Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, ordinanza 25 settembre 2013, n. 21
L’Adunanza plenaria ha rimesso all’esame della Corte di giustizia dell’Unione Europea la questione pregiudiziale sulla questione – oggetto di orientamenti giurisprudenziali contrastanti – se sia compatibile con i principi dell’Unione Europea in materia ambientale una normativa nazionale che non consenta di imporre l’esecuzione delle misure di sicurezza d’emergenza e di bonifica al proprietario non responsabile dell’inquinamento in caso di accertata contaminazione di un sito e di impossibilità di individuare il soggetto responsabile.
N. 00021/2013 REG.PROV.COLL.
N. 00028/2013 REG.RIC.
N. 00027/2013 REG.RIC.
N. 00029/2013 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria)
ha pronunciato la presente
ORDINANZA
RINVIO PREGIUDIZIALE ALLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA
sul ricorso numero di registro generale 28 di A.P. del 2013, proposto da:
Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Ministero della Salute, Ispra – Istituto Superiore per la Protezione e a Ricerca Ambientale, in persona dei rispettivi legali rappresentantipro tempore, tutti rappresentati e difesi per legge dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliataria in Roma, via dei Portoghesi, 12;
contro
Fipa Group s.r.l. (già Nasco s.r.l.), in persona del legale rappresentantepro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Giovan Candido Di Gioia e Francesco Massa, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Giovan Candido Di Gioia in Roma, piazza G. Mazzini, 27;
nei confronti di
Comune di Massa, Regione Toscana, Provincia di Massa Carrara, Comune di Carrara, Arpat – Agenzia regionale per la protezione ambientale della Toscana, Ediltecnica s.r.l., non costituitisi;
sul ricorso numero di registro generale 27 di A.P. del 2013, proposto da: Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Ministero della Salute, Ispra – Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, in persona dei rispettivi legali rappresentantipro tempore, tutti rappresentati e difesi per legge dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliataria in Roma, via dei Portoghesi, 12;
contro
Tws Automation s.r.l., in persona del legale rappresentantepro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Roberto Lazzini e Stefano Prosperi Mangili, con domicilio eletto presso l’avvocato Stefano Prosperi Mangili in Roma, via G. Battista Vico, 1;
nei confronti di
Comune di Massa, Regione Toscana, Provincia di Massa Carrara, Comune di Carrara, Arpat – Agenzia regionale per la protezione ambientale della Toscana, Ediltecnica s.r.l., non costituitisi;
sul ricorso numero di registro generale 29 di A.P. del 2013, proposto da: Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Ministero della Salute, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, tutti rappresentati e difesi per legge dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliataria in Roma, via dei Portoghesi, 12;
contro
Ivan s.r.l., in persona del legale rappresentantepro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Giovan Candido Di Gioia e Francesco Massa, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Giovanni Di Gioia in Roma, Piazza Mazzini, n. 27;
nei confronti di
Edison s.p.a. (già Montedison s.p.a.) in persona del legale rappresentantepro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Maria Stefania Masini, Wladimiro Troise Mangoni e Gian Luca Conti, con domicilio eletto presso l’avvocato Maria Stefania Masini in Roma, via Antonio Gramsci n.24; Comune di Massa, Regione Toscana, Provincia di Massa Carrara, Comune di Carrara, Arpat – Agenzia regionale per la protezione ambientale della Toscana, Ediltecnica s.r.l., non costituitisi;;
per la riforma
quanto al ricorso n. 28 del 2013:
della sentenza breve del T.a.r. Toscana – Firenze: Sezione II n. 01666/2012, resa tra le parti;
quanto al ricorso n. 27 del 2013:
della sentenza del T.a.r. Toscana – Firenze: Sezione II n. 01659/2012, resa tra le parti;
quanto al ricorso n. 29 del 2013:
della sentenza del T.a.r. Toscana – Firenze: Sezione II n. 01664/2012, resa tra le parti;
Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio di Fipa Group s.r.l., di Tws Automation s.r.l., di Ivan s.r.l. e di Edison s.p.a.;
Viste le memorie difensive;
Visto l’art. 79, comma 1, cod. proc. amm.;
Visto l’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore alla udienza pubblica del giorno 8 luglio 2013 il consigliere Roberto Giovagnoli e uditi per le parti l’avvocato dello Stato Gerardis e gli avvocati Di Gioia, Prosperi Mangili, Masini e Troise Mangoni.
La vicenda processuale
1. Giungono alla decisione dell’Adunanza Plenaria tre ricorsi in appello proposti dal Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare avverso altrettante sentenze con cui il T.A.R. della Toscana ha accolto i ricorsi in primo grado proposti dalle società Fipa Group s.r.l. (già Nasco s.r.l.), TWS Automation s.r.l. e Ivan s.r.l. – che si erano rese acquirenti di alcune aree, già appartenute a società del gruppo Montedison e incluse nel sito di interesse nazionale di Massa Carrara, in quanto interessate da gravi fenomeni di contaminazione – e, per l’effetto, ha annullato gli atti con cui i soggetti pubblici competenti hanno loro ordinato – in qualità di proprietari delle aree – di avviare specifiche misure di messa in sicurezza di emergenza, nonché di presentare la variante del progetto di bonifica dell’area (progetto risalente al 1995).
2. Le sentenze in questione sono state appellate dal Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, il quale ha articolato tre ricorsi in appello, fondati su argomenti coincidenti.
I motivi di appello
3. Con un primo ordine di motivi, il Ministero osserva che i primi Giudici avrebbero dovuto rilevare l’inammissibilità dei ricorsi di primo grado per la ritenuta insussistenza di un interesse diretto, concreto ed attuale all’impugnativa.
Ed infatti, un siffatto interesse sarebbe nel caso di specie assente, in considerazione del fatto che nessun pregiudizio diretto ed immediato poteva derivare alla sfera di interessi delle ricorrenti in primo grado, atteso che l’amministrazione avrebbe potuto agire in loro danno solo se si fosse verificato un evento futuro e incerto (la paventata inadempienza della Montedison s.r.l. – ora Edison s.p.a. – rispetto agli obblighi di cui al Titolo V della Parte IV del decreto legislativo 3 aprile 2006, n., 152).
Inoltre, i primi Giudici avrebbero dovuto concludere nel senso dell’inammissibilità dei ricorsi in considerazione del fatto che i provvedimenti impugnati dinanzi al T.A.R. erano stati notificati alle società odierne appellate solo in quanto proprietarie delle aree e che tali provvedimenti non contenevano alcun ordine nei loro confronti, sì da porre in dubbio la stessa legittimazione al ricorso, prima ancora dell’interesse ad agire.
4. Con un secondo ordine di motivi, il Ministero appellante chiede la riforma della sentenza in epigrafe per la parte in cui è stato accolto il motivo di ricorso con il quale si era contestata la sussistenza dei presupposti per attivare la messa in sicurezza d’emergenza e per impartire le conseguenti disposizioni nei confronti dei soggetti proprietari delle aree.
Questo motivo concerne due distinti aspetti delle sentenze in epigrafe (entrambi, tuttavia, determinanti ai fini della complessiva risoluzione della vicenda).
4.1. In primo luogo, il Ministero appellante lamenta che erroneamente i primi Giudici abbiano negato la sussistenza dei presupposti per disporre l’adozione delle misure di messa in sicurezza d’emergenza di cui all’articolo 240, comma 1, letteram), del decreto legislativo n. 152 del 2006.
Contrariamente a quanto ritenuto dai primi Giudici, infatti, le misure di messa in sicurezza d’emergenza potrebbero essere disposte anche al fine di evitare un incremento repentino (non ancora verificatosi, ma in concreto possibile) e potenzialmente immediato e incontrollabile dell’inquinamento. Sotto tale aspetto, la sentenza in epigrafe sarebbe meritevole di riforma per non aver considerato che l’approccio in questione è quello maggiormente compatibile con i principi della precauzione, dell’azione preventiva e della correzione in via prioritaria alla fonte dei danni causati all’ambiente.
