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Alcune considerazioni sulla storiografia economica italiana nel secondo dopoguerra

di - 13 Marzo 2023
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Il 13 novembre 2022 è scomparso improvvisamente Gianni Toniolo, uno dei maggiori studiosi italiani di storia economica attivi nel secondo dopoguerra. Per oltre mezzo secolo partecipò alla vita accademica e scientifica di alcune delle maggiori università nazionali e internazionali insegnandovi economia e storia economica (Ca’ Foscari, Roma Tor Vergata, Luiss Guido Carli, Duke University), stimolò, orientò e alimentò l’attività dell’ufficio studi della Banca d’Italia, collaborò a giornali e periodici italiani e stranieri di primo piano, coordinò e diresse iniziative scientifiche ed editoriali di prim’ordine, offrì alla comunità scientifica opere storiche dense di pensiero critico e di originali contributi conoscitivi.  Senza i suoi lavori la storiografia economica italiana del secondo dopoguerra, e in particolare quella sulla storia economica dell’Italia pre e post-unitaria e sulla storia del sistema bancario italiano e dell’Istituto centrale di emissione, non sarebbe stata così ricca di contenuti e metodologicamente in linea con le migliori su scala planetaria, come in effetti è stata. Alla storia della Banca d’Italia dedicò una monumentale monografia, il cui primo volume fu presentato pochi giorni prima della sua scomparsa: Pierluigi Ciocca l’ha acutamente recensito su «ApertaContrada»[1].

L’imponente attività scientifica di Gianni Toniolo non è stata ovviamente un fenomeno isolato. Essa fu componente di prim’ordine di una stagione di studi storico-economici apertasi all’indomani del secondo conflitto mondiale e che, visti i risultati prodotti, si presenta a tutt’oggi tra le più vivaci, originali e feconde dell’intera storia della storiografia economica italiana. Nel 1986, in una rassegna della storiografia italiana del precedente ventennio relativa al periodo 1870-1915, notavo che gli studi sulla società e l’economia avevano «superato largamente per mole complessiva e originalità di risultati conseguiti, quelli sulle istituzioni statali e sulla cultura»[2]. A distanza di quasi un quarantennio, pur con tutto l’apprezzamento per quanto è stato prodotto nell’ambito della storia politica, istituzionale, culturale d’Italia, mi sembra che gli studi storico-economici italiani, relativi non solo al periodo 1870-1915 ma al lungo arco di tempo che va dalla seconda metà del Settecento alla caduta del fascismo e anche oltre, abbiano tenuto più che dignitosamente il passo della storiografia economica internazionale ed abbiano anche assunto una crescente importanza per le finalità cognitive e interpretative della storiografia politica italiana.

Sappiamo bene che una marcata attenzione verso la storia economica e sociale d’Italia si era fatta strada sin dalla fine del secolo XIX e l’inizio del XX, con la diffusione del positivismo, del materialismo storico, delle suggestioni economico-giuridiche di Gustav von Schmoller e della sua “giovane scuola storica”, alle quali aveva attinto la scuola economico-giuridica dei Gino Luzzatto, Gaetano Salvemini, Gioacchino Volpe ed altri. Tuttavia i lavori più rilevanti di quella stagione, pur di alto livello scientifico, furono relativi soprattutto all’età medievale e moderna e furono di numero nettamente inferiore a quello degli studi e ricerche realizzati a partire dagli anni Cinquanta del secondo dopoguerra, quando la storiografia economica fece registrare una forte espansione delle risorse intellettuali e materiali, private e pubbliche, in essa impegnate e una crescita di importanza culturale e scientifica senza precedenti, derivante anche da un rapporto organico decisamente più stretto che in passato con la storia politico-istituzionale.

Fra le spinte che concorsero alla crescita quantitativa e qualitativa degli studi storico-economici, oltre a quella intrinseca di ogni disciplina scientifica ad approfondire ed estendere i propri campi di indagine, ebbero un ruolo importante, se non preminente, le incalzanti domande poste dalla drammatica situazione economica e sociale, politica e istituzionale creatasi in Italia con la caduta della dittatura fascista, la sconfitta bellica, la guerra civile, il passaggio dal regime monarchico a quello repubblicano: tutti eventi che inevitabilmente imponevano una rinnovata riflessione a ogni livello sull’intera storia dell’Italia unita e sulle sue origini.  In particolare l’allargamento delle  basi della vita politica e istituzionale della nascente Repubblica, sancito dall’estensione del suffragio universale anche alle donne e dall’avvento al potere della Democrazia cristiana e dei partiti social-comunisti, andò di pari passo con l’insorgere nella cultura storica nazionale di un potente impulso ad indagare meglio e più diffusamente di quanto non si fosse fatto in passato le condizioni di vita materiali, economiche e civili di quelle classi popolari che nel 1861 erano rimaste ai margini o comunque in posizione subalterna nella vita istituzionale e politica dello Stato liberale e poi fascista e che ora giungevano finalmente al potere, ossia i “vinti” del Risorgimento, i “rossi” e i “neri” dell’Italia unita: mazziniani, socialisti, anarchici, cattolici non liberali, ai quali ora la DC e i partiti social-comunisti finalmente davano voce.

A ciò si aggiunse che, di fronte all’entità della catastrofe provocata dal nazionalismo e dal fascismo, ritornarono interrogativi e dubbi sulla stessa natura dell’unificazione nazionale del 1861 e quindi sull’opportunità della sua sopravvivenza. In Sicilia essi sfociarono nell’inquietante movimento separatista di Finocchiaro Aprile: ulteriore impellente spinta, dunque, a rinnovate e più approfondite indagini sulla natura dello Stato unitario nato dal Risorgimento e sul ruolo da esso avuto non solo nello sviluppo della vita politico-istituzionale, del liberalismo, della democrazia e infine dell’avvento della dittatura fascista, ma anche in quel processo di modernizzazione economica e sociale che, dopo i primi movimenti di fine Settecento e del decennio francese, aveva investito le strutture produttive della penisola, alle prese con le sfide che ad un tempo lanciavano ad esse l’aumento senza precedenti della pressione demografica e la rivoluzione industriale. Accanto al processo primario della trasformazione politica e istituzionale quello di modernizzazione economica e sociale era stato parte essenziale del progetto di riscatto nazionale complessivo propugnato dal movimento nazional-risorgimentale italiano, e la cui conoscenza e valutazione storica quindi, negli anni Cinquanta del Novecento, concorreva non meno di quella della storia politico-istituzionale alla formulazione del giudizio complessivo su quasi cento anni di vita unitaria.

La domanda di fondo che si poneva già da qualche tempo nella cultura storica nazionale era se la fine delle libertà liberal-democratiche e l’avvento del fascismo del 1922-24 fossero già scritti nel Dna dello Stato cavouriano nato nel 1861[3]. La risposta a tale domanda era decisamente positiva da parte della storiografia marxistico-gramsciana, cattolica di sinistra e degli eredi dei liberal-democratici gobettiani. Il  massimo esponente postbellico di questa corrente si può individuare in Denis Mack Smith, le cui opere, enormemente diffuse, erano portatrici non solo dell’idea che il fascismo fosse il prodotto inevitabile dello Stato cavouriano, ma anche di un’immagine della vita politico-istituzionale italiana democraticamente deficitaria rispetto al “perfetto” modello anglosassone o a successivi regimi democratici del Vecchio continente e degli USA. Lo Stato cavouriano, nato dalle lotte risorgimentali nel segno dell’egemonia moderata, con il suo ordinamento politico basato su un sistema elettorale a ristretta base censitaria, il suo carattere ultra-elitario, le sue istituzioni autoritarie, le sue politiche sociali ed economiche volte prioritariamente alla conservazione della struttura sociale esistente, con tutti gli anacronismi, privilegi e diseguaglianze che la connotavano, avrebbe, secondo lo storico inglese, inevitabilmente portato allo sbocco totalitario del 1922-25.

