Transizione energetica e cambiamento climatico: Cina e COP26
Esiste un settore nel quale uno scenario geopolitico di collaborazione tra Cina e Occidente è possibile perché sarebbe senza alcun dubbio di mutuo beneficio: si tratta della transizione energetica necessaria per affrontare la sfida del riscaldamento globale e del cambiamento climatico.
Il cambiamento climatico è una esternalità globale, ossia colpisce tutti i paesi sia pure in modo differenziato, senza che si possa contare sul ruolo automatico del mercato per affrontarlo.
E’ vero che, proprio perché il cambiamento climatico è una esternalità negativa globale, i singoli paesi sono spinti verso comportamenti “free-riding”, ossia a non intraprendere iniziative adeguate per ridurre le emissioni di gas serra perché pensano di trarre vantaggio dalle riduzioni intraprese dagli altri paesi.
Ed è anche vero che gli accordi cooperativi sottoscritti per ridurre le emissioni di gas serra sono intrinsecamente instabili perché, se un paese che si era impegnato in un tale accordo non lo rispetta, anche gli altri paesi avranno un incentivo a defezionare dall’accordo, con il rischio che l’accordo finisca per fallire.
Ma proprio per superare queste difficoltà che, se non superate, danneggiano tutti, non vi sono alternative a una collaborazione nella quale la Cina, come gli Stati Uniti e l’Europa, svolgono un ruolo essenziale; essi hanno quindi oggettivamente tutto l’interesse a questa collaborazione.
In Cina anche sotto questo aspetto le cose stanno cambiando: nell’autunno del 2020 il presidente Xi Jinping ha annunciato un sentiero di neutralità climatica caratterizzato dall’obiettivo di arrivare al massimo delle emissioni di CO2 nel 2030 e all’annullamento delle emissioni nette entro il 2060.
L’attuazione di una simile strategia è cruciale perché senza l’apporto del più grande consumatore di energia ed emettitore di carbonio del mondo (la Cina è responsabile di un terzo delle emissioni globali di CO2) non è immaginabile che si raggiungano gli obiettivi universalmente accettati con l’accordo sul cambiamento climatico firmato a Parigi alla fine del 2015, obiettivi che comporterebbero di evitare che il riscaldamento globale superi 1,5° C rispetto al livello pre-industriale della temperatura.
Non c’è da stupirsi se è così difficile raggiungere gli obiettivi di riscaldamento globale ritenuti compatibili con il successo nella lotta contro la sfida del cambiamento climatico, perché il sistema energetico mondiale è ancora basato sui combustibili fossili, nonostante i progressi nell’utilizzo delle energie rinnovabili.
Secondo l’obiettivo Net Zero Emissions (NZE), sul quale è stata costruita la COP 26, per ottenere un aumento del riscaldamento globale limitato a 1,5°C rispetto al 1900, le emissioni nette di CO2 dovrebbero dimezzarsi entro il 2030 rispetto al livello raggiunto nel 2010, fino a annullarsi intorno al 2050.
Se ci si accontentasse di raggiungere l’obiettivo di un riscaldamento globale di 2°C, le emissioni nette di CO2 dovrebbero ridursi di un quarto entro il 2030 e annullarsi entro il 2070.
Imporre l’obiettivo di NZE entro il 2050 appare del tutto irrealistico se si considera che le emissioni globali di CO2, che erano scese di quasi il 6% nel 2020 per effetto della caduta del PIL globale a causa della pandemia di Covid 19, nel 2021 sono tornate a salire di quasi il 5%, molto di più di quanto è avvenuto con la ripresa dalla crisi economica globale del 2008.
Con la continuazione, del resto da tutti auspicata, della ripresa economica dopo la pandemia, le emissioni globali aumenterebbero, secondo le stesse Nazioni Unite, del 16% nel 2030 rispetto al 2010, mettendo il mondo sul sentiero di un insostenibile riscaldamento globale di 2,7°C alla fine del secolo.
D’altra parte, secondo l’International Energy Agency, per ottenere l’obiettivo di annullare le emissioni nette di gas serra al 2050, due terzi dell’offerta globale di energia dovrebbero provenire da energia solare, eolica, bioenergia, energia geotermica e idroelettrica; un obiettivo estremamente difficile da raggiungere se si considera che negli ultimi dieci anni il peso delle energie rinnovabili nella generazione totale di energia primaria è salito solo dall’8 al 12 per cento.