4.2. In secondo luogo, i primi Giudici non avrebbero considerato che nei confronti del proprietario del sito inquinato ben possono essere adottati i provvedimenti di cui al titolo IV della parte IV del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, a prescindere dalla sussistenza di una prova in ordine all’addebitabilità dell’inquinamento alle sue azioni o omissioni.
Ad avviso del Ministero appellante, invero, il principio di matrice comunitaria “chi inquina paga” dovrebbe essere inteso con un’ampia accezione interpretativa e avendo prioritario rilievo alla funzione di salvaguardia al cui presidio il principio in questione è posto. In definitiva, il principio in parola dovrebbe essere letto nel senso che la responsabilità degli operatori economici proprietari o utilizzatori di aree industriali ricadenti nell’ambito di siti inquinati si qualificherebbe quale “oggettiva responsabilità imprenditoriale”, conseguente all’esercizio di un’attività ontologicamente pericolosa.
Ne consegue che i proprietari delle aree sarebbero tenuti a sostenere integralmente gli oneri necessari a garantire la tutela dell’ambiente (ad esempio, mediante la realizzazione degli interventi di messa in sicurezza d’emergenza) in correlazione causale con tutti, indistintamente, i fenomeni di compromissione collegati alla destinazione produttiva del sito il quale sarebbe, sotto tale aspetto, gravato da un vero e proprio onere reale finalizzato alla tutela di prevalenti interessi della collettività.
Del resto l’approccio in questione sarebbe compatibile con un sistema (quello delineato dagli articoli 240 e seguenti del decreto legislativo 152 del 2006) il quale, nelle ipotesi in cui il responsabile dell’inquinamento non sia in concreto individuabile o non provveda, non prevede che la responsabilità (per così dire “di ultima istanza”) gravi sulla collettività, ma prevede che i relativi oneri gravino a carico della proprietà, salvo il diritto di rivalsa da parte del proprietario nei confronti del responsabile.
Sotto questo aspetto, la sentenza in epigrafe sarebbe meritevole di riforma laddove ha affermato che, nell’ipotesi di mancata effettuazione degli interventi di ripristino ambientale da parte del responsabile dell’inquinamento (ovvero, nelle ipotesi di mancata sua identificazione), le attività di recupero ambientale dovrebbero essere eseguite dalla P.A. competente (la quale potrà a sua volta rivalersi sul soggetto responsabile nei limiti del valore dell’area bonificata anche esercitando – laddove la rivalsa non abbia avuto buon fine – le “garanzie” gravanti sul terreno in relazione ai medesimi interventi).
5. Con un terzo ordine di motivi, il Ministero lamenta che le sentenze appellate non avrebbero considerato che l’applicazione del principio comunitario “chi inquina paga” ben può consentire l’imposizione a un soggetto di misure urgenti di tutela ambientale in virtù del mero dato oggettivo della relazione con il sito inquinato e a prescindere dalla prova di aver cagionato l’evento con la propria condotta dolosa o colposa.
Ciò sarebbe compatibile con la natura cautelare (e di estrema tutela) e non sanzionatoria che caratterizza le misure di tutela ambientale d’urgenza.
L’approccio in questione sarebbe confermato dalla giurisprudenza nazionale (viene citata, al riguardo, Cons. Stato, V, 16 novembre 2005, n. 6406) e comunitaria (viene citata la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea del 9 marzo 2010, sui ricorsi riuniti C-379/08 e C-380/08).
Il Ministero appellante annette particolare importanza ai fini del decidere alla sentenza da ultimo richiamata, la quale ha affermato che l’ordinamento comunitario ammette che le misure di riparazione del danno ambientale possano essere imposte a un soggetto a prescindere dalla dimostrazione dell’esistenza di un comportamento doloso o colposo da parte dell’operatore le cui attività siano considerate all’origine del danno ambientale.
6. Con un quarto ordine di motivi, il Ministero appellante chiede la riforma delle sentenze in epigrafe per la parte in cui non hanno considerato che l’imposizione al proprietario dell’obbligo di ripristino ambientale risulta compatibile con il principio comunitario di precauzione, il quale postula che – in tutti i casi in cui non siano conosciuti con certezza i rischi indotti da un’attività potenzialmente pericolosa – l’azione dei pubblici poteri deve tradursi in una prevenzione precoce, anticipatoria rispetto al consolidarsi delle conoscenze scientifiche.
7. Con un quinto ordine di motivi, il Ministero appellante chiede la riforma delle sentenze in epigrafe per la parte in cui hanno assorbito il motivo dedotto dalle società ricorrenti in primo grado in relazione alla pretesa non conformità delle “prescrizioni” imposte in seno alla conferenza di servizi decisoria rispetto ai contenuti dell’accordo di programma intervenuto fra i competenti soggetti pubblici.
Sotto tale aspetto, la pronuncia di assorbimento non risulterebbe corretta, atteso che i primi Giudici avrebbero piuttosto dovuto respingere il motivo di ricorso, in quanto infondato, con le conseguente statuizione di rigetto dei ricorsi nel loro complesso.
L’ordinanza della Sesta Sezione di rimessione all’Adunanza Plenaria.
8. All’esito della camera di consiglio dell’8 marzo 2013, fissata per la decisione sull’istanza cautelare, la Sesta Sezione ha:
– riunito i ricorsi;
– reso tre ordinanze, con cui è stata respinta l’istanza di sospensione cautelare degli effetti delle sentenze impugnate, per carenza dei presupposti di legge;
– trattenuto in decisione i ricorsi e reso sentenza parziale con contestuale ordinanza di rimessione all’Adunanza Plenaria (Cons. Stato, Sezione Sesta, 21 maggio 2013, n. 2740).
In particolare, la Sesta Sezione ha:a) ritenuto non fondata l’eccezione di inammissibilità dell’appello sollevata dalla difesa della Nasco s.r.l. (ora FIPA Group s.r.l.) per non essere stato il ricorso in appello notificato alla società Montedison s.r.l. (ora Edison s.p.a.), poiché alla società Montedison è stato notificato il ricorso in appello n. 659/2013, nell’ambito del quale essa ha potuto compiutamente articolare le proprie difese;b) respinto i motivi di appello con i quali il Ministero ha chiesto che il ricorso di primo grado fosse dichiarato inammissibile per carenza di legittimazione attiva e interesse ad agire in capo alle società ricorrenti in primo grado (la cui posizione giuridica potrebbe essere incisa solo nell’ipotesi – futura ed incerta – del temuto inadempimento di Montedison). Al riguardo, secondo la Sezione, è risultato dirimente il fatto che i provvedimenti impugnati in primo grado sanciscono l’obbligo in via solidale delle società oggi appellate per la realizzazione degli interventi di messa in sicurezza di emergenza e per la presentazione delle varianti ai progetti di bonifica. Ne consegue, afferma la sentenza, che i provvedimenti impugnati in primo grado risultano idonei ad incidere in modo negativo nella sfera giuridica di tali imprese, imponendo in capo ad esse (in via solidale rispetto al soggetto responsabile dell’inquinamento) onerosi obblighi difacere;c) dichiarato inammissibili – per difetto di interesse – i motivi di appello con i quali il Ministero ha chiesto di riformare le sentenze per avere negato che nel caso in esame sussistessero i presupposti per imporre misure di messa in sicurezza di emergenza, difettando le condizioni all’uopo previste dall’articolo 240, comma 1, letterem) et) del d.lgs. 152 del 2006. La Sesta Sezione ha ritenuto, a questo proposito, che le sentenze appellate, diversamente da quanto sostenuto dal Ministero, non hanno posto in discussione la sussistenza stessa dei presupposti e delle condizioni per imporre l’adozione di misure di messa in sicurezza di emergenza.
La Sezione ha, quindi, osservato che, non avendo il T.A.R. escluso che vadano realizzate le misure di messa in sicurezza di emergenza, nel giudizio occorre unicamente verificare quale sia la concreta “distribuzione” degli obblighi tra l’autore dell’inquinamento – sia o meno esso proprietario dell’area – e il proprietario che risulti tale al momento in cui l’amministrazione ordina le misure imposte dalla legge.