Ma era possibile nel 1861 una soluzione diversa da quella moderata e cavouriana? Secondo Antonio Gramsci e Emilio Sereni, sì. Col Risorgimento si sarebbe potuta realizzare anche in Italia quella rivoluzione borghese che i giacobini avevano realizzato in Francia nel 1789-93 e la cui piattaforma programmatica era stata imperniata sull’espropriazione delle terre aristocratiche e ecclesiastiche e la loro assegnazione ai contadini. Se il partito d’azione mazziniano avesse scelto in Italia la via dell’alleanza tra piccola borghesia cittadina e contadini, redistribuendo la proprietà fondiaria a questi ultimi, si sarebbero coinvolte nella rivoluzione nazionale le masse rurali e si sarebbe dato al Risorgimento quello sbocco democratico che invece non ebbe. L’interpretazione del Risorgimento come rivoluzione borghese possibile e volutamente evitata dai liberal-moderati era stata già formulata nell’Italia pre-fascista da Piero Gobetti. La novità della lettura di Gramsci e Sereni diffusa nel secondo dopoguerra stava nell’idea che la mancata rivoluzione agraria e democratico-borghese avesse avuto riflessi negativi non solo sul piano politico istituzionale e sociale, ma anche sullo stesso sviluppo capitalistico dell’economia nazionale. Secondo Gramsci e soprattutto Sereni, infatti, il mantenimento inalterato della struttura sociale nelle campagne, ancora afflitte da residui feudali nella maggior parte del territorio nazionale, era stato causa di un lento sviluppo agricolo e quindi di una debole domanda di beni di consumo rivolta a un apparato industriale che, per questo, era rimasto fragile, fortemente in ritardo rispetto all’estero e altamente squilibrato nella distribuzione territoriale delle capacità produttive e della ricchezza. In altri termini nella chiave interpretativa marxistico-radicale il giudizio storico sul Risorgimento e sullo Stato unitario veniva legato in una misura nettamente superiore che in passato all’andamento delle vicende economiche e al ruolo in esse giocato dallo Stato. Da qui l’importanza dello studio della storia economica cresceva sensibilmente nel quadro della storiografia generale e assumeva un ruolo cruciale nel giudizio sull’impatto dell’Unità nazionale nello sviluppo economico della penisola.

La storiografia liberale di più stretta osservanza etico-politica non si era sino ad allora curata molto del nesso tra storia economica e storia politica sia in generale sia nello specifico dell’interpretazione del Risorgimento. Il suo approccio alla storia del Risorgimento e dell’Italia unita era stato sempre in larga prevalenza ideologico-politico e all’indomani del conflitto continuò per qualche anno nello stesso atteggiamento. Rivendicò quindi il carattere progressivamente democratico dello Stato unitario nato nel 1861, negando conseguentemente il legame strettamente causale tra Stato liberale e fascismo e, per quanto riguarda il giudizio sul Risorgimento, liquidò abbastanza sbrigativamente, con Croce, Antoni, Chabod, l’ipotesi rivoluzionaria gramsciana, definendola irrealizzabile alla luce delle condizioni politiche generali italiane ed europee di metà Ottocento. Non affrontò però il problema posto dalla tesi di Gramsci e Sereni della superiorità dell’azienda contadina su scala familiare ai fini dello sviluppo di un’economia capitalistica rispetto alle altre forme di utilizzazione della terra presenti nella penisola, né si preoccupò di controllare quanto fosse storicamente fondata l’immagine stagnante dell’agricoltura e dello sviluppo economico italiano nel suo insieme dopo l’Unità, presentata dalla storiografia di sinistra. Se ne curò invece Rosario Romeo, un giovane storico di formazione crociana ma fortemente sensibile anche alla lezione della scuola economico-giuridica di Volpe e Salvemini. Sin dalla sua prima opera uscita nel 1950 egli ammise, con Gramsci, che la piccola proprietà contadina sarebbe stata capitalisticamente più progredita del latifondo meridionale, ma negò recisamente che questo avveniva anche rispetto alle forme di possesso fondiario e di sfruttamento della terra presenti soprattutto nell’Italia centro-settentrionale[4].

Nel 1956, nell’opera sua più nota, tornò sull’argomento precisando che se la rivoluzione agraria gramsciana si fosse realizzata su scala nazionale, quindi anche nel Centro-Nord, lo sviluppo dell’agricoltura, la formazione del mercato nazionale, l’industrializzazione e lo sviluppo economico generale della penisola, anziché avanzare più rapidamente di quanto fecero, sarebbero stati rallentati, se non bloccati. A sostegno delle sue osservazioni citò l’analisi presente nel III libro del Capitale di Marx, secondo la quale nell’affermazione del capitalismo la micro-proprietà contadina avrebbe giocato un ruolo altamente frenante, essendo portata per sua natura a favorire prioritariamente l’autoconsumo, rimanendo ben lontana dal poter realizzare l’aumento di produttività che solo le aziende capitalistiche medio-grandi potevano ottenere attraverso la specializzazione colturale e forti investimenti di capitale. A riprova di ciò Romeo adduceva i risultati delle ricerche di storici francesi come Soboul, Lefebvre ed altri, i quali avevano riscontrato che in Francia le zone investite dalla rivoluzione agraria giacobina avevano poi realizzato uno sviluppo economico più lento delle altre. Insomma, la rivoluzione agraria nei termini prefigurati da Gramsci e Sereni, sarebbe stata, oltre che politicamente irrealizzabile, soprattutto economicamente controproducente. In aggiunta, sulla base della documentazione statistica ottocentesca, delle serie statistiche che l’Istat pubblicò nella seconda metà degli anni Cinquanta del Novecento, degli indici della produzione industriale di Silvio Golzio e di Alexander Gerschenkron, Romeo elaborò un suo modello interpretativo che inseriva il caso italiano nel contesto dell’industrializzazione e dello sviluppo economico dei paesi second comer teorizzato dalla letteratura economica anglosassone[5].

L’inquadramento storico di Romeo si basava su una visione dell’andamento dell’agricoltura italiana e del ruolo svolto dallo Stato liberale nell’industrializzazione e nello sviluppo economico nazionale diametralmente opposta a quella della storiografia di sinistra. I dati statistici su commercio estero, produzione, rendite, prezzi, salari, risparmi e soprattutto investimenti, dimostravano che nel primo ventennio, grazie anche al liberismo doganale adottato nel 1861, c’era stato un forte sviluppo delle esportazioni e della produzione agricola, favorita sin dagli anni Quaranta anche dalla crescente richiesta di derrate alimentari dall’estero alimentata dall’urbanizzazione del Nord-Europa. Non c’era stato tuttavia, né prima né dopo l’Unità, un aumento della remunerazione della forza lavoro e dei consumi proporzionato a quello della produzione a causa della perdita di forza contrattuale. L’eccedenza di capitale così formatasi era andata dunque a vantaggio di profitti e rendite ed era stata in gran parte sottratta alle campagne dallo Stato attraverso la politica fiscale, la vendita dei beni nazionali ed ecclesiastici, l’aumento del debito pubblico, il corso forzoso, e impiegata produttivamente negli investimenti in opere pubbliche e in infrastrutture viarie e in particolare ferroviarie, che costituirono quelli che Romeo definì i prerequisiti dell’industrializzazione iniziata poi negli anni Ottanta. Secondo Romeo nel ventennio 1861-80, in seguito soprattutto all’intervento dello Stato, si era realizzata in questo modo un’accumulazione di capitale che non consisteva nel semplice risparmio, ma nel contestuale investimento di esso a fini produttivi. Grazie alla preparazione del primo ventennio l’industrializzazione era iniziata poi in modo significativo negli anni Ottanta con un “decollo” che statisticamente non ebbe le classiche dimensioni del big spurt teorizzate da Alexander Gerschenkron, ma che segnò comunque un netto innalzamento dei ritmi di sviluppo industriale rispetto al precedente ventennio, un deciso inizio a cui altri studiosi avrebbero poi dato altre denominazioni (onda, ciclo tecnico, impennata ecc.), ma che comunque si concretizzò nella creazione nell’area piemontese, ligure e lombarda della prima ossatura di un apparato industriale di tipo nord-europeo. Per Romeo dunque, che pur non disconosceva il ruolo del capitale straniero e del sistema bancario, il principale artefice e acceleratore dei processi di accumulazione e sviluppo del 1861-1880 era stata la politica economica dello Stato, che dalla metà degli anni Ottanta accentuò il suo carattere interventista anche con l’erogazione di incentivi e commesse alle imprese industriali di interesse nazionale e dal 1887 con l’adozione del protezionismo doganale.

Il modello interpretativo delle origini dell’industrializzazione e dello sviluppo economico italiano in età liberale proposto da Romeo, pur non tacendo delle sue specificità, fragilità e contraddizioni, fra cui quella del crescente dualismo Nord-Sud, rovesciava dunque completamente l’immagine negativa della storia economica e della politica economica dello Stato liberale diffusa dalla storiografia di sinistra, iscriveva il caso italiano nella casistica dei paesi second comer, metteva lo Stato al vertice degli agenti surrogatori gerschenkroniani che avevano forzato i tempi dell’avvio dell’industrializzazione. L’azione dello Stato in economia, nonostante le debolezze e le contraddizioni dello sviluppo economico italiano in età liberale, era giudicata dunque positivamente e consolidava in tal senso e in misura decisiva il giudizio storico sull’insieme della storia d’Italia tra l’Unità e la prima guerra mondiale.

L’interpretazione di Romeo fu accolta tutt’altro che passivamente. Ad essa furono rivolte critiche pesanti da più versanti storiografici ma, secondo lo stesso Toniolo, che pure aveva diversi dubbi e riserve su vari punti della visione dello storico siciliano[6], a «Romeo va, comunque, attribuito il merito importante di aver proposto…uno schema interpretativo basato su una teoria esplicita e con ambizioni di verificabilità empirica. Nel quadro della storiografia italiana ciò costituisce tutt’ora un importante riferimento metodologico. Rosario Romeo è uno dei più articolati e fini interpreti della tradizione storiografica liberale … La sua interpretazione dello sviluppo economico italiano, al di là dei problemi analitici e fattuali che solleva, contiene una visione del periodo che – insieme a quella di Gramsci e Sereni… – costituisce un punto di riferimento al quale si è rifatta un’intera generazione di storici»[7].

Dall’interpretazione di Romeo ebbe in effetti inizio un dibattito intenso e fecondo che lo stesso Toniolo ha richiamato ancora una volta in apertura della sua ultima fatica[8] e che assunse dimensioni internazionali grazie all’intervento di Alexander Gerschenkron, del cui insegnamento si giovò anche il giovane Toniolo durante il suo soggiorno ad Harvard. Le critiche di Gerschenkron a Romeo ebbero un notevole successo nella storiografia economica italiana. Gerschenkron chiarì preliminarmente di condividere le critiche di Romeo a Gramsci in tema di ipotesi di rivoluzione agraria. Era invece l’inquadramento dato da Romeo alle origini dell’industrializzazione che non lo convinceva. Secondo Gerschenkron né l’accumulazione di capitale nel primo ventennio post-unitario né il decollo industriale negli anni Ottanta avevano raggiunto proporzioni quantitative tali da consentire di parlare di un vero e proprio big spurt. Le spese in opere pubbliche nel primo ventennio erano state insufficienti a un’adeguata accumulazione e i saggi di sviluppo medio annuo dell’industria nel 1880-87 non avevano superato il 4,6% invece dell’8-10% che sarebbe stato necessario. La causa dell’aborto di questo big spurt sarebbe stata tutta nel fatto che il sistema creditizio italiano non aveva mai puntato veramente al finanziamento dell’industria, nonostante l’esistenza di forti quantità di risparmi tesaurizzati da molti decenni prima dell’Unità. La conferma della sua tesi stava secondo Gerschenkron nel fatto che quando a metà degli anni Novanta nacquero le prime banche miste, immediatamente nel 1896-1908 si ebbe un boom industriale di dimensioni quasi pari a quelle di un big spurt.

Fu dunque la banca mista per Gerschenkron il principale e decisivo agente surrogatore della industrializzazione italiana, perché non solo puntò decisamente agli impieghi nell’industria ma, con i suoi rinnovati quadri dirigenti, favorì la stessa formazione in Italia di un’imprenditoria industriale sino ad allora pressoché inesistente. Quanto all’intervento dello Stato, era stato poco producente per alcuni versi, per altri era stato decisamente negativo ai fini dell’avvio dell’industrializzazione, soprattutto nel caso dell’adozione nel 1887 del protezionismo doganale a favore della siderurgia, che Romeo invece giustificava. Per la siderurgia infatti non esistevano in Italia le materie prime, mentre buone possibilità di sviluppo vi sarebbero state per la meccanica e la chimica qualora protette più energicamente di quanto lo Stato fece. Insomma, fu la banca mista e non lo Stato il massimo artefice del primo decollo industriale italiano, che si ebbe non negli anni Ottanta, ma dopo la nascita nel 1894-95 della Banca Commerciale e del Credito Italiano.

Le analisi dei due modelli furono molteplici. A Romeo fu obiettato (Sereni, Mario Romani, ecc.) che il supporto statistico che provava la crescita produttiva agricola dopo il primo ventennio non era attendibile, quindi che il processo di accumulazione era stato insufficiente a creare i prerequisiti del decollo industriale degli anni Ottanta, peraltro molto debole e territorialmente squilibrato. Franco Bonelli e Luciano Cafagna avanzarono un’obiezione diversa: la crescita della produzione agricola e di surplus di capitale che aveva sostenuto l’accumulazione, circoscritta da Romeo nel 1861-80, era iniziata in realtà sin dalla seconda metà del Settecento, il che riduceva l’impatto del liberoscambismo introdotto nel 1861 ad opera dello Stato unitario. Al riguardo però io stesso ho sottolineato a fine anni Settanta che Romeo aveva identificato l’accumulazione originaria di capitale non solo e non tanto nell’aumento della produzione fisica e nella formazione di surplus di capitale agricolo, quanto nell’impiego di esso in investimenti produttivi in altri settori dell’economia. Di tale drenaggio di risorse era stato massimo artefice lo Stato e in una misura che, per quanto si potesse ritenere modesta, superò sempre e largamente quella dei soppressi antichi Stati della penisola[9]. Peraltro riguardo all’aumento di produzione, profitti e rendite (ma non salari), una serie abbastanza nutrita di studi basati sulla documentazione di archivi di aziende private mai esplorati prima ha dimostrato che esso vi fu e in misura a volte maggiore e in aree anche più estese di quelle indicate da Romeo[10]. Bonelli d’altronde si distinse da Cafagna e anche da Fenoaltea affermando che, nel quadro della trasformazione agraria di lungo periodo di cui sopra, il maggiore evento della storia economica italiana ottocentesca era stata la comparsa di un grande operatore finanziario impersonato dallo Stato che aveva alterato potentemente i ritmi dell’accumulazione di capitale e quindi dello sviluppo economico nazionale. Con ciò egli si allineava con il concetto centrale dell’interpretazione di Romeo, la cui lettura era perfettamente conciliabile, anzi si rafforzava, con la ricostruzione della dinamica produttiva agricola sette-ottocentesca delineata dallo stesso Bonelli e da Cafagna[11].

Anche all’interpretazione di Gerschenkron, nonostante i larghi consensi raccolti[12], furono mosse critiche. Le prime vennero dallo stesso Romeo, che gli obiettò che la banca mista, come ogni altra banca, non creava i capitali, ma li raccoglieva dai depositanti e li investiva, e che quindi non poteva essere sottovalutato e tanto meno ignorato il ruolo dello Stato nella formazione dei depositi e ancor più del loro impiego in capitale fisso sociale e nel sostegno alle strutture industriali, non solo per gli anni precedenti, ma anche per quelli successivi alla nascita della banca mista del 1894-95. Per quanto concerne l’espansione industriale di età depretisiana, liquidata da Gerschenkron come una falsa partenza, Romeo obiettò che essa, pur inferiore statisticamente a quella giolittiana, era comunque esistita, aveva segnato un cambio di passo deciso rispetto al primo ventennio attestato dalle numerose imprese allora nate, compresa la Terni, e non era stata frutto della banca mista non ancora nata. La criticità del modello di Gerschenkron su questo punto fu avanzata anche da Toniolo[13].

Altra critica venne da uno studioso, Antonio Confalonieri, che pubblicò una monumentale storia delle prime banche miste divenuta un classico. Nel primo volume dell’opera l’autore inferse un colpo molto duro alla tesi sostenuta dal Gerschenkron secondo cui la banca mista era nata col preordinato e preminente intento di finanziare l’industria manifatturiera, svolgendo per di più una funzione pedagogico-formativa di una imprenditorialità italiana pressoché inesistente fino agli anni Novanta. A parte il fatto che Silvio Lanaro aveva da tempo messo in luce che in Italia esisteva un autonomo movimento culturale a favore dell’industrializzazione molto prima dell’avvento della banca tedesca[14], Confalonieri documentò che il prioritario intento della Banca commerciale al momento della sua nascita era stato quello di «fare buoni affari con lo Stato italiano» e che vi fu una grande continuità quadri direttivi tra le nuove banche e quelle appena fallite (Credito Mobiliare e Banca Generale)[15]. Confalonieri documentò inoltre che la banca mista rivolse attenzione all’industria – e peraltro non a tutto campo – solo in un secondo momento, quando si rese conto che le condizioni generali della congiuntura lo rendevano conveniente: la rete ferroviaria nazionale si era estesa ormai in tutta la penisola, il protezionismo industriale garantiva una sufficiente difesa del mercato interno, la congiuntura internazionale cambiava di segno, e soprattutto la trasportabilità dell’energia elettrica offriva l’occasione storica di un’ epocale rivoluzione energetica che attraverso l’industria idroelettrica permetteva all’Italia di colmare una parte importante della sua penuria di carbone. D’altro canto da studi anche recenti sul sistema creditizio e in particolare sugli istituti di emissione è emerso che la scarsa propensione ai finanziamenti all’industria prima della crisi bancaria del 1893-4 non derivava da una preclusione aprioristica e quasi ideologica del sistema bancario all’industrializzazione, ma dalla consapevolezza delle limitate prospettive di successo di imprese industriali in un paese scarsamente modernizzato, privo di ferrovie in gran parte del suo territorio e poverissimo di fonti energetiche: anzi in diversi casi si erano avuti impieghi eccessivamente fiduciosi nel successo di iniziative manifatturiere destinate all’insuccesso. Investimenti nell’industria non erano mancati prima della crisi bancaria degli anni Novanta da parte del Credito Mobiliare, della Banca Generale, e di istituti ad esse collegati, e neppure dagli stessi istituti di emissione.

Altra critica al modello di Gerschenkron fu avanzata da Stefano Fenoaltea, il quale costruì nel 1967 un indice della produzione industriale da cui emergeva che la differenza tra l’espansione del 1896-1908, indicata dallo studioso di Harvard come l’epoca del big spurt, e quella degli anni Ottanta, quando le banche miste non esistevano, era minima. Quindi il ruolo prioritario di queste ultime veniva fortemente ridimensionato se non del tutto annullato. In realtà, secondo Fenoaltea, l’avvio dell’industrializzazione italiana non era avvenuto con un big spurt, come aveva sostenuto Gerschenkron, ma con un graduale susseguirsi di cicli tecnici nella cui determinazione il ruolo dello Stato era stato dettato da ragioni politiche e non economiche, ed era stato addirittura controproducente nel settore siderurgico-meccanico, in questo convergendo con Gerschenkron. Fenoaltea disegnava un trend dello sviluppo dell’industria e dell’economia italiana dal 1861 al 1913 caratterizzato da oscillazioni minime, in cui i tradizionali momenti di slancio e di crisi si attenuavano fin quasi a scomparire, come nel caso della crisi agraria degli anni Ottanta. Determinante nel dettare i tempi dello sviluppo industriale italiano non sarebbero stati né lo Stato, né le banche, ma l’andamento dei mercati internazionali dei capitali. Tale lettura collide con gli studi che attestano che il capitale straniero nella composizione degli investimenti in Italia, tranne che nel primo quinquennio di vita del nuovo Stato, rimase sempre inferiore a quello nazionale, e che, secondo gli studi di Hertner, non presi in considerazione da Fenoaltea nella sua sintesi laterziana, quello tedesco intervenuto consistentemente in Italia negli anni Novanta si ritirò abbastanza rapidamente in Germania all’inizio del secolo XX[16].

Sull’influenza nell’industrializzazione italiana della congiuntura internazionale nel suo insieme, e non solo quella dei mercati internazionali di capitale, si era soffermato a suo tempo anche il De Rosa. Egli aveva rilevato che le vicende italiane di quei decenni erano state osservate, da Romeo e Gerschenkron, esclusivamente come «un fatto interno della storia italiana» senza porle in correlazione con le coeve fluttuazioni internazionali. Lo stesso De Rosa aveva tuttavia rilevato che tale carenza semplicemente limitava l’approccio dei due studiosi, ma non poneva in forse la logica interna delle loro argomentazioni che assegnavano un ruolo preminente ai fattori interni e alla loro dialettica[17].

Anche Luciano Cafagna, come Fenoaltea, sostenne sin dagli anni Sessanta del secolo scorso che il passaggio ad una economia industriale era avvenuto in Italia col susseguirsi di una serie di “impennate” tra gli anni Ottanta e il 1922-29, originate da fattori sostitutivi “gerschenkroniani”, senza tuttavia indicare una chiara gerarchia tra di essi (che era stato poi il motivo centrale del discorso sia di Romeo che di Gerschenkron) e allineandosi di fatto alla lettura di Romeo quando collocò la prima “impennata” negli anni Ottanta[18]. Insistette tuttavia in diversi suoi scritti sulla scarsa o nulla influenza sull’industrializzazione italiana di quello che egli chiamò “il contesto statual-nazionale” al punto da sostenere che nel processo di industrializzazione e di sviluppo capitalistico dell’Italia esso fu praticamente ininfluente e che il Nord nulla o quasi dovette al Sud, col quale al momento dell’Unità vi era una bassa complementarità produttiva e, almeno fino al secondo dopoguerra, vi fu un altrettanto basso interscambio di capitali, merci, forza lavoro. Andò così in rotta di collisione con la quasi totalità del meridionalismo storico, con lo stesso Rosario Romeo e con la storiografia marxista[19].

Le aspre critiche al protezionismo sia granario che siderurgico, sollevate dal Gerschenkron e condivise da Fenoaltea, non erano ovviamente una novità: echeggiavano la grande polemica liberistico-meridionalista di fine Ottocento e, per quanto riguarda il dazio sul grano, rilanciavano con insistenza le accuse di aver provocato un innalzamento del prezzo del pane, e quindi del costo del lavoro, che non aveva giovato allo sviluppo industriale. Il che era vero, ma dalla parte opposta si osservava che il protezionismo granario aveva salvato a fine anni Ottanta la cerealicoltura nazionale, la quale restava ancora il comparto con il maggior numero di addetti e il maggior prodotto lordo vendibile, e aveva riequilibrato una bilancia dei pagamenti con l’estero che nel 1887 rischiava di essere travolta dall’ondata incontenibile dei grani americani e dei prodotti industriali europei.

Nel secondo dopoguerra il difensore più strenuo delle ragioni del protezionismo di fine Ottocento fu Giuseppe Are, che respinse tutte le critiche ad esso mosse dal Gerschenkron, e ne mosse invece di pesanti alla scelta liberista del 1861 che era stata invece, secondo lui, la causa principale del ritardo di oltre un ventennio nell’inizio dell’industrializzazione italiana[20].

Sarebbe impossibile menzionare le ulteriori riflessioni e i contributi conoscitivi e interpretativi che hanno preso le mosse dai lavori di Romeo e Gerschenkron. Dal 1963 comparvero alcune antologie che cominciarono a raccogliere i risultati più significativi del dibattito qui sopra riassunto per sommi capi e delle ricerche specifiche effettuate sullo sviluppo economico italiano ottocentesco in qualche modo ad esso collegate. Le più importanti furono quelle a cura di Alberto Caracciolo, Gianni Toniolo, Giorgio Mori[21]. Al di là delle divergenze interpretative da esse emergeva quanto grande fosse l’esigenza di una attendibile documentazione statistica di base relativa a una vasta gamma di indicatori economici e sociali sia settoriali che generali, sia locali che relativi all’intero territorio nazionale, il più possibile continua in un arco temporale esteso dalla seconda metà del Settecento almeno fino allo scoppio della prima guerra mondiale. Solo essa avrebbe permesso infatti di sciogliere in modo più sicuro molti interrogativi relativi all’Ottocento, quando un vero istituto statistico nazionale ancora non esisteva e le esigenze del neonato Regno d’Italia erano assolte dai primi pionieristici annuari, dai censimenti della popolazione e dal servizio raccolta dati del Ministero di agricoltura industria e commercio.

Tuttavia è doveroso ricordare che la grande crescita della storiografia economica italiana del secondo dopoguerra sull’Italia sette, otto e novecentesca non fu legata al 100 per cento agli studi nati dal dibattito Gramsci-Romeo-Gerschenkron. Svariate ricerche furono progettate e messe in cantiere prima che esso avesse inizio e furono sostenute dalla sensibilità culturale di grandi istituzioni della vita economica italiana come l’Istat, l’IRI, la Banca Commerciale Italiana, La Cariplo, la Banca d’Italia e altre. Le prime serie statistiche continue ed omogenee a partire dal 1861 dei conti economici nazionali furono costruite e pubblicate dall’Istat nel 1955-1958 e, nonostante le perplessità e i dubbi sollevati alla loro uscita, furono per molti anni fondamentali per molti studiosi che, a partire da Romeo, le utilizzarono per scrivere le loro opere di storia economica. Ad esse ne seguirono diverse altre che apportarono correzioni e arricchimenti specifici sempre utili, soprattutto per l’Ottocento. Si distinse in tale opera di revisione Stefano Fenoaltea, il cui poderoso sforzo individuale non può essere dimenticato. Ma oltre all’Istat altre istituzioni si erano mosse nella promozione di studi su aspetti specifici importanti della vita economica italiana sette-ottocentesca.

Conserva ancor oggi intatta tutta la sua importanza e originalità l’Archivio economico dell’unificazione italiana, la nutrita collana di studi diretta da Carlo Maria Cipolla, suddivisa in due serie, la prima in fascicoli la seconda in monografie, risultato di ricerche sui più svariati aspetti della vita economica italiana sette e ottocentesca, con proiezioni in alcuni casi fino al Novecento. Fu promossa dall’ IRI in occasione del venticinquesimo della sua fondazione e inaugurata nel 1956 col volume di Pierfrancesco Bandettini su La popolazione della Toscana alla metà dell’Ottocento. Ma già dal 1940, in vista del cinquantesimo anniversario della sua fondazione, la Banca Commerciale Italiana aveva cominciato a porre in cantiere una collana di Studi e ricerche di storia economica italiana nell’età del Risorgimento visto nella sua concezione temporale più ampia, ossia dagli inizi del Settecento fino alla prima guerra mondiale. Come è noto essa si aprì nel 1963 con un volume di sintesi generale di Gino Luzzatto sull’ economia italiana dal 1861 al 1894 che era stato per larga parte scritto prima dell’uscita dei lavori di Romeo. Nello stesso anno uscì uno studio monografico di altissimo valore scientifico di Marino Berengo sull’agricoltura veneta dalla caduta della Repubblica all’Unità frutto di anni di duro lavoro archivistico, che può essere considerato il vero inizio della collana. Il culmine scientifico di essa fu toccato dal già ricordato lavoro di Antonio Confalonieri, Banca e industria in Italia 1894-1906 il cui primo volume di premesse delineava in realtà una storia del sistema bancario italiano a partire dal 1861 che incrociava criticamente, come abbiamo visto, la lettura data da Alexander Gerschenkron riguardo al ruolo della banca mista tedesca nel decollo industriale italiano.

Altrettanto preziosi furono gli studi promossi e finanziati dalla Cariplo, in particolare quelli contenuti nell’intera Storia economica d’Italia, un’opera in più volumi curata da Pierluigi Ciocca e Gianni Toniolo (Cariplo – Banca Intesa – Laterza, Roma-Bari 1998-2003), che hanno lumeggiato non solo la storia dell’Istituto, non solo aspetti della storia economica, sociale e amministrativa della Lombardia e del Veneto, ma anche i rapporti tra industria e politica nell’Italia liberale. Accanto a questi aspetti vanno ricordate le problematiche di largo respiro della storia economica europea trattate da grandi studiosi stranieri come Barry Eichengreen (Gabbie d’oro. Il «gold standard» e la Grande depressione 1919-1939, con presentazione di Gianni Toniolo), V. S. Alkhimov, E. Moreau, C.P. Kindleberger.

Dal sistema bancario italiano sono state promosse numerose iniziative di studio che hanno chiarito in modo sempre più articolato la geografia di un sistema creditizio pre e post-unitario, sicuramente meno forte ed evoluto dei più avanzati sistemi europei, sicuramente diversificato tra Nord e Sud al momento dell’Unità, ma che comunque non risulta come la palla al piede dello sviluppo economico italiano neppure prima della crisi bancaria del 1893-4, nonostante le tare e le collusioni oblique ormai abbastanza ben chiarite nelle loro varie articolazioni nella penisola e nelle Isole, e le resistenze e i ritardi causati all’ avvento di un unico Istituto di emissione. Qui corre l’obbligo di ricordare almeno, oltre ai grandi lavori di Luigi e Gabriele De Rosa sul Banco di Roma, promossi e pubblicati dallo stesso istituto, la Storia del Banco di Sardegna. Credito, istituzioni, sviluppo dal XVIII al XX secolo, a cura e con un corposo saggio di Gianni Toniolo (Laterza, Roma-Bari 1995), opera promossa dall’ ABI, nonché la recente Storia del Banco di Sicilia, a cura di Pierfrancesco Asso, (Donzelli, Roma), promossa dalla Fondazione Banco di Sicilia, oltre ovviamente alla monumentale e già ricordata Storia della Banca d’Italia di Gianni Toniolo.

L’opera di Toniolo è stata l’ultimo tassello dell’azione scientifica ed editoriale di storia economica italiana di gran lunga più importante sostenuta da un Ente pubblico: la Collana storica della Banca d’Italia, di cui sono sinora usciti ben 46 volumi, tutti ben noti non solo al mondo degli addetti ai lavori ma anche all’intera cultura storica nazionale. Essi hanno contribuito a sviluppare al massimo livello una storiografia che ha saputo riannodare le fila di una storia etico-civile nazionale nata con l’Unità d’Italia spezzate tra le macerie della seconda guerra mondiale.

Di questo immenso patrimonio di ricerche scientifiche si sono avvalsi studiosi che di tanto in tanto nel corso degli anni hanno tentato individualmente di interpretare in sintesi le vicende economiche italiane da fine Settecento in poi con l’occhio proteso sin dall’inizio alle problematiche del dopoguerra, del miracolo economico, e da ultimo al declino successivo agli anni Settanta del Novecento e tutt’oggi perdurante.

Lo stesso Romeo offrì nel 1961 una prima sintesi di lungo periodo dedicata alla storia della grande industria in Italia dal 1861 al 1940 e in successiva edizione del 1972 fino al 1961. Successivamente (1964) comparve negli Stati Uniti una sintesi di Shepard B. Clough, che nel 1973 fu tradotta in italiano e revisionata con la collaborazione di Luigi De Rosa e la prefazione di Rosario Romeo. Il connotato di base della storia economica italiana dell’Ottocento vi era individuato da un lato nell’elevata debolezza economica di partenza aggravata dalla penuria di fonti energetiche e dall’altro nella grande forzatura dei tempi e dell’entità dell’accumulazione di capitale messa in atto da parte dello Stato unitario. Il punto conclusivo della parabola economica iniziata nel 1861, ossia del miracolo economico, visto come il superamento dell’arretratezza economica e l’ingresso definitivo dell’Italia nel novero dei paesi più sviluppati e dinamici del pianeta, era spiegato con l’intreccio virtuoso tra fattori morali (la volontà dello sviluppo) e fattori politici ed economici che animarono nel secondo dopoguerra la vita di una comunità nazionale vogliosa di libertà e benessere, anche se le classi lavoratrici ancora reclamavano una parte maggiore di quella avuta sino ad allora nel godimento dei frutti dello sviluppo.

Nel 1975 comparve una nuova, corposa sintesi scritta da Valerio Castronovo per il IV volume della Storia d’Italia Einaudi[22]. Grazie a una conoscenza aggiornata e pressoché completa della letteratura sull’argomento, lo sguardo vi si spingeva sino agli inizi degli anni Settanta del Novecento, già con una chiara sensazione che nella storia economica del paese il 1968-69 stesse marcando una svolta non effimera e non in meglio. Per quanto riguardava l’Ottocento disegnava un quadro oltremodo grave dell’arretratezza italiana rispetto al contesto europeo al momento dell’Unità, ma non condivideva, d’accordo con Romeo, l’ipotesi che una rivoluzione agraria di tipo gramsciano sarebbe stato il rimedio più adatto alla situazione, come proposto invece da Gramsci e Sereni, al punto da affermare che in molte aree del paese la cosa più utile da fare sarebbe stato l’accorpamento delle micro-proprietà in aziende più grandi e non la spartizione delle terre su scala familiare, peraltro impossibile. Castronovo nutriva comunque dubbi sulle dimensioni della crescita agraria del primo ventennio e sull’intensità dell’accumulazione, anche se riteneva che la tesi di Romeo sull’importanza dell’infrastrutturazione del primo ventennio ai fini dell’industrializzazione fosse pienamente condivisibile per quanto riguardava sia l’inizio “debole” degli anni Ottanta, sia il decisivo boom dell’età giolittiana garantito dal protezionismo del 1887, dalla banca mista e dagli altri e ben noti fattori (rivoluzione energetica, rimesse degli emigrati ecc.) che vi concorsero. Non era stata però una marcia trionfale quella dello sviluppo economico in età liberale. Castronovo era molto attento alle incompiutezze e alle parzialità di esso e in particolare, sulla linea tracciata dalle pagine conclusive del Risorgimento e capitalismo di Romeo, dava grande spazio al dualismo economico Nord-Sud come componente strutturale dello sviluppo capitalistico italiano.

Nel 1988 comparve per opera di Gianni Toniolo la prima sintesi organica di storia economica dell’Italia liberale scritta nel dopoguerra. Toniolo vi metteva pienamente a frutto tutta la competenza direttamente maturata nella partecipazione al dibattito aperto da Romeo e Gerschenkron e nell’utilizzazione dei più aggiornati risultati sino ad allora ottenuti dalla storiografia economica italiana. Il percorso delineato da quella italiana, pur nella piena consapevolezza dell’incertezza e possibile volatilità dei valori statistici disponibili per l’Ottocento, era quello di un’economia arretrata che crebbe lentamente nel quarantennio 1861-1896, e fortemente nel 1896-1913. Pur nell’attenta considerazione delle argomentazioni di Romeo circa l’andamento della produzione agraria nel primo ventennio post-unitario, giudicava debole l’accumulazione nel primo ventennio, ma concordava sull’inizio del processo di industrializzazione negli anni Ottanta, anche se non nella dimensione di un big spurt. Accettava il ridimensionamento del ruolo della banca mista messo in atto da Confalonieri, ma vedeva comunque nel boom sia agricolo che industriale dell’età giolittiana la prima fase in cui la crescita del Pil pro capite italiano aveva assunto ritmi tali da superare quello dei paesi più industrializzati d’Europa, iniziando quindi ad accorciare il divario rispetto ad essi. Segnalava nel contempo che l’allargamento del divario Nord-Sud diveniva un limite dello sviluppo senza eguali in altri paesi sviluppati.

Nel 1990 comparve una nuova sintesi di lungo periodo scritta da Vera Zamagni, che si era distinta sin dagli anni Settanta per l’intenso lavoro di ricerca svolto sul fronte del rapporto tra istruzione e sviluppo e su quello della diversificazione territoriale Nord-Sud. Il titolo era significativo della sua linea di lettura di lungo periodo: Dalla periferia al centro. La seconda rinascita economica dell’Italia /1861-1881[23]. Quanto alla storia economica dell’età liberale si poneva più o meno in linea con Toniolo: scettica riguardo a una forte crescita agraria e connessa accumulazione nel primo ventennio post-unitario, concordava anche nel giudizio positivo sul protezionismo e nella valutazione delle dimensioni e dei caratteri del boom giolittiano. Tuttavia quanto al passaggio ad una economia industriale, e quindi al raggiungimento del centro del mondo sviluppato, il percorso non terminava nel 1918. Per Zamagni nel 1861 l’Italia era un paese periferico che aveva iniziato un cammino di recupero e aveva fatto i suoi passi decisivi con il miracolo economico, raggiungendo o quasi i paesi più evoluti d’Europa. Tuttavia dagli anni Settanta del Novecento lo sviluppo economico italiano aveva segnato il passo in termini assoluti, e in termini relativi aveva visto allontanarsi nuovamente il centro, che si andava spostando verso lidi extraeuropei. Il titolo della conclusione del libro conteneva significativamente un punto interrogativo che nel titolo generale mancava: Conclusioni. Dalla periferia al centro? Le speranze per Zamagni non erano certo perse, ma il percorso si era fatto oltremodo accidentato.

Che qualcosa si fosse rotto (irrimediabilmente?) nel cammino dell’economia italiana negli anni Settanta-Ottanta appariva ormai chiaro a Valerio Castronovo, che nel 1995, allo sbocco della crisi finale della prima Repubblica, sentì il bisogno di dare alle stampe una nuova Storia economica d’Italia. Dall’Ottocento ad oggi[24] con la quale riscriveva la sintesi del 1975 aggiornandone la bibliografia senza comunque cambiare granché nell’interpretazione di fondo fino agli anni Sessanta del Novecento: quindi ancora il percorso lungo, accidentato, discontinuo verso lo sviluppo e il benessere di un paese in partenza povero di materie prime e arretrato economicamente e socialmente. Un percorso che aveva superato le gore del sottosviluppo e della miseria negli anni Sessanta del Novecento, ma che dagli anni Settanta in poi aveva completamente cambiato strada, passando dallo sviluppo travolgente e senza inflazione né aumento del deficit e tanto meno del debito pubblico in rapporto al pil, al ristagno, all’inflazione a due cifre e all’aumento vertiginoso del debito del ventennio Settanta-Ottanta, nonché  alla ripresa della crescita del divario Nord-Sud  che, dopo un decennio di riduzione, nel 1973 era tornato ad  aumentare in termini di pil pro-capite e di altri specifici indicatori.

La deriva alla quale il Mezzogiorno sembrò nuovamente abbandonato in quegli anni, culminata nella chiusura completa tra il 1986 e 1992 della Cassa per il Mezzogiorno, la comparsa sulla scena politica di un nuovo movimento secessionista nella parte più avanzata del paese, in concomitanza col ringalluzzirsi di pulsioni neo-borboniche nel Sud, si accompagnava negli anni Novanta a una violenta retrospettiva anti-risorgimentale, ben più pericolosa di quella fiorita all’indomani del secondo conflitto mondiale col movimento secessionista siciliano e con la diffusione dell’interpretazione gramsciana, che comunque anti-unitaria non era. L’evidente declino economico su scala nazionale sfociava in una crescente pulsione al si salvi chi può politico-istituzionale che rendeva sempre più debole il sentimento di appartenenza alla comunità nazionale e allo Stato unitario nato nel 1861. Tornava comodo rappresentare l’Unità nazionale non più come un’ operazione di riscatto e di modernizzazione economica e civile dell’intera nazione, ma come un’ opera  da cui solo il Piemonte sabaudo e cavouriano aveva tratto vantaggio, rovinando il resto della penisola, ossia il Regno Lombardo-Veneto rappresentato dai nostalgici asburgici come un’area economicamente all’avanguardia in Italia e in Europa, il Regno delle Due Sicilie visto dai neo-borbonici come la terza potenza industriale d’Europa e quindi del mondo, lo Stato Pontificio come sede di una tranquilla economia agro-pastorale al riparo dagli orrori sociali prodotti dalla prima industrializzazione europea.

In questo clima mi sembrò doveroso tornare a interrogarmi sugli effetti economici del Risorgimento e dell’Unità d’Italia, al fine di verificare se effettivamente essi erano poi stato quel pessimo affare di cui si parlava e scriveva. Per questo ripresi in mano gli studi effettuati negli anni Settanta nell’ambito del dibattito su Risorgimento e capitalismo di Romeo per verificarne la tenuta e scrivere un volume, Unità nazionale e sviluppo economico 1750-1913, che rinunciava a trattare la storia economica d’Italia successiva all’età giolittiana e si concentrava invece su quella sette-ottocentesca nel corso della quale si era formata l’economia unitaria. Questo per misurare il più rigorosamente possibile gli effetti economici della creazione del nuovo Stato anche alla luce delle numerose ricerche promosse da istituzioni pubbliche e private di cui ho in precedenza parlato (IRI, Banca Commerciale, Banca d’Italia ecc.). I risultati della rinnovata riflessione furono che sicuramente Bonelli e Cafagna, ma anche altri come Alberto Caracciolo, avevano ragione quando avevano sostenuto che una crescita della produzione agricola era iniziata già nella seconda metà del Settecento. A metà Ottocento l’agricoltura italiana era ancora in grado di provvedere al fabbisogno alimentare di una popolazione passata nell’arco di un secolo da 15 a 21 milioni di abitanti senza che si fossero registrati cospicui aumenti di importazione di derrate alimentari. Anzi era sempre viva l’esportazione di diversi prodotti arborei e lattiero caseari. La sfida demografica poteva dirsi dunque vinta e l’agricoltura italiana non era poi tanto arretrata rispetto a quella nord-europea quanto a livelli di produzione in rapporto alla popolazione.

Tutt’altra invece la situazione in campo industriale. I numerosi studi effettuati nel secondo dopoguerra documentavano la nascita e la crescita di un discreto numero di stabilimenti sparsi in tutta la penisola, anche nel Mezzogiorno. Ma quanto all’avvento di un vero apparato industriale, proprio nella prima metà dell’Ottocento si era creato un autentico baratro nei livelli di produzione e produttività. La produzione cotoniera e siderurgica italiana era scesa a circa un centesimo di quella inglese.  Nel settore delle infrastrutture, specie ferroviarie, solo Piemonte, Liguria e Lombardia nel 1861 avevano livelli di dotazione in qualche misura paragonabili a quelli nord-europei, e il divario tra esse e il Mezzogiorno era enorme, come lo era anche nell’analfabetismo.

In definitiva, nonostante che l’immagine di un’Italia preunitaria del tutto immobile, cara alla retorica risorgimentale, risultasse marcatamente non veritiera, il quadro delineato da quasi tutti gli autori di cui si è sinora parlato restava quello di una economia eminentemente agricolo-commerciale, priva di fonti energetiche, fortemente arretrata nel processi di modernizzazione, e soprattutto appariva inconfutabile che l’arretratezza industriale maturata all’ombra dei ristretti mercati preunitari protetti, ben lungi dal diminuire era ancora in crescita, anche nelle regioni Settentrionali più avanzate.

Dalle dinamiche post-unitarie, sia quelle agricole che industriali e terziarie, appariva evidente che l’Italia unita cambiò passo rispetto agli Stati preunitari, sia pure con tutti i limiti, le lentezze e le contraddizioni che la storiografia ha sottolineato, e in particolare nonostante che lo squilibrio territoriale Nord Sud invece di diminuire aumentasse vistosamente soprattutto in età giolittiana. In definitiva le conclusioni alle quali pervenivo nel 1998, e alle quali continuo a credere, sono che l’Unità d’Italia portò vantaggi a tutti, anche se furono di diversa entità tra Nord e Sud, e che solo nello Stato unitario la tendenza a crescere dell’arretratezza si arrestò e, come aveva sostenuto Toniolo, in età giolittiana si invertì[25].

Di quanto e come fosse cresciuta la ricchezza degli italiani dalla seconda metà del Settecento al 2005, nonostante l’aggravarsi del divario Nord-Sud, lo ha illustrato nel 2007 la sintesi di P. Ciocca, Ricchi per sempre? Una storia economica d’Italia (1796-2005)[26]. L’Italia, partita da condizioni di povertà gravissime a fine Settecento, ancora nel 2005 figurava tra i paesi più ricchi del mondo. E tuttavia l’autore scriveva chiaramente nell’inquietudine angosciosa provocatagli dalla perdurante stagione di rallentamento e ristagno apertasi negli anni Settanta del Novecento. Ciocca era sgomento di fronte a una storia economica ricostruita con grande dovizia di aggiornate statistiche italiane e straniere e di studi specifici, nella quale un paese come l’Italia, fanalino di coda dello sviluppo economico europeo nell’Ottocento, era divenuto negli anni del miracolo economico una delle punte dello sviluppo economico continentale, ma poi era tornato retroguardia dell’UE, segnando, col ristagno delle attività produttive del 2001-05, il peggior quinquennio del dopoguerra (p. 21), donde l’interrogativo del titolo del libro. E dire che il peggio doveva ancora arrivare!

Resta comunque la consolazione che in questo contesto non si può certo dire che la storiografia economica sia rimasta con le mani in mano.

 

 

[1] G. Toniolo, Storia della Banca d’Italia, tomo I, Formazione ed evoluzione di una banca centrale, 1893-1943, il Mulino, Bologna 2022

[2] G. Pescosolido, Il periodo 1870-1915, in La storiografia italiana nell’ultimo ventennio, a cura di Luigi De Rosa, vol. III, Età contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1989, p. 56.

[3] Si trattava di una domanda che contemporaneamente e anche più drammaticamente rispetto a quella italiana veniva posta in quegli stessi anni alla storiografia tedesca: da dove nasceva il nazismo, da quale parte spazio-temporale della storia della nazione germanica esso aveva tratto origine? Ma non è certo l’intento di queste poche riflessioni di entrare nell’immenso dibattito sulle origini del nazismo e del fascismo al quale avremmo ben poco da aggiungere. Interessa invece sottolineare solo in che modo e in qual misura la rinnovata riflessione sullo Stato unitario, che per gran parte della storiografia italiana significò rilanciare il processo al Risorgimento di democratico-gobettiana memoria, influenzò gli sviluppi della storiografia economica post-bellica.

[4] Lo fece nella sua prima opera Il Risorgimento in Sicilia, Laterza, Bari 1950, nella II ed. Laterza, Bari 1970, pp. 383-385.

[5] Gli scritti nei quali espose la sua interpretazione furono R. Romeo, Risorgimento e capitalismo, Laterza, Bari 1959 e id., Breve storia della grande industria in Italia, Cappelli, Bologna, 1961.

[6] Si v. Lo sviluppo economico italiano 1861-1940, a cura di Gianni Toniolo, Laterza, Roma Bari, 1973.

[7] Cfr. G. Toniolo, Storia economica dell’Italia liberale 1850-1918, Il Mulino, Bologna 1988, p. 221.

[8] Cfr. Id., Storia della Banca d’Italia cit., pp. 100 sgg.

[9] Altre volte nella storia si erano presentati periodi di formazione di eccedenze di capitale, ma queste erano state impiegate in spese belliche o di lusso o per altri consumi improduttivi, cfr. R. Romeo, Risorgimento e capitalismo, I ed Universale Laterza, Bari 1970, p. 121.

[10] Io stesso effettuai studi specifici in alcune proprietà nel Lazio e altri studiosi in diverse aziende e proprietà terriere in altre parti d’Italia con risultati favorevoli alla crescita espansiva della produzione cerealicola almeno fino al 1880, quando divennero pesanti gli effetti della concorrenza dei grani americani e l’espansione della cerealicoltura si arrestò. Particolarmente significativo mi sembra ai fini della valutazione dei ritmi dell’accumulazione prima e dopo l’Unità l’andamento da me direttamente ricostruito della rendita fondiaria di circa 14.000 ha di terre latifondistiche nel Lazio. L’indice passò dalla base 100 nel 1810 a 114 nel 1850, a 130 nel 1860, a 213 nel 1880, cfr. G. Pescosolido, Agricoltura e industria nell’Italia unita, Le Monnier, Firenze 1983, ultima ed., Laterza, Roma-Bari 2004, p. 88. Per quanto riguarda le colture specializzate è unanimemente riconosciuto e ampiamente documentato il loro sviluppo vivacissimo dopo l’Unità, divenuto travolgente per la viticoltura negli anni Ottanta; cfr. Id. Unità nazionale e sviluppo economico 1750 1913, Laterza, Roma-Bari 1998, pp. 186-197.

[11] Sull’allineamento Bonelli-Romeo si v. anche G. Toniolo, Storia economica cit., pp. 228.

[12] Valga per tutti quello di Giorgio Mori, che pur avendo affermato che le diverse ipotesi interpretative formulate dopo quella di Romeo erano tutte alla ricerca di un’«armatura di supporto in buona parte ancora da edificare», finiva poi per aderire alla lettura di Gerschenkron corretta da Cafagna, cfr. G. Mori, Il tempo della protoindustrializzazione, in L’industrializzazione in Italia (1861-1940), a cura di Giorgio Mori, Il Mulino, Bologna 1977, pp. 12, 34-36.

[13] G. Pescosolido, Agricoltura e industria cit., pp. 29-32, G. Toniolo, Storia economica cit., pp 223-224.

[14] S. Lanaro, Nazionalismo e ideologia del blocco corporativo-protezionista in Italia, in «Ideologie». Quaderni di storia contemporanea», 1962, pp. 36-93.

[15] Riferimenti puntuali alle pagine di Confalonieri in G. Pescosolido, Agricoltura e industria cit., pp. 29-33.

[16] Cfr. cfr. P. Hertner, Banche tedesche e sviluppo economico italiano (1883-1914), in Ricerche per la storia della Banca d’Italia, 5 voll., Roma-Bari 1990-1994, vol. I, 1990, p. 97; S. Fenoaltea, L’economia italiana dall’Unità alla grande guerra, Laterza, Roma-Bari 2006. Sulla problematicità della lettura di Fenoaltea cfr. G. Toniolo, Storia economica cit., pp. 226-227.

[17] Cfr. L. De Rosa, La rivoluzione industriale in Italia e il Mezzogiorno, Laterza, Bari 1973, II ed. 1974, pp. 9-10, G. Pescosolido, Agricoltura e industria cit. pp. 46-47.

[18] L. Cafagna, Intorno alle origini del dualismo economico italiano, in Problemi storici della industrializzazione e dello sviluppo, a cura di Alberto Caracciolo, Argalia, Urbino 1965, p. 145 e sg., poi riproposto in L. Cafagna, Dualismo e sviluppo, cit., in part. p. 216.

[19] R. Villari, L’interdipendenza tra Nord e Sud, in «Studi storici», aprile-giugno 1977, pp. 16 e ss.; R. Zangheri, Dualismo economico e formazione dell’Italia moderna, in La formazione dell’Italia industriale, a cura di Alberto Caracciolo, op. cit., pp. 285-288.

[20] G. Are, Alle origini dell’Italia industriale, Guida Editori, Napoli 1974, e Id., Economia e politica nell’Italia liberale (1890-1915), Il Mulino, Bologna 1974.

[21] La formazione dell’Italia industriale. Discussioni e ricerche di Romeo, Gerschenkron, Dal Pane, Cafagna, Eckaus, Tosi, a cura di Alberto Caracciolo, Laterza, Bari 1963, successive edizioni di cui la V (1973) con aggiunta di saggi di L. Spaventa, S. Fenoaltea, R. Zangheri; Lo sviluppo economico italiano 1861-1940, a cura di Gianni Toniolo, op.cit., L’industrializzazione in Italia (1861-1940), a cura di Giorgio Mori, op. cit.. Una mia riflessione sul dibattito fu presentata per la prima volta in due saggi pubblicati nel 1977-79 e poi raccolti in G. Pescosolido, Agricoltura e industria nell’Italia unita.

[22] V. Castronovo, La storia economica, in Storia d’Italia, vol. IV, Dall’Unità a oggi, tomo I, Einaudi, Torino 1975, pp. 5-506.

[23] Il Mulino, Bologna 1990.

[24] Einaudi, Torino 1995.

[25] G. Toniolo, Storia economica cit., pp. 159 sgg.

[26] Bollati Boringhieri, Torino 2007.


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