Dopo il voto tedesco
La politica economica attuata dalla Germania negli anni Duemila è negativa. Lo è non solo per l’Europa, ma per la stessa società tedesca. In Germania la coalizione e in particolare la SPD hanno perso le elezioni anche perché quella politica economica ha dissipato risorse capaci di lenire lo scontento della parte meno abbiente e più insicura della popolazione, specie all’Est.
Forse non tutto il male viene per nuocere. Forse si dischiude uno spiraglio d’opportunità. La nuova coalizione di governo, includa o meno i socialdemocratici, potrebbe far tesoro della lezione. La politica economica rigorista potrebbe cambiare.
Il rigore della politica di bilancio tedesca si è imperniato sulla trasformazione dal 2014 in un avanzo (0,8% del Pil nel 2017) di un deficit che nel 2003-2007 (prima della recessione del 2008-2009) si aggirava sul 2,6% del Pil. Ma ciò è avvenuto nel modo peggiore, riducendo gli investimenti pubblici al minimo storico del 2% del Pil, inadeguato financo ad ammortizzare l’esistente. L’istituto KfW stima in 126 miliardi di euro il vuoto d’infrastrutture da colmare, specie nelle scuole dai tetti cadenti e nella rete stradale. Il ponte di Leverkusen sul Reno è chiuso per crepe dal 2012. Da qualche settimana lo è anche quello 80 chilometri più a Nord. La Ruhr è quasi separata dall’Olanda negli autotrasporti. Carenze si segnalano in altre infrastrutture civili.
Chi pensa che la Germania tragga vantaggi da come la sua economia e di riflesso l’economia europea sono state governate sbaglia. È vero il contrario. Una politica siffatta ha inflitto al popolo tedesco almeno quattro ordini di costi economico-sociali:
Oltre a comportare oneri siffatti la politica seguìta ha mancato di rivolgere sufficienti risorse a correggere le sperequazioni distributive presenti nella società tedesca:
Tutto ciò, va ribadito, mentre la crescita dell’intera economia era inferiore al potenziale, si cedevano all’estero e si dissipavano risorse reali, il bilancio pubblico correggeva il disavanzo abbattendo le spese in conto capitale.
Di queste contraddizioni la classe dirigente tedesca non può non avere contezza. Si può sperare che le contraddizioni vengano risolte in futuro, se l’esperienza insegna.
Ma perché non lo sono state nel volgere dell’ultimo ventennio? Perché i cittadini le hanno accettate?
L’avversione del popolo tedesco per l’inflazione e per il debito estero, sperimentati con immani sofferenze tra la prima e la seconda guerra, non vale a spiegare. L’inflazione è da trent’anni inferiore al 2%. Dal 1960 la nazione non è più debitrice dell’estero, da vent’anni creditrice. La popolazione invecchia, ma le pensioni si pagano con la crescita dell’economia, non con crediti esteri su cui si accusano perdite. Tedeschi disinformati, o appagati? Difficile dire…
L’Europa ha bisogno della Germania quanto la Germania dell’Europa. Ma colliderebbe con l’ideale dell’Europa unita tra pari una Germania che perseguisse la sua posizione creditoria netta verso l’estero al fine di esercitare egemonia sugli altri paesi membri.
Occorre aggiungere almeno due notazioni.
Se anch’essi devono mettere la loro casa economica in ordine, i tedeschi hanno ragione quando sollecitano gli altri paesi europei a smetterla di razzolare male. In Italia in particolare persiste un trend di crescita che, nonostante la ripresina ciclica, è reso negativo dal calo dello stock di capitale e dal vuoto di progresso tecnico. L’Italia deve quindi completare il riequilibrio del bilancio della PA e, tornando il Pil nominale a crescere, abbattere il rapporto fra debito pubblico e prodotto; deve volgere la spesa pubblica dalle uscite correnti all’investimento in infrastrutture; deve riscrivere il diritto dell’economia; deve con la concorrenza costringere le imprese all’innovazione; deve correggere una distribuzione del reddito altamente sperequata; deve tornare a porsi la questione meridionale. Solo se procederà lungo queste linee il Bel Paese recupererà la credibilità perduta e potrà in Europa contare politicamente.
Infine, i policy makers europei devono convenire che Keynes non è lo… spendaccione dipinto da chi non l’ha letto. Era contro lo “scavare buche”, contro i disavanzi strutturali di bilancio, contro il debito pubblico. Predicava massicci investimenti pubblici, produttivi e con alto moltiplicatore, in un bilancio tendenzialmente in equilibrio nel quale essi in un tempo non lungo si autofinanziano attraverso il gettito derivante dall’incremento di reddito che generano. Continuare a disconoscere, vietare, la golden rule è un vero delitto economico contro gli europei.