9. Con riferimento a tale profilo, la Sesta Sezione ha rimesso all’Adunanza Plenaria la questione di diritto se, in base al principio di matrice comunitaria compendiato nella formula “chi inquina paga” – l’Amministrazione nazionale possa imporre al proprietario di un’area inquinata, che non sia anche l’autore dell’inquinamento, l’obbligo di porre in essere le misure di messa in sicurezza di emergenza di cui all’articolo 240, comma 1, letteram) del decreto legislativo 152 del 2006 (sia pure, in solido con il responsabile e salvo il diritto di rivalsa nei confronti del responsabile per gli oneri sostenuti), ovvero se – in alternativa – in siffatte ipotesi gli effetti a carico del proprietario “incolpevole” restino limitati a quanto espressamente previsto dall’articolo 253 del medesimo decreto legislativo in tema di oneri reali e privilegi speciali.
Il quadro giurisprudenziale.
10. Dopo aver ricostruito il complessivo assetto delle disposizioni che il decreto legislativo 152 del 2006 dedica alla questione degli obblighi ricadenti, rispettivamente, a carico del soggetto responsabile dell’inquinamento e del proprietario dell’area, l’ordinanza di rimessione ha rilevato come in giurisprudenza si siano registrate posizioni differenziate in ordine al se possa farsi gravare sul proprietario dell’area “incolpevole” della contaminazione l’obbligo di realizzare gli interventi di cui al titolo V della parte IV del d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (sia pure solo in solido con il responsabile effettivo e salvo il diritto di rivalsa nei confronti di quest’ultimo per gli oneri sostenuti).
L’orientamento che ritiene legittima l’imposizione, in capo al proprietario non responsabile, dell’obbligo di porre in essere le misure di sicurezza d’emergenza.
11. In base ad un primo orientamento, al quesito andrebbe data risposta in senso positivo, avuto riguardo al principio di matrice comunitaria compendiato nella formula “chi inquina paga” (cfr., in tal senso, il parere n. 2038/2012 reso dalla Seconda Sezione di questo Consiglio di Stato all’esito dell’adunanza di Sezione del 23 novembre 2011).
In sintesi, i principali argomenti a sostegno della tesi in questione risultano:
– la valorizzazione del dato testuale sul coinvolgimento (anche su base volontaria: cfr. art. 245 d.lgs. n. 152 del 2006) del proprietario nell’adozione delle misure di cui agli articoli 240 e segg.;
– la lettura dei principi comunitari di precauzione, dell’azione preventiva e del “chi inquina paga”, sulla base dell’esigenza che le conseguenze dell’inquinamento (a seguito delle alienazione tra privati delle aree) ricadano sulla collettività;
– la sussistenza di specifici doveri di protezione e custodia ricadenti sul proprietario dell’area (peraltro riconducibili ai codici civili del 1865 e del 1942, oltre che alle tradizioni giuridiche degli Stati), a prescindere dal suo coinvolgimento diretto ed immediato nella determinazione del fenomeno di contaminazione;
– la sottolineatura della particolare posizione del proprietario, il cui coinvolgimento nei più volte richiamati obblighi sarebbe svincolato da qualunque profilo di colpa, essendo qualificabile quale responsabilità “da posizione”, derivante in ultima analisi: i) dalla mera relazione con la res; ii) per di più dall’esistenza di un onere reale sul sito (di fonte normativa); iii) dall’essere (o dall’essere stato) in condizione di realizzare ogni misura utile ad impedire il verificarsi del danno ambientale.
A questi argomenti, l’ordinanza di rimessione aggiunge le seguenti ulteriori considerazioni:
– la normativa può essere interpretata nel senso che le vicende di rilievo civilistico (similmente a quanto accade, per la tutela del territorio, quando il proprietario pro tempore realizza un immobile abusivo) non incidono sulla operatività delle disposizioni volte alla salvaguardia dell’ambiente, anche perché altrimenti diventerebbe estremamente agevole ridurre o eludere l’applicazione della normativa di cui al decreto legislativo n. 152 del 2006;
– l’onere reale per sua natura implica che il titolare del bene, che ne risulta oggetto, sia anche il soggetto tenuto ad adempiere quanto dovuto (sotto tale profilo, col richiamo all’onere reale – rispetto al quale l’obbligazione propter rem differisce, perché essa comporta l’ambulatorietà dell’obbligo, in assenza di un regime giuridico particolare del bene – il legislatore in re ipsa avrebbe esplicitato la regola che il proprietario “attuale”, su cui ricade l’onere reale, è per definizione il soggetto tenuto agli obblighi che costituiscono il presupposto della stessa esistenza dell’onere reale);
– da decenni la dottrina e la giurisprudenza civilistica hanno abbandonato (o comunque largamente contestato) il principio colpevolistico un tempo posto a base della responsabilità civile ed hanno rilevato come tale principio sia uno dei tanti “criteri di imputazione” del danno, al quale – in ragione del determinante rilievo dei sopra richiamati principi comunitari, che tengono conto delle esigenze di difesa dell’ambiente, della natura e della salute – si può aggiungere quello secondo il quale il proprietario di un bene immobile (così come risponde della rovina di un edificio o di un’altra costruzione quale custode dell’area, per gli artt. 2053 e 2051) risponde anche del danno (da inquinamento) che il terreno continua a cagionare pur dopo il suo acquisto, in ragione degli effetti lesivi permanenti derivanti dall’inquinamento (proprio quelli che giustificano le misure che devono trovare attuazione).
– la “rivalsa” spetterebbe alle autorità pubbliche che abbiano eseguito le misure, proprio in ragione del primario ed immanente obbligo gravante sul proprietario in quanto tale.
– in coerenza col fondamento stesso del principio “chi inquina paga”, il “chi” non andrebbe inteso solo come colui che con la propria condotta attiva abbia posto in essere le attività inquinanti o abusato del territorio immettendo o facendo immettere materiali inquinanti, ma anche colui che – con la propria condotta omissiva o negligente – nulla faccia per ridurre o eliminare l’inquinamento causato dal terreno di cui è titolare.
– infine, per l’id quod plerumque accidit, l’acquirente di un terreno, ove sia sufficientemente diligente, può venire a conoscenza del suo grado di inquinamento (specie quando esso sia “grave”): ritenere che l’alienazione in quanto tale renda “incolpevole” l’acquirente-proprietario rischia di risultare una formalistica elusione della normativa di salvaguardia dell’ambiente.
L’orientamento che esclude che l’autorità amministrativa possa imporre in capo al proprietario non responsabile l’esecuzione delle misure di messa in sicurezza d’emergenza.
12. In base ad un opposto orientamento (cfr., in particolare, Consiglio di Stato, Sezione Sesta, 9 gennaio 2013, n. 56; Consiglio di Stato, Sezione Sesta, 18 aprile 2011, n. 2376), non vi sarebbero, invece, ragioni testuali o sistematiche per far gravare in capo al proprietario dell’area gli obblighi di adozione delle misure di cui alle disposizioni più volte citate.
I principali argomenti addotti a sostegno della tesi in questione sono i seguenti:
– una lettura del principio comunitario “chi inquina paga” secondo le categorie tipiche del canone della responsabilità personale, con l’esclusione del ricorso ad indici presuntivi o a forme più o meno accentuate di responsabilità oggettiva;
– l’indagine testuale delle disposizioni del d.lgs. n. 152 del 2006, interpretate nel senso che delineano una precisa scansione nell’individuazione dei soggetti di volta in volta chiamati ad adottare le misure di protezione e ripristino ambientale, senza possibilità di individuare in modo diretto ed immediato in capo al proprietario “incolpevole” alcuno degli obblighi di cui agli articoli 240 e seguenti, salvi gli effetti dell’imposizioneex legedi particolari oneri reali e di privilegi speciali per far fronte all’ipotesi di inadempimento da parte del soggetto responsabile;
A sostegno dell’orientamento negativo, vengono, in particolare, richiamati i seguenti dati normativi:
– l’articolo 244, comma 3, in base al quale l’ordinanza che impartisce al responsabile l’ordine di adottare le misure di cui agli articoli 240 e segg. viene, sì, notificata anche al proprietario dell’area, ma “ai sensi e per gli effetti dell’articolo 253” (i.e.: ai sensi della disposizione in tema di oneri reali e privilegi speciali gravanti sul fondo). Si potrebbe dunque sostenere che il comma 3 non consenta di notificare l’ordinanza al proprietario anche ai fini della diretta attribuzione nei suoi confronti – in solido con il responsabile – dell’obbligo di adottare le misure.
