non dovrebbe essere trascurato.
- Dopo il ventennio fascista e le devastazioni immani della seconda guerra mondiale il costituente repubblicano si trovò di fronte ad un problema formidabile. L’Italia era segnata da storiche divisioni e frammentazioni che risalivano già ai secoli successivi al crollo dell’impero romano. A queste frammentazioni si erano aggiunte, in tempi più recenti, le contrapposizioni ideologiche e di interesse che avevano segnato la storia europea, non solo italiana, fra Otto e Novecento. Si ritenne perciò necessario rafforzare un legame sociale ritenuto, non a torto, molto debole e tentare di apprestare elementi per la costituzione di un’identità civica condivisa, senza tuttavia negare che il conflitto, la diversità degli orientamenti di ideologia e di interesse, fosse elemento costitutivo di un ordine costituzionale pluralista.
Queste premesse, questa visione del problema del costituente, si tradussero in un progetto che fece del Parlamento e della legge parlamentare l’epicentro del nuovo ordine costituzionale repubblicano. Il Parlamento fu inteso come luogo della mediazione e del graduale costituirsi di un terreno comune, che sarebbe dovuto emergere dal conflitto e dal confronto tra diverse e anche contrapposte visioni politiche.
La Costituzione repubblicana, pertanto, rese prima di tutto esplicita – ché tale non era sotto la vigenza dello Statuto Albertino – la relazione di fiducia fra Parlamento e Governo (art. 94 Cost.) e definì i compiti del Governo (art. 95, commi 1 e 2). Se al Governo, nella vigente disciplina costituzionale, spetta certamente un ruolo essenziale nella definizione dell’indirizzo politico – nel mettere a punto, cioè, l’insieme di attività che si progetta di realizzare per affrontare e portare a soluzione i problemi della Nazione – tuttavia questo ruolo sarà esercitato dal Governo nella collaborazione con il Parlamento, che è il solo titolare della funzione legislativa (art. 70 Cost.), ha il potere di determinare la caduta del Governo revocandogli la fiducia con mozione motivata e votata per appello nominale (art. 94, comma 2), è titolare di funzioni di controllo e di indirizzo nei confronti del Governo. In sintesi, l’istituto della fiducia implica una relazione che si svolge nel tempo e che, nella distinzione dei ruoli, presuppone collaborazione fra Governo e Parlamento.
Il costituente repubblicano aveva dunque immaginato che la politica nazionale dovesse essere messa a punto, si ripete, da soggetti investiti direttamente (il Parlamento, attraverso le elezioni) o indirettamente (il Governo, attraverso la fiducia parlamentare) di legittimazione democratica. Questo complessivo progetto del costituente repubblicano – progetto che, com’è noto, si compone di altri elementi, come il ruolo del Presidente della Repubblica, della Corte costituzionale, della Magistratura, della articolazione autonomista della Repubblica – ha mostrato, nel corso dei decenni successivi all’approvazione della Costituzione, e mostra ancora oggi, segni molteplici di crisi. Non posso trattenermi diffusamente su questi segni per mostrare come, per quali vie, abbiamo assistito per esempio, nella prassi costituzionale, all’alterazione del ruolo della decretazione d’urgenza (che da normazione da adottare solo in casi di straordinaria necessità e urgenza è diventata quasi la modalità ordinaria di legiferare), della delegazione legislativa (assai sovente corredata da princìpi e criteri direttivi troppo vaghi e perciò inidonei ad indirizzare e delimitare il potere legislativo delegato del Governo e priva di un’adeguata perimetrazione del suo oggetto), e alla profonda trasformazione dei rapporti Stato-Regioni. Mi limiterò a segnalare solo alcuni fattori causali di questa crisi, senza alcuna pretesa di completezza né di voler esaurire in poche righe un tema così vasto e difficile, ma con l’obiettivo di mettere a fuoco la complessità della crisi della democrazia pluralista, fenomeno non solo italiano ma che si presenta, sia pure con differenti conformazioni in Europa, come conseguenza della diversità delle storie politiche, sociali, economiche, culturali.
Direi, in primo luogo, che se è vero che non sono mancati, specie in alcuni periodi della storia repubblicana, manifestazioni significative di una capacità collaborativa delle forze politiche, tuttavia ha latitato diffusamente una disponibilità dei partiti ad adottare un’ottica di collaborazione nell’affrontare nodi cruciali e storiche difficoltà della società e dell’economia italiane.
In secondo luogo, si è manifestata una crisi delle ideologie che avevano dominato la scena politica e culturale del Novecento non solo italiano ma europeo. Alcuni tentativi di aggiornare quelle ideologie, di contaminarle con elementi di una contemporaneità che si intendeva interpretare, non sono riusciti ad arginare gli effetti della crisi, in termini di caduta di senso della politica nella percezione dei cittadini.
In terzo luogo, si è registrata una tendenza all’acutizzarsi di vicende deteriori della vita dei partiti: sono troppo spesso prevalse ciniche logiche di potere e ha fatto difetto la capacità di elaborazione di visioni e progetti capaci non solo di alimentare consenso ma di affrontare, al contempo, come già accennato, problemi di fondo della società italiana.
In quarto luogo, si è manifestata un’incapacità della politica di intercettare la formazione degli immaginari sociali, capacità che in passato aveva avuto. La politica riesce solo a parassitare stili di pensiero e di azione che si formano invece altrove, laddove esiste una spinta propulsiva alla formazione degli immaginari, più o meno potente (nicchie del mercato capitalista globale, modelli di consumo, stili di vita che si impongono per il tramite dei social, ecc.).
In quinto luogo, la crisi della politica e dei partiti è anche crisi nella titolarità e gestione del potere politico. Si è verificato uno slittamento di sede, per molti piani della decisione politica, dall’ambito nazionale a quello sovranazionale. In area europea, da tempo si lamenta un deficit delle istituzioni dell’Unione europea. Il deficit è ancora più vistoso se si pensa ad altre istituzioni sovranazionali. In sintesi, siamo al cospetto di processi di verticalizzazione del potere, che si concentra verso l’alto, e di impoverimento della legittimazione democratica della politica.
In sesto luogo, questi processi di verticalizzazione si sono prodotti anche all’interno dei partiti, dove sono prevalse forme di personalizzazione delle leadership e di netta accentuazione del potere esercitato dalle segreterie, dai vertici, a danno delle basi.
Questi aspetti di crisi hanno contribuito a creare un ambiente non propizio, se non addirittura tossico, per la coltivazione dell’ispirazione democratica e pluralista dell’ordine costituzionale repubblicano. È legittimo porre la questione se e in che misura problemi di questa portata possano essere affrontati con riforme costituzionali, ma è questione che richiederebbe, per essere affrontata, un lungo discorso. Tuttavia, i fattori di crisi che abbiamo elencato potrebbero contribuire ad una valutazione del disegno di legge governativo ora in discussione. È possibile per esempio chiedersi se l’elezione diretta del Presidente del Consiglio sia più suggerita dalle ricordate tendenze alla personalizzazione del potere ed al suo concentrarsi al vertice delle formazioni politiche che non dall’ambizione di consolidare il principio democratico.
Non sembra che la componente democratica e pluralista dell’ordine costituzionale italiano possa giovarsi di una netta accentuazione del personalismo delle leadership politiche. In particolare, l’articolazione pluralista di una democrazia costituzionale dovrebbe investire, sul piano politico, sulla moltiplicazione delle sedi e degli apporti chiamati a concorrere alla formazione delle concezioni e dei progetti che contribuiscono a definire i programmi di ciascun partito. Non si tratta di individuare un capo ma di permettere prima la fioritura delle visioni e la messa a punto delle prospettive di intervento; poi, certamente, di assicurare la sintesi, auspicabilmente attraverso il confronto più aperto possibile. D’altra parte, gli stessi obiettivi di stabilità governativa potrebbero essere perseguiti con meccanismi meno invasivi rispetto a quello progettato dal disegno di legge in esame, come quello della sfiducia costruttiva, adottato in Germania, Spagna e Belgio. La sfiducia costruttiva inibisce al Parlamento di sfiduciare il Governo in carica se non esiste una maggioranza alternativa in grado di sostenerne un altro. In fondo, la ricerca di maggioranze alternative a quella uscita dalle elezioni non dovrebbe essere intesa in ogni caso come un male, come espressione ineluttabile della vocazione trasformista della politica italiana. È una ricerca che può anche realisticamente prendere atto di mutamenti avvenuti sia nello scenario politico che in quello sociale e il Parlamento è, per dire così, il suo laboratorio d’elezione. Credo sia necessario guardarsi dalla tentazione di cedere definitivamente ad un pessimismo privo di vie d’uscita intorno alle sorti della democrazia parlamentare: se, come è stato detto da un importante giurista ed uomo politico, nelle Camere non si trova altro che “una morta gora”, cosa resta non solo dell’originaria progettazione del costituente repubblicano ma della stessa idea di democrazia rappresentativa?
- Non è da trascurare, inoltre, che il disegno di legge governativo, come accennato, rinvia al legislatore ordinario le scelte intorno all’elezione sia del Presidente del Consiglio sia dei membri delle Camere, limitandosi a stabilire che la futura legge dovrà prevedere un premio su base nazionale che garantisca una maggioranza dei seggi, in entrambi i rami del Parlamento, alla coalizione collegata al Presidente, rispettando i princìpi di rappresentatività e di tutela delle minoranze linguistiche. Almeno due considerazioni sono, a questo proposito, necessarie. La prima è che, dal 2005, abbiamo in Italia un sistema di liste elettorali bloccate, sistema al quale si sono di buon grado adattati tutti i partiti. Le liste elettorali sono definite dalle direzioni o segreterie dei partiti e i cittadini sono privati di ogni possibilità di scelta del candidato. Ora, in un quadro politico caratterizzato, come detto, da una spiccata tendenza alla personalizzazione della leadership, è forse illusorio immaginare che il potenziamento del ruolo del Capo del Governo possa coincidere con una inversione della ventennale tendenza a concentrare nel vertice dei partiti la scelta sulle personalità da candidare. All’opposto, tale potenziamento sembrerebbe coerente proprio con la detta tendenza, ormai diffusa anche nelle formazioni politiche non caratterizzate da un’ esclusiva impronta personale. In questo ordine di idee, potrebbe forse dirsi che la prospettiva dell’elezione diretta del Presidente del Consiglio potrebbe coincidere non con un rafforzamento del principio democratico ma con la conferma della erosione dei margini di scelta a disposizione dei rappresentati.
La seconda considerazione necessaria è che il disegno di legge governativo non stabilisce se il previsto premio di maggioranza potrà essere accordato solo al partito o alla coalizione che abbiano raggiunto una soglia minima di voti, ovvero se sarà attribuito comunque alla formazione politica che abbia ottenuto il miglior risultato rispetto agli altri contendenti; né se sarà previsto o non un ballottaggio fra coloro che abbiano conseguito il maggior numero di voti, e perciò un doppio turno elettorale. Si tratta di incertezze significative, che rinviano a scenari fortemente differenziati, intorno ai quali non è possibile ancora esprimersi. Sarebbe certamente auspicabile che, in ossequio al principio di rappresentatività del sistema elettorale, le scelte degli elettori tornino ad avere rilievo, optando per l’introduzione di collegi uninominali ovvero prevedendo il voto di preferenza. Se, all’opposto, sarà confermata la prospettiva di un Parlamento composto da individui designati dai vertici dei partiti, lo scenario non potrà che confermare la drammatica crisi dell’istituzione parlamentare, crisi di autorevolezza e crisi, come si è visto, delle sue funzioni essenziali.
Il disegno di legge governativo, che pure conserva il rapporto di fiducia fra Parlamento e Governo, che caratterizza la forma di governo parlamentare, sancirebbe il tramonto sostanziale del significato della fiducia nell’ordine costituzionale: non più una collaborazione, nella distinzione dei ruoli, nella formazione ed attuazione dell’indirizzo politico, ma la definitiva emarginazione del Legislativo, ridotto a sede chiamata a confermare scelte interamente maturate altrove, e la preminenza, nel Governo, della figura del Presidente, con conseguente contrazione della sua collegialità e della dialettica che essa implica, che dovrebbe essere implicita in sistemi politici imperniati su coalizioni.
Il fatto è che la crisi della politica, intesa ora per il suo versante di crisi di fiducia del rappresentato per il rappresentante – crisi che ha tutta una sua storia peculiare in Italia e che non nasce certo con l’ordinamento repubblicano – vorrebbe essere affrontata, nella prospettiva del disegno di legge governativo, investendo sulla leadership personale del Capo di Governo. Tuttavia, la caratteristica multipartitica del sistema politico italiano, rimasta tale nonostante tutte le vicende che hanno condotto alla scomparsa di alcuni partiti e alla nascita di altri, suggerisce una opportuna valorizzazione degli apporti plurali che convergono nelle coalizioni e di una dialettica effettiva che permetta a questi apporti di esprimersi. Limiti possono essere previsti, de iure condendo, a questa valorizzazione, per esempio introducendo un potere di revoca del ministro, su proposta del Presidente del Consiglio e, come già accennato, prevedendo una disciplina della sfiducia costruttiva. Tuttavia i veri limiti dovrebbero risiedere nella stessa interpretazione che del proprio ruolo essenziale sapranno dare i soggetti politici: come è stato scritto acutamente, se il livello di moralità di una società scende al di sotto di una certa soglia, la corruzione del suo ordine giuridico ne deriverà inesorabilmente.
- Molto importante, infine, l’incidenza del disegno di legge governativo sul ruolo del Presidente della Repubblica. Non è qui tanto in discussione la prevista abrogazione della nomina dei senatori a vita che, obiettivamente, assumono un peso politico maggiore in un Senato non più composto da 315 ma da 200 componenti, anche se, evidentemente, questo peso potrà, in prospettiva, pendere sia a favore che contro la maggioranza governativa. È invece importante riflettere sulla significativa contrazione dei poteri del Presidente della Repubblica che deriverebbe dal nuovo testo costituzionale: il Capo dello Stato non sarebbe più chiamato ad essere uno dei protagonisti delle fasi di crisi dei rapporti fra Parlamento e Governo, verrebbe infatti meno il suo ruolo nella soluzione delle crisi di governo e nella decisione sullo scioglimento anticipato delle Camere.
La relazione illustrativa del disegno di legge governativo nega tuttavia che i poteri del Presidente della Repubblica siano stati ridimensionati in misura significativa: il ruolo del Capo dello Stato e la sua incidenza nella prassi costituzionale repubblicana, evidentemente apprezzati in termini positivi, suggeriscono, secondo la relazione governativa, di alterare in meno possibile il quadro delle sue funzioni nell’ordinamento costituzionale. Senonché, come risulta da quanto detto sopra, il ridimensionamento dei poteri presidenziali è evidente: il fatto è che il prestigio di cui gode la Presidenza della Repubblica sconsigliava una presa di posizione che motivasse la riduzione dei suoi poteri. Così, conformandosi ad un costume molto diffuso non solo nel milieu politico ma anche nell’ambiente degli studiosi, il Governo non ha voluto esprimere riserve intorno al ruolo assunto dalla Presidenza della Repubblica nella prassi costituzionale.
Questo costume acritico può forse trovare giustificazioni, in un clima di delegittimazione complessiva delle istituzioni democratiche, nel tentativo di sottrarre almeno la figura del Presidente della Repubblica ai rigori di quel clima. Ma si tratta di un costume non salubre per l’ambiente del confronto democratico e, a parere di chi scrive, incompatibile con i compiti degli scholars. Si possono avere opinioni differenziate, anche critiche, sull’operato e il ruolo complessivo che i Presidenti della Repubblica hanno giuocato, via via, nell’ordinamento costituzionale repubblicano; ma, cedendo ad un conformismo molto diffuso, la relazione illustrativa del disegno di legge da un lato non ha inteso esprimere alcuna, neppure indiretta, valutazione critica intorno alla figura del Capo dello Stato; dall’altro, contraddittoriamente e senza il coraggio di dichiararlo, ha significativamente ridimensionato quel ruolo.
Nella discussione avvenuta nella Commissione affari costituzionali del Senato la questione è riemersa e un emendamento proposto da Marcello Pera, poi approvato, ha condotto al testo già ricordato, che vorrebbe compensare la netta contrazione dei compiti del Capo dello Stato escludendo che alcuni atti del Presidente della Repubblica richiedano di essere controfirmati. Il rimedio è peggiore del male: la controfirma degli atti presidenziali assicura la non responsabilità del Presidente della Repubblica per gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni e la correlativa assunzione di responsabilità politica da parte del ministro controfirmante, come previsto dagli artt. 89 e 90 Cost. Ora, pensiamo al caso di esercizio presidenziale, per esempio, del potere di rinvio della legge: il Capo dello Stato potrebbe forse essere ritenuto responsabile per le modalità di concreto esercizio di tale funzione, dato che il rinvio delle leggi non sarebbe più controfirmato? La risposta affermativa implicherebbe la definizione delle conseguenze della responsabilità presidenziale: quali, con quali forme, di fronte a quali organi costituzionali? La sensazione è che la modifica approvata in Commissione si muova all’interno di una logica compensativa: all’aumento dei poteri del vertice del Governo, alla loro concentrazione nella figura del leader politico della maggioranza, corrisponde un incremento anche del potere del Capo dello Stato, incremento che deriverebbe dall’esercizio solitario di alcune funzioni, non più collegate alla responsabilità ministeriale. Si tratta però di una logica opposta a quella che aveva ispirato l’azione del costituente repubblicano, impegnato invece a calibrare i rapporti fra poteri dello Stato nei termini di reciproci condizionamenti e limiti.
Non è forse destituita di fondamento l’impressione che tutta la materia, così delicata, della forma di governo, investita dal progetto di legge in esame, richiederebbe di essere meditata più a fondo da parte di coloro che si propongano obiettivi di revisione del testo costituzionale: una tale meditazione potrebbe suggerire, invece che una revisione della Costituzione, quella di comportamenti e prassi – per esempio, quelli attinenti all’abuso della decretazione d’urgenza, ovvero quelli concernenti la scrittura di testi legislativi incomprensibili, a causa dell’intrico dei rinvii a previgenti disposizioni legislative – che da troppo tempo infliggono ferite profonde all’ordine costituzionale repubblicano.