Probabilmente non c’era alternativa a impostare COP 26 sulla base dell’obiettivo NZE dato anche l’allarme dato dall’ultimo rapporto IPCC; ma non ci può stupire delle conclusioni a cui COP 26 è arrivata, e neanche dell’atteggiamento più gradualista dimostrato dai paesi in via di sviluppo e emergenti, cominciando da India e Cina.
Queste ultime sono state accusate in Occidente di essere le responsabili dell’annacquamento degli obiettivi di riduzione delle emissioni risultante nella deliberazione finale di Glasgow; ma si potrebbe anche dire che, almeno per quanto riguarda la Cina, si è piuttosto trattato di realismo.
Ci sono senza dubbio elementi contraddittori nel rapporto tra sistema energetico e crescita economica in Cina.
Il consumo di energia in Cina è raddoppiato rispetto al 2005, ma l’intensità energetica in termini di domanda di energia rispetto al PIL si è significativamente ridotta nello stesso periodo.
Il carbone conta ancora per il 57 per cento della produzione di energia e genera il 70 per cento della sua elettricità; nel prossimo piano quinquennale 2021-2025 non si parla di abbandonare il carbone; si parla solo di un carbone più pulito sia nelle procedure di estrazione sia attraverso impianti più efficienti nella produzione di energia.
La messa fuori uso degli impianti a carbone esistenti oggi non sarà facile perché si tratta di impianti la cui durata prevista, alla costruzione, era di trent’anni, e la maggior parte dei quali sono appena a un terzo della loro durata; le stesse stime cinesi sono che solo nel 2040 potrebbero essere tutti sostituiti da impianti più efficienti.
La Cina ha recentemente annunciato che non finanzierà più la costruzione di nuovi impianti a carbone in altri paesi (e questo è importante visto che metà degli impianti a carbone nel mondo sono di costruzione cinese), ma non sul suo territorio.
Ma, d’altra parte, in Cina gli aumenti nella capacità del solare fotovoltaico hanno superato quelli di ogni altro paese a mondo; inoltre sette dei dieci più importanti produttori di turbine eoliche al mondo sono cinesi.
La Cina è il secondo consumatore di petrolio al mondo, ma in una situazione nella quale le previsioni sono che sui due miliardi di automobili che saranno in circolazione nel mondo nel 2050 (rispetto agli attuali un miliardo e mezzo) il 50 per cento dovrebbero essere veicoli elettrici, è indiscutibile il ruolo crescente che la Cina sta già manifestando nella produzione di veicoli elettrici.
Così come è importante il fatto che la Cina ha il 70 per cento della capacità di produzione delle batterie per veicoli elettrici, e che la Cina controlla circa il 90 per cento dell’offerta mondiale di materie rare, alcune delle quali come litio, cobalto e nickel sono cruciali per la costruzione di batterie, e la Cina ha una presenza dominante nell’estrazione di questi minerali; ad esempio, il 70 per cento del cobalto è estratto nella Repubblica Democratica del Congo dove 15 su 19 miniere sono possedute o finanziate da società cinesi; le valutazioni poi sono che la Cina raffini e processi dal 50 al 70 per cento del litio e del cobalto, oltre che il 35 per cento del nickel, estratti al mondo.
Ma oggi la Cina si sta spostando verso batterie che contano sull’uso del litio, ma possono fare a meno del cobalto e del nickel, con un notevole risparmio di costi perché il litio, del quale peraltro la Cina possiede importanti miniere, è più abbondante; la CATL (Contemporary Amperex TechoLogy), nel Fujian, il più grande produttore al mondo di batterie detenendo il 30 per cento del mercato mondiale, sta investendo per sviluppare batterie basate su materiali ancora meno cari (come ioni di sodio) con una maggiore capacità di immagazzinare energia e per periodi più lunghi.
Recentemente il governo cinese ha richiesto all’International Energy Agency (IEA) un rapporto che descrive lo scenario secondo il quale la Cina può raggiungere la neutralità climatica, arrivando al massimo delle emissioni di CO2 entro il 2030 per poi arrivare a emissioni nette pari a zero nel 2060, secondo quanto dichiarato dal presidente Xi Jinping.
Il rapporto IEA è stato reso pubblico nel settembre 2021; successivamente il 25 ottobre 2021 il Consiglio di Stato (ossia il Consiglio dei ministri) della Cina ha rilasciato un suo piano per il raggiungimento della neutralità climatica, che specifica il piano proposto nel rapporto dell’IEA; questo è attualmente il piano per il raggiungimento della neutralità climatica in Cina con un orizzonte fissato per il 2060.
Per raggiungere questo obiettivo di neutralità climatica, la domanda di energia in Cina dovrebbe continuare a crescere del 18% fino al 2030, ma da quel momento dovrebbe cominciare a ridursi fino a diminuire del 26% fino al 2060.
La quota delle energie a basso contenuto di carbonio (solare, eolica, bioenergia, nucleare e idroelettrica) dovrebbe salire dall’attuale 15% al 75% nel 2060, con il solare e l’eolico che dovrebbero diventare le più importanti fonti di energia rinnovabile.
Al 2060 la domanda di carbone dovrebbe essere caduta dell’80 per cento, quella di petrolio del 60 per cento e quella di gas naturale del 45 per cento.
La quota combustibili basati su idrogeno ottenuto con elettrolisi a basso contenuto di carbonio dovrebbe salire dall’attuale livello dell’1% fino al 10% nel 2060, sostanzialmente ripartita tra il settore industria e quello trasporti, contribuendo a più del 3% della riduzione delle emissioni entro il 2060.
Investimenti consistenti dovrebbero andare anche a strutture per la cattura, l’accumulazione e l’utilizzo del carbonio (CCUS) che dovrebbero entrare in funzione soprattutto tra il 2030 e il 2060, quando dovrebbero essere responsabili dell’8% della riduzione cumulativa delle emissioni.
Il piano poi indica i settori nei quali dovrebbe concentrarsi lo sforzo per la riduzione delle emissioni: il settore siderurgico, quello dei metalli non ferrosi, quello delle costruzioni e quello petrolchimico, quello dell’elettricità e quello dei trasporti; l’energia nucleare verrà sviluppata, ma “in modo ordinato” con la predisposizione e l’attuazione di progetti di reattori più sicuri ed efficaci.
Per arrivare a questi risultati le esigenze di investimenti “verdi” in modo da riorganizzare radicalmente l’economia sono enormi: le stime sono che la Cina dovrebbe investire $6,5 trilioni entro il 2060 (più di $160 miliardi all’anno per quarant’anni); nel 2019 sono stati investiti “solo” $90 miliardi, un cifra elevata, ma non adeguata.
Si tratta di un progetto di grande respiro e impegno; le politiche necessarie per attuarlo puntano principalmente sull’innovazione tecnologica low-carbon e sull’adattamento delle infrastrutture; ma è anche previsto un maggiore impegno nella introduzione di meccanismi di “carbon trading”.
Che Cina e Stati Uniti, ovviamente insieme all’Europa, svolgano un ruolo essenziale e abbiano oggettivamente tutto l’interesse a una collaborazione sembra prendere atto la dichiarazione congiunta presentata da Cina e Stati Uniti in occasione della Cop26.
Nonostante questa dichiarazione, è però opportuno ricordare che, durante la seconda visita di Kerry in Cina, il ministro degli esteri cinese Wang Yi ha dichiarato che la collaborazione tra i due paesi nel cambiamento climatico non può essere staccata dalla situazione delle relazioni complessive tra Cina e Stati Uniti; la Cina, in altre parole, non coopererebbe senza modifiche da parte degli Stati Uniti su alcuni punti strategici delle tensioni che caratterizzano i rapporti tra i due paesi.
Nonostante le dichiarazioni aperte di Biden e Xi Jinping nel lungo incontro online del novembre 2021, il problema della collaborazione tra Cina e Stati Uniti su questo terreno resta quindi aperto; il problema centrale è se questa collaborazione implica una competizione costruttiva o se viene compromessa da una competizione distruttiva.
Se dovesse prevalere una competizione distruttiva, la conseguenze sul clima potrebbero diventare drammatiche perché verrebbe compromessa la diffusione internazionale delle tecnologie “low carbon”; per esempio, gli Stati Uniti controllano le tecnologie avanzate per i semiconduttori richiesti per i veicoli elettrici, mentre la Cina è all’avanguardia nel mondo per le tecnologie relative alle batterie; se i due paesi entrano in un’ottica restrittiva delle esportazioni di questi prodotti il progresso mondiale dei veicoli elettrici verrebbe compromesso.
Gli effetti sul cambiamento climatico sarebbero invece positivi per il mondo intero se invece prevale una competizione costruttiva nella ricerca e negli investimenti in energie “low carbon” e nell’aiuto ai paesi in via di sviluppo per la riduzione delle loro emissioni; Cina e Stati Uniti dovrebbero anche competere su chi si mostra superiore nel consentire un rapido progresso nella sfida del cambiamento climatico: se la Cina col uso modello autoritario del partito-stato o gli Stati Uniti col loro modello di capitalismo democratico.