– l’articolo 245, comma 2, che pone in capo al proprietario “incolpevole” solo l’obbligo di attuare le misure di prevenzione di cui all’articolo 240, comma 1, lettera i) e di cui all’articolo 242, comma 1 (si tratta delle sole misure di somma urgenza, da adottare entro le prime ventiquattro ore dall’evento e il cui contenuto è puntualmente individuato dal decreto legislativo n. 152 del 2006). Pertanto, si potrebbe affermare che, in applicazione del principio di tendenziale inestensibilità degli obblighi impositivi di prestazioni personali o patrimoniali (nonché del generale principio “ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit”), gli obblighi ricadenti sul proprietario costituiscono unnumerus clausus;
– l’art. 250, che elenca in ordine successivo e sussidiario i soggetti chiamati a realizzare le attività di cui al più volte richiamato titolo V, non ha trasformato in “obbligo” ciò che le altre disposizioni delineano quale mera facoltà, stabilendo invece che l’onere “di ultima istanza” di realizzare le misure gravi comunque su un soggetto pubblico (il Comune o la Regione territorialmente competenti), fermo restando – naturalmente – che in tale ipotesi operano le previsioni e le “garanzie” di cui all’articolo 253;
– il comma 3 dell’articolo 253 (quale norma di “chiusura” del sistema) legittima i competenti soggetti pubblici ad avvalersi del privilegio speciale immobiliare e del connesso diritto di chiedere la ripetizione delle spese in ipotesi del tutto residuali, quali quelle – che qui non ricorrono – in cui sia del tutto impossibile accertare l’identità del soggetto responsabile o in cui sia del tutto impossibile o infruttuoso l’esercizio dell’azione di rivalsa nei suoi confronti.
A favore della medesima conclusione negativa vengono poi richiamate ulteriori considerazioni di ordine sistematico:
– l’onere reale sarebbe una figura incompatibile con la obbligazionepropter rem, che invece pacificamente implica la “trasmissibilità” dell’obbligo di cui è titolare il dante causa.
– il principio comunitario di precauzione non implicherebbe necessariamente che il proprietario sia il destinatario “naturale” delle misure precauzionali (pur se la giurisprudenza comunitaria ha attenuato il rilievo da riconoscere all’elemento psicologico ai fini della riferibilità del danno ambientale ai sensi della direttiva 2004/35/CE: CGUE 9 marzo 2010, in C-379/08), in quanto nessuna disposizione comunitaria sembra consentire che il principio “chi inquina paga” comporti l’addebito di una responsabilità per danno ambientale quale mera conseguenza di un rapporto dominicale con laressulla quale sia in atto un fenomeno di inquinamento.;
– le ipotesi di responsabilità oggettiva per danno ambientale costituirebbero unnumerus clausus, tendenzialmente inestensibile in via interpretativa ed applicativa (v. la legge 6 aprile 1977, n. 185, sulla responsabilità oggettiva nel caso di inquinamento marino da idrocarburi);
– gli obblighi di protezione e di custodia non rileverebbero quando – come nel caso in esame – l’inquinamento risalga a un periodo in cui le aree erano di proprietà di altri soggetti.
La soluzione del contrasto giurisprudenziale sulla base del quadro normativo nazionale.
13. L’Adunanza Plenaria rileva che, sulla base del quadro normativo nazionale vigente, alla questione sottoposta dalla Sesta Sezione, debba darsi risposta negativa, nel senso, cioè, che l’Amministrazione non possa imporre al proprietario di un’area inquinata, che non sia ancora l’autore dell’inquinamento, l’obbligo di porre in essere le misure di messa in sicurezza di emergenza e di bonifica, di cui all’art. 240, comma 1, letterem) ep) del decreto legislativo n. 152 del 2006, in quanto gli effetti a carico del proprietario “incolpevole” restano limitati a quanto espressamente previsto dall’articolo 253 del medesimo decreto legislativo in tema di onere reali e privilegi speciale immobiliare.
Le disposizioni contenute nel Titolo V della Parte IV del decreto legislativo n. 152 del 2006 (articoli da 239 a 253) operano, infatti, una chiara e netta distinzione tra la figura del responsabile dell’inquinamento e quella del proprietario del sito che non abbia causato o concorso a causare la contaminazione.
Le disposizioni legislative nazionali rilevanti (gli articoli da 239 a 253 del decreto legislativo n. 152 del 2006).
14. Al riguardo si ritiene di premettere alcuni cenni in ordine al complessivo assetto delle disposizioni che il decreto legislativo 152 del 2006 dedica alla questione degli obblighi ricadenti – rispettivamente – a carico del soggetto responsabile dell’inquinamento e del proprietario dell’area.
14.1. L’articolo 242 (in tema di “procedure operative ed amministrative”) disciplina con un certo livello di dettaglio gli oneri ricadenti sul soggetto responsabile dell’inquinamento al verificarsi di un evento che sia potenzialmente in grado di contaminare il sito.
L’articolo 242 disciplina gli obblighi ricadenti sul soggetto responsabile per ciò che riguarda:
i) l’adozione delle necessarie misure di prevenzione, di ripristino e di messa in sicurezza d’emergenza;
ii) gli obblighi di comunicazione nei confronti dei soggetti pubblici competenti;
iii) la predisposizione del piano di caratterizzazione;
iv) la gestione della procedura di analisi del rischio specifico;
v) l’ottemperanza agli obblighi derivanti dall’approvazione del piano di monitoraggio;
vi) la presentazione dei progetti operativi degli interventi di bonifica o di messa in sicurezza operativa o permanente;
vii) l’attivazione delle attività di caratterizzazione, di bonifica, di messa in sicurezza e di ripristino ambientale rese necessarie, a seconda dei casi, dalle prescrizioni impartite dai soggetti pubblici competenti.
L’art. 242 non individua alcun obbligo in capo al proprietario del sito, la cui posizione, in effetti, non viene mai richiamata nell’ambito della disposizione in esame.
14.2. L’articolo 244 (rubricato “ordinanze”) disciplina il caso in cui sia stato accertato che la contaminazione verificatasi nel caso concreto abbia superato i valori di concentrazione della soglia di contaminazione.
In questo caso, la Provincia diffida con ordinanza motivata il responsabile della potenziale contaminazione all’adozione delle misure di cui agli articoli 240 e seguenti.
Il comma 3 stabilisce che “l’ordinanza di cui al comma 2 è comunque notificata anche al proprietario del sito ai sensi e per gli effetti dell’articolo 253”.
Il successivo comma 4 stabilisce che, “se il responsabile non sia individuabile o non provveda e non provveda il proprietario del sito né altro soggetto interessato, gli interventi che risultassero necessari ai sensi delle disposizioni di cui al presente titolo sono adottati dall’amministrazione competente in conformità a quanto disposto dall’articolo 250”.
14.3. L’articolo 245 (rubricato “Obblighi di intervento e di notifica da parte dei soggetti non responsabili della potenziale contaminazione”) al comma 1 stabilisce che: “Le procedure per gli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale disciplinate dal presente titolo possono essere comunque attivate su iniziativa degli interessati non responsabili”.
Il comma 2, inoltre, stabilisce che “Fatti salvi gli obblighi del responsabile della potenziale contaminazione di cui all’articolo 242, il proprietario o il gestore dell’area che rilevi il superamento o il pericolo concreto e attuale del superamento della concentrazione soglia di contaminazione (CSC) deve darne comunicazione alla regione, alla provincia ed al comune territorialmente competenti e attuare le misure di prevenzione secondo la procedura di cui all’articolo 242. La provincia, una volta ricevute le comunicazioni di cui sopra, si attiva, sentito il comune, per l’identificazione del soggetto responsabile al fine di dar corso agli interventi di bonifica. È comunque riconosciuta al proprietario o ad altro soggetto interessato la facoltà di intervenire in qualunque momento volontariamente per la realizzazione degli interventi di bonifica necessari nell’ambito del sito in proprietà o disponibilità”.
14.4. L’articolo 250 (rubricato “bonifica da parte dell’amministrazione”) stabilisce che, “Qualora i soggetti responsabili della contaminazione non provvedano direttamente agli adempimenti disposti dal presente titolo ovvero non siano individuabili e non provvedano né il proprietario del sito né altri soggetti interessati, le procedure e gli interventi di cui all’articolo 242 sono realizzati d’ufficio dal comune territorialmente competente e, ove questo non provveda, dalla regione, secondo l’ordine di priorità fissati dal piano regionale per la bonifica delle aree inquinate, avvalendosi anche di altri soggetti pubblici o privati, individuati ad esito di apposite procedure ad evidenza pubblica. Al fine di anticipare le somme per i predetti interventi le regioni possono istituire appositi fondi nell’ambito delle proprie disponibilità di bilancio”.
14.5. Infine, rileva l’articolo 253 (rubricato “Oneri reali e privilegi speciali”), il quale, ai primi quattro commi, stabilisce quanto segue: “1.Gli interventi di cui al presente titolo costituiscono onere reale sui siti contaminati qualora effettuati d’ufficio dall’autorità competente ai sensi dell’articolo 250. L’onere reale viene iscritto a seguito della approvazione del progetto di bonifica e deve essere indicato nel certificato di destinazione urbanistica”. “2.Le spese sostenute per gli interventi di cui al comma 1 sono assistite da privilegio speciale immobiliare sulle aree medesime, ai sensi e per gli effetti dell’articolo 2748, secondo comma, del codice civile. Detto privilegio si può esercitare anche in pregiudizio dei diritti acquistati dai terzi sull’immobile”. “3.Il privilegio e la ripetizione delle spese possono essere esercitati, nei confronti del proprietario del sito incolpevole dell’inquinamento o del pericolo di inquinamento, solo a seguito di provvedimento motivato dell’autorità competente che giustifichi, tra l’altro, l’impossibilita’ di accertare l’identità del soggetto responsabile ovvero che giustifichi l’impossibilità di esercitare azioni di rivalsa nei confronti del medesimo soggetto ovvero la loro infruttuosità”. “4.In ogni caso, il proprietario non responsabile dell’inquinamento può essere tenuto a rimborsare, sulla base di provvedimento motivato e con l’osservanza delle disposizioni di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241, le spese degli interventi adottati dall’autorità competente soltanto nei limiti del valore di mercato del sito determinato a seguito dell’esecuzione degli interventi medesimi. Nel caso in cui il proprietario non responsabile dell’inquinamento abbia spontaneamente provveduto alla bonifica del sito inquinato, ha diritto di rivalersi nei confronti del responsabile dell’inquinamento per le spese sostenute e per l’eventuale maggior danno subito”.
Gli obblighi gravanti sul proprietario non responsabile.
15. Dal quadro normativo illustrato emerge che è il responsabile dell’inquinamento il soggetto sul quale gravano, ai sensi dell’art. 242 decreto legislativo n. 152 del 2006, gli obblighi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale a seguito della constatazione di uno stato di contaminazione.
Il proprietario non responsabile è gravato di una specifica obbligazione difacereche riguarda, però, soltanto l’adozione delle misure di prevenzione di cui all’art. 242, (che, all’ultimo periodo del comma 1, ne specifica l’applicabilità anche alle contaminazioni storiche che possono ancora comportare rischi di aggravamento della situazione di contaminazione).
A carico del proprietario dell’area inquinata, che non sia altresì qualificabile come responsabile dell’inquinamento, non incombe alcun ulteriore obbligo difacere; in particolare, egli non è tenuto a porre in essere gli interventi di messa in sicurezza d’emergenza e di bonifica, ma ha solo la facoltà di eseguirli per mantenere l’area libera da pesi (art. 245). Nell’ipotesi di mancata individuazione del responsabile, o di mancata esecuzione degli interventi in esame da parte dello stesso – e sempreché non provvedano spontaneamente né il proprietario del sito né altri soggetti interessati – le opere di recupero ambientale sono eseguite dall’Amministrazione competente (art. 250), che potrà rivalersi sul proprietario del sito, nei limiti del valore dell’area bonificata, anche esercitando, ove la rivalsa non vada a buon fine, le garanzie gravanti sul terreno oggetto dei medesimi interventi (art. 253).
Quindi, solo dopo che gli interventi siano eseguiti d’ufficio dall’autorità competente, le conseguenze sono poste a carico del proprietario anche incolpevole, posto che vi è la specifica previsione di un onere reale sulle aree che trova giustificazione proprio nel vantaggio economico che il proprietario ricava dalla bonifica dell’area inquinata.
Natura e caratteri dell’onere reale previsto dall’art. 253 d.lgs. n. 152 del 2006.
16. Queste conclusioni sono confermate dal riferimento che l’art. 253 del decreto legislativo n. 152 del 2006 fa alla figura (ormai in gran parte desueta) dell’onere reale rispetto a quella dell’obbligazionepropter rem.
Va al riguardo evidenziato che il richiamo alla categoria dell’onere reale può, in principio, essere fonte di alcune incertezze interpretative, che derivano dalla indeterminatezza che tradizionalmente caratterizza questo istituto giuridico e dalle connesse difficoltà di tracciare una netta differenziazione con quello analogo dell’obbligazionepropter rem.
L’onere reale, infatti, al pari delle obbligazionepropter rem, non trova a livello normativo né una definizione, né una disciplina. L’una e l’altra figura sono caratterizzate dalla connessione con una cosa e dalla determinazione del debitore in base al suo rapporto con la cosa.
La dottrina e la giurisprudenza hanno sempre mostrato alcune incertezze non solo nel definire i caratteri dell’onere reale, che, in assenza di dati normativi, sono spesso ricavati da indagini storiche e comparatistiche, ma anche nell’individuarne ipotesi concrete nell’ordinamento vigente.
Ai fini che rilevano in questa sede, si deve sottolineare che nell’obbligazionepropter rem, l’inerenza al fondo, che pure le è propria, non ne caratterizza l’intimo contenuto (a differenza di quanto avviene per gli oneri reali), ma riguarda un aspetto diverso della sua struttura: quello della individuazione della persona dell’obbligato mediante il suo riferimento alla qualità di proprietario (o di titolare di altro diritto reale) sullares. Per il resto l’obbligazionepropter remnon si distingue da una qualsiasi altra obbligazione: l’obbligatopropter remè tenuto ad adempiere la sua prestazione nei confronti di un altro soggetto, il quale dal canto suo non ha un potere immediato sul fondo, ma come creditore può soltanto pretendere l’adempimento della prestazione.
Nell’onere reale, invece, il collegamento con la cosa non è tanto il mezzo per determinare la persona che deve eseguire la prestazione, ma ha soprattutto un significato di garanzia, nel senso che il creditore può sempre ricavare forzatamente dal fondo il valore della prestazione che gli è dovuta. Il creditore è titolare nei confronti del soggetto gravato dell’onere di un’azione reale di garanzia, (con il relativo diritto di prelazione), che si aggiunge all’azione personale contro il diretto debitore della prestazione “garantita” dall’onere.La prelazione sul bene è un vero e proprio “modo di essere” dell’onere reale e del relativo credito. Questo giustifica l’accostamento tra onere reale e privilegio, caratterizzato anch’esso dalla assenza di un titolo autonomo, sicché anche per i privilegi la prelazione è caratteristica inerente al credito, non diritto derivante da fonte autonoma.
A tal proposito è significativo evidenziare che l’art. 253, dopo aver previsto, al comma 1, che “gli interventi di cui al presente titolo costituiscono onere reale sui siti contaminati”, specifica, al comma 2, che le relative spese sono sostenute da un “privilegio speciale immobiliare sulle aree medesime”.
Per questa ragione, si è anche detto, in senso figurato, che, mentre nelle obbligazionipropter rem, obbligata rimane la persona individuata in base alla proprietà dellares, nell’onere reale, obbligata sarebbe la cosa stessa, anche in considerazione del fatto che, come esplicitato nell’art. 253, il soggetto gravato dall’onere reale risponde nei limiti di valore dellares.
17. Le considerazioni appena espresse in ordine alla natura e alle caratteristiche dell’onere reale confermano le conclusioni sopra svolte in ordine alla posizione del proprietario non autore della contaminazione. La scelta del legislatore di evocare la figura obsoleta dell’onere reale può spiegarsi solo ammettendo che il proprietario “incolpevole” non sia tenuto ad una prestazione difacere(di cui è gravato solo il responsabile), ma sia tenuto solo a garantire, nei limiti del valore del fondo, il pagamento delle spese sostenute dall’Amministrazione che abbia eseguito direttamente gli interventi di messa in sicurezza e di bonifica. Conclusione esplicitata dall’art. 253, comma 4, che testualmente prevede che “il proprietario non responsabile dell’inquinamento può essere tenuto a rimborsare, sulla base di provvedimento motivato e con l’osservazione delle disposizioni di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241, le spese degli interventi adottati all’autorità competente soltanto nei limiti del valore di mercato del sito determinato a seguito dell’esecuzione degli interventi medesimi”.
In altre parole, si deve ritenere che il riferimento all’onere reale non valga a far diventare obbligatorio ciò che (l’intervento di bonifica) poco prima (art. 245) il legislatore ha qualificato in termini di una mera facoltà, quanto, piuttosto, a far gravare il fondo del rimborso delle spese sostenute dall’autorità che abbia provveduto d’ufficio all’intervento (e, quindi, semmai, a far diventare quella facoltà un onere).I principi civilistici in materia di responsabilità extracontrattuale.
18. Va aggiunto che l’obbligo in capo al proprietario di procedere alla messa in sicurezza e alla bonifica dell’area, non potrebbe essere desunto neanche dai principi civilistici in materia di responsabilità aquiliana e, in particolare, da quello di cui all’art. 2051 c.c. (che regolamenta la responsabilità civile del custode). Tale criterio, infatti, da un lato, richiederebbe, comunque, l’accertamento della qualità di custode dell’area al momento dell’inquinamento (e, quindi, almeno sotto questo profilo, l’accertamento di una forma di responsabilità in capo al proprietario) e, dall’altro, sembra, comunque, porsi in contraddizione con i precisi criteri di imputazione degli obblighi di messa in sicurezza e di bonifica previsti dagli articoli 240 e ss. del decreto legislativo n. 152 del 2006, che dettano una disciplina esaustiva della materia, non integrabile dalla sovrapposizione di una normativa (quella del codice civile, appunto) ispirata a ben diverse esigenze.
19. Né vale invocare l’evoluzione subita dal sistema di responsabilità civile verso la direzione del progressivo abbandono dei criteri di imputazione fondati sulla sola colpa. Nel sistema di responsabilità civile, rimane centrale, infatti, anche nelle fattispecie che prescindono dall’elemento soggettivo, l’esigenza di accertare comunque il rapporto di causalità tra la condotta e il danno, non potendo rispondere a titolo di illecito civile colui al quale non sia imputabile neppure sotto il profilo oggettivo l’evento lesivo.
Nel caso di specie, al contrario, seguendo l’opposta tesi, il proprietario sarebbe gravato non semplicemente di una responsabilità oggettiva, ma di una vera e propria “responsabilità di posizione”, in quanto sarebbe tenuto ad eseguire le opere di messa in sicurezza e di bonifica a prescindere non solo dall’elemento soggettivo (dolo o colpa) ma anche di quello oggettivo (nesso eziologico). Verrebbe, quindi, chiamato a porre rimedio in forma specifica, attraverso la messa in sicurezza d’emergenza o la bonifica, a situazioni di contaminazione che non gli sono imputabili né oggettivamente, né soggettivamente.
La responsabilità oggettiva in materia di riparazione del danno ambientale e la relativa procedura di infrazione (n. 2007/4679) aperta contro l’Italia dalla Commissione europea.
20. Per tale ragione, appaiono anche fuori luogo i riferimenti ai principi comunitari che impongono la responsabilità oggettiva in materia di riparazione del danno ambientale e alla relativa procedura di infrazione (n. 2007/4679) aperta contro l’Italia dalla Commissione europea in ragione del carattere non oggettivo del regime di responsabilità per danno all’ambiente prevista dalla legislazione italiana. Vale anche in questo caso la considerazione che quella vorrebbe farsi gravare sul proprietario sarebbe una responsabilità non oggettiva, ma, appunto, di mera “posizione”. Si tratta, quindi, di una questione che esula dall’oggetto di quella procedura di infrazione, che riguarda invece, le previsioni legislative nazionali (art. 311, commi 2 e 3, del decreto legislativo n. 152 del 2006) che, ai fini del risarcimento del danno ambientale, richiedono, oltre al rapporto di causalità, anche l’elemento soggettivo.
Il principio costituzionale della funzione sociale della proprietà (art. 42 Cost.)
21. Ugualmente, non ha pregio richiamare, come pure talvolta viene fatto nel dibattito dottrinale e giurisprudenziale, il principio costituzionale che predica la funzione sociale della proprietà privata (art. 42 Cost.), in nome del quale si giustificherebbe l’imposizione di pesi e oneri in capo alla proprietà per il perseguimento di superiori interessi generali (quali, appunto, la tutela dell’ambiente). La compressione del diritto di proprietà in nome della “funzione sociale” richiede, comunque, anche alla luce dei principi desumibili dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, una puntuale base legislativa, che, nel caso di specie, alla luce delle considerazioni svolte, certamente manca.
La giurisprudenza nazionale.
22. La tesi accolta dal Collegio risulta, del resto, di gran lunga prevalente nella giurisprudenza amministrativa, sia di primo che di secondo grado. Il giudice amministrativo, infatti, in maniera pressoché costante, ha escluso che le norme della Parte Quarta del decreto legislativo n. 152 del 2006 possano offrire all’Amministrazione una base legislativa per imporre al proprietario non responsabile misure di messa in sicurezza d’emergenza e di bonifica.
L’orientamento contrario, come ricorda l’ordinanza di rimessione, ha trovato accoglimento in sede consultiva nel parere n. 2038/2012 (richiamato dall’ordinanza di remissione) e in alcune, non numerose, sentenze di primo grado (ad esempio, T.a.r. Lazio, sez. I, 14 marzo 2011, n. 2263).
23. Giova, al riguardo, precisare che, a sostegno dell’indirizzo minoritario, non sembra pertinente il richiamo (contenuto nel già citato parere n. 2038/2012 e,per relationem, nella ordinanza di remissione all’Adunanza Plenaria ) alla sentenza della Sesta Sezione del Consiglio di Stato 15 luglio 2010, n. 4561. Tale decisione, infatti, se, da un lato, afferma che la responsabilità del proprietario è una responsabilità “da posizione”, svincolata dai profili soggettivi del dolo o della colpa e dal rapporto di causalità, dall’altro, specifica, tuttavia, che il “proprietario del suolo – che non abbia apportato alcun contributo causale, neppure incolpevole, all’inquinamento – non si trova in alcun modo in una posizione analoga od assimilabile a quella dell’inquinatore, essendo tenuto non ad eseguire direttamente le opere di bonifica, ma soltanto a rifondere, in sede di rivalsa, i costi connessi agli interventi di bonifica esclusivamente in ragione dell’esistenza dell’onere reale sul sito”. Si tratta, quindi, di un precedente che va collocato nell’ambito della tesi maggioritaria che esclude, al di là delle misure di prevenzione, l’esistenza di ulteriori obblighi difacerein capo al proprietario.
Ugualmente, non appare pertinente a sostegno dell’indirizzo minoritario il richiamo alla sentenza 25 febbraio 2009, n. 4472, resa dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite (in sede di ricorso avverso una sentenza del Tribunale superiore delle acque pubbliche), in cui, con riferimento all’obbligo di rimozione e smaltimento dei rifiuti, previsto dall’art. 192, comma 3, decreto legislativo n. 152 del 2006 a carico del proprietario e dei titolari di diritti reali o personali di godimento sull’area, si afferma che, “per un verso, le esigenze di tutela ambientale sottese alla norma citata rendono evidente che il riferimento a chi è titolare di diritti reali o personali di godimento va inteso in senso lato, essendo destinato a comprendere qualunque soggetto si trovi con l’area interessata in un rapporto, anche di mero fatto, tale da consentirgli – e per ciò stesso imporgli – di esercitare una funzione di protezione e custodia finalizzata ad evitare che l’area medesima possa essere adibita a discarica abusiva di rifiuti nocivi per la salvaguardia dell’ambiente; per altro verso, il requisito della colpa postulato da detta norma ben può consistere proprio nell’omissione degli accorgimenti e delle cautele che l’ordinaria diligenza suggerisce per realizzare un’efficace custodia e protezione dell’area, così impedendo che possano essere in essa indebitamente depositati rifiuti nocivi”.
Tale sentenza, infatti, si occupa di una fattispecie diversa rispetto a quella concernente la bonifica dei siti inquinati. Nel caso deciso dalle Sezioni Unite viene in rilievo un caso di abbandono di rifiuti, con riferimento al quale l’art. 192 decreto legislativo n. 152 del 2006 prevede che chi viola i divieti di abbandono e di deposito incontrollato dei rifiuti è tenuto a procedere alla rimozione, all’avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti in solido con il proprietario, con i titolari di diritti reali o personali di godimento e, appunto, secondo le Sezioni Unite, anche dei detentori di fatto cui tale violazione sia imputabile a titolo di dolo e di colpa. In questo caso, peraltro, la responsabilità del proprietario o del detentore del fondo è circondata da garanzie superiori rispetto a quelle previste in materia di bonifica dei siti inquinati, in quanto si chiede espressamente che la violazione sia imputabile anche a titolo di dolo o di colpa.
Alcuni precedenti, infine, se da un lato riconoscono la possibilità per l’Amministrazione di imporre al proprietario non responsabile l’obbligo di messa in sicurezza di emergenza del sito contaminato, dall’altro specificano che ciò può avvenire non sulla base delle disposizioni del decreto legislativo n. 152 del 2006, che non contemplano tali obblighi a carico del proprietario, ma nell’esercizio del potere di adottare ordinanze contingibili ed urgenti ai sensi dell’art. 54, comma 4, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (cfr., in tal senso, ad esempio, Cons. Stato, sez. VI, 5 settembre 2005, n. 4525). Anche queste sentenze non sono, tuttavia, direttamente pertinenti rispetto alla controversia oggetto del presente giudizio, in cui non si fa questione dell’esercizio del potere di ordinanzaextra ordinem.
24. Da questo rapidoexcursusgiurisprudenziale emerge, quindi, come l’orientamento interpretativo di gran lunga prevalente escluda la possibilità per l’Amministrazione nazionale di imporre al proprietario non responsabile della contaminazione misure di messa in sicurezza d’emergenza o di bonifica del sito inquinato.
A tale indirizzo, l’Adunanza Plenaria ritiene di dover dare continuità, in quanto esso, alla luce delle considerazioni già svolte, esprime l’unica interpretazione compatibile con il tenore letterale delle disposizioni in esame.
Le conclusioni dell’Adunanza plenaria sulle regole che si ricavano dalla legislazione nazionale.
25. Volendo schematizzare e riepilogare, dalle disposizioni contenute nel decreto legislativo n. 152 del 2006 (in particolare nel Titolo V della Parte IV) possono ricavarsi le seguenti regole:
1) il proprietario, ai sensi dell’art. 245, comma 2, è tenuto soltanto ad adottare le misure di prevenzione di cui all’art. 240, comma 1, lett.1), ovvero “le iniziative per contrastare un evento, un atto o un’omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per l’ambiente intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia”;
2) gli interventi di riparazione, di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino gravano esclusivamente sul responsabile della contaminazione, cioè sul soggetto al quale sia imputabile, almeno sotto il profilo oggettivo, l’inquinamento (art. 244, comma 2);
3) se il responsabile non sia individuabile o non provveda (e non provveda spontaneamente il proprietario del sito o altro soggetto interessato), gli interventi che risultassero necessari sono adottati dall’Amministrazione competente (art. 244, comma 4);
4) le spese sostenute per effettuare tali interventi possono essere recuperate, sulla base di un motivato provvedimento (che giustifichi tra l’altro l’impossibilità di accertare l’identità del soggetto responsabile ovvero che giustifichi l’impossibilità di esercitare azioni di rivalsa nei confronti del medesimo soggetto ovvero la loro infruttuosità), agendo in rivalsa verso il proprietario, che risponde nei limiti del valore di mercato del sito a seguito dell’esecuzione degli interventi medesimi (art. 253, comma 4);
5) a garanzia di tale diritto di rivalsa, il sito è gravato di un onere reale e di un privilegio speciale immobiliare (art. 253, comma 2).
La questione pregiudiziale sottoposta alla Corte di giustizia dell’Unione europea.
26. Il quadro normativo nazionale così ricostruito solleva, tuttavia, alcuni dubbi di compatibilità con l’ordinamento dell’Unione Europea, in particolare con i principi che questo detta in materia ambientale. Si tratta di dubbi, già adombrati nell’ordinanza di rimessione, che richiedono la delimitazione della reale portata precettiva dei principi che ispirano la normativa comunitaria in materia ambientale, ed in particolare del principio “chi inquina paga”, del principio di precauzione, del principio dell’azione preventiva e del principio della correzione, in via prioritaria alla fonte dei danni causati all’ambiente.
È in relazione a tale profilo, al fine di chiarire l’ambito applicativo e gli effetti di tali principi, che si mostra necessario il ricorso alla funzione interpretativa della Corte di giustizia ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (di seguito, anche solo TFUE).
27. In particolare, la questione interpretativa che si intende sottoporre alla Corte di giustizia dell’Unione europea è la seguente: “se i principi dell’Unione Europea in materia ambientale sanciti dall’art. 191, paragrafo 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e dalla direttiva 2004/35/Ce del 21 aprile 2004 (articoli 1 e 8, n. 3; tredicesimo e ventiquattresimo considerando) – in particolare, il principio “chi inquina paga”, il principio di precauzione, il principio dell’azione preventiva, il principio, della correzione, in via prioritaria, alla fonte, dei danni causati all’ambiente – ostino ad una normativa nazionale, quale quella delineata dagli articoli 244, 245, 253 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, che, in caso di accertata contaminazione di un sito e di impossibilità di individuare il soggetto responsabile della contaminazione o di impossibilità di ottenere da quest’ultimo gli interventi di riparazione, non consenta all’autorità amministrativa di imporre l’esecuzione delle misure di sicurezza d’emergenza e di bonifica al proprietario non responsabile dell’inquinamento, prevedendo, a carico di quest’ultimo, soltanto una responsabilità patrimoniale limitata al valore del sito dopo l’esecuzione degli interventi di bonifica”.
L’Adunanza plenaria ritiene di acquisire dalla Corte di giustizia alcuni elementi interpretativi dei richiamati principi comunitari, anche al fine di valutare la compatibilità con essi della normativa nazionale, al fine di pronunciarsi sulla causa di cui è investito.
Ragioni della rilevanza della domanda di pronuncia pregiudiziale ai fini della definizione del giudizio.
28. La questione pregiudiziale è certamente rilevante nel presente giudizio, in quanto in esso si discute proprio della legittimità dei provvedimenti con cui l’autorità amministrativa ha ordinato la messa in sicurezza d’emergenza e la presentazione di un progetto di variante di bonifica agli attuali proprietari dei siti inquinati, che risultano, pacificamente, non responsabili dell’inquinamento. La soluzione della questione pregiudiziale è, quindi, in grado di condizionare l’esito del giudizio.
29. Inoltre, ad ulteriore conferma della rilevanza della questione (anche a prescindere dalla delibazione di alcune eccezioni di inammissibilità degli appelli sollevate dalle società appellate) deve rilevarsi che, ai sensi dell’art. 99, comma 5, del codice del processo amministrativo, l’Adunanza Plenaria, “se ritiene che la questione sia di particolare importanza”, “può comunque enunciare il principio di diritto nell’interesse della legge anche quando dichiara il ricorso irricevebile, inammissibile o improcedibile, ovvero l’estinzione del giudizio. In tal caso la pronuncia dell’Adunanza Plenaria non ha effetto sul provvedimento impugnato”.
Nel caso di specie, alla luce della particolare importanza della questione in esame, destinata a riproporsi in un numero significativo di giudizi (analoga questione è stata rimessa all’Adunanza Plenaria sempre dalla Sesta Sezione con ordinanza 26 giugno 2013, n. 3515), l’Adunanza Plenaria, nell’esercizio della sua funzione nomofilattica, intende, comunque, enunciare il principio di diritto. Tale circostanza conferisce evidentemente alla questione pregiudiziale di interpretazione comunitaria una rilevanza che prescinde anche dall’incidenza concreta, comunque sussistente, che la pronuncia pregiudiziale può avere sull’esito della lite pendente tra le odierne parti.
Illustrazione dei motivi che hanno indotto l’Adunanza plenaria a interrogarsi sull’interpretazione delle disposizioni del diritto dell’Unione.
30. Alla luce delleRaccomandazioni all’attenzione dei giudici nazionali, relative alla presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale(pubblicate nellaG.U.C.E. n. 388 del 6 novembre 2011), si illustrano, di seguito, le ragioni che hanno indotto l’Adunanza plenaria a interrogarsi sull’interpretazione o sulla validità di talune disposizioni del diritto dell’Unione, nonché il nesso esistente tra queste disposizioni e la normativa nazionale applicabile nel procedimento principale.
Il principio chi “inquina paga”.
31. Per quanto concerne il principio “chi inquina paga” devono certamente ritenersi ormai superate le tesi (sviluppate anche dalla dottrina italiana sulla scorta di analoghe riflessioni compiute in altre ordinamenti), secondo cui esso rappresenterebbe una previsione meramente programmatica, priva di un valore precettivo, ma costituente solo una generale indicazione di razionalità economica (più che giuridica), nel senso della tendenziale (perché affidata alla necessaria mediazione di scelte discrezionali legislative), “internalizzazione” dei costi ambientali. Questi ultimi, visti quali esternalità negative, che (come spiega il secondo considerando alla direttiva 2004/35/Ce), una volta adeguatamente considerati quali costi dall’imprenditore, verranno presumibilmente meglio prevenuti.
Oggi, invece, si ritiene pacificamente che il principio costituisca una regola giuridica precettiva, su cui si fonda tutto il sistema di responsabilità ambientale.
32. Rimangono, tuttavia, margini di incertezza in ordine alla reale portata precettiva della regola.
In linea di massima, c’è concordia nel ritenere che laratiodel principio sia quella di “internalizzare” i costi ambientali (c.d. esternalità ovvero costi sociali estranei alla contabilità ordinaria dell’impresa), evitando di farli gravare sulla collettività o sugli enti rappresentativi della stessa.
Si evidenzia, sotto questo profilo, la duplice valenza, non solo repressiva, ma anche preventiva del principio, volto ad incentivare, per effetto del calcolo dei rischi di impresa, la generalizzata incorporazione nei prezzi delle merci e, quindi, nelle dinamiche di mercato, dei costi di alterazione dell’ambiente, con conseguente minor prezzo delle merci prodotte senza incorrere nei predetti costi sociali attribuibili alle imprese e conseguente indiretta incentivazione per le imprese a non danneggiare l’ambiente (cfr., in tal senso, Cons. Stato, sez. V, 16 giugno 2009, n. 3885).
Si discute, tuttavia, sui “limiti” che incontra questa operazione di “internalizzazione” del costo ambientale. Più nel dettaglio, ci si chiede se il danno ambientale possa essere addossato soltanto a “chi” abbia effettivamente inquinato (di cui sia stata, pertanto, accertata la responsabilità) o se, al contrario, pur in assenza dell’individuazione del soggetto responsabile, ovvero di impossibilità di questi a far fronte alle proprie obbligazioni, il principio comunitario, postuli, comunque di evitare che il costo degli interventi gravi sulla collettività, ponendo tali costi quindi, comunque, a carico del proprietario. Ciò in quanto, escludere che i costi derivanti dal ripristino di siti colpiti da inquinamento venga sopportato dalla collettività, costituirebbe proprio la ragion d’essere sottesa al principio comunitario del “chi inquina paga”.
33. Da qui la possibile opzione interpretativa secondo cui il principio comunitario “chi inquina paga”, piuttosto che ricondursi alla fattispecie illecita integrata dall’elemento soggettivo del dolo e della colpa e dall’elemento materiale, imputerebbe, comunque, il danno al proprietario, perché quest’ultimo è colui che si trova nelle condizioni di controllare i rischi, cioè il soggetto che ha la possibilità della “cost-benefit analysis” per cui lo stesso deve sopportarne la responsabilità per trovarsi nella situazione più adeguata per evitarlo in modo più conveniente.
In altri termini, come pure è stato sostenuto, il punto di equilibrio fra i diversi interessi di rilevanza costituzionale alla tutela della salute, dell’ambiente e dell’iniziativa economica privata andrebbe ricercato in un criterio di “oggettiva responsabilità imprenditoriale”, in base al quale gli operatori economici che producono e ritraggono profitti attraverso l’esercizio di attività pericolose, in quantoex seinquinanti, o anche in quanto semplici utilizzatori di strutture produttive contaminate e fonte di perdurante contaminazione, sono perciò stesso tenuti a sostenere integralmente gli oneri necessari a garantire la tutela dell’ambiente e della salute della popolazione.
In quest’ottica, ciò che rileva ai fini dell’individuazione del soggetto tenuto alle misure di riparazione, non è, quindi, tanto la circostanza di aver causato la contaminazione, ma quelle di utilizzare, per motivi imprenditoriali, a scopo di lucro, i siti contaminati in maniera strumentale nell’esercizio dell’attività di impresa.
34. Tale opzione interpretativa potrebbe trovare ulteriore conferma alla luce del tredicesimo considerando della direttiva 2004/35/Ce, in cui si legge: “A non tutte le forme di danno ambientale può essere posto rimedio attraverso la responsabilità civile. Affinché quest’ultima sia efficace è necessario che vi siano uno o più inquinatori individuabili, il danno dovrebbe essere concreto e qualificabile e si dovrebbero accertare nessi causali tra il danno e gli inquinatori individuati. La responsabilità civile non è quindi uno strumento adatto per trattare l’inquinamento a carattere diffuso e generale nei casi in cui sia impossibile collegare gli effetti ambientali negativi ad atti o omissioni di taluni soggetti”.
Tale considerando, evidenziando l’insufficienza in materia ambientale della responsabilità civile (sia pure con riferimento all’inquinamento a carattere diffuso e generale) mostra, comunque, l’esigenza di individuare criteri di imputazione del danno ambientale che prescindano dagli elementi costitutivi dell’illecito civile e, dunque, non solo dall’elemento soggettivo, ma anche dal rapporto di causalità.
35. Ancora, appare rilevante ai fini che in questa sede rilevano, il considerando n. 24 della citata direttiva 2004/35/Ce in cui si afferma la necessità di “assicurare la disponibilità di mezzi di applicazione ed esecuzione efficaci, garantendo un’adeguata tutela dei legittimi interessi degli operatori e delle altre parti interessate”, conferendo “alle autorità competenti compiti specifici che implicano appropriata discrezionalità amministrativa, ossia il dovere di valutare l’entità del danno e di determinare le misure di riparazione da prendere”.
La discrezionalità amministrativa evocata dalla direttiva potrebbe, invero, essere letta nel senso di sottintendere anche il potere per l’autorità competente di individuare il soggetto che si trova nelle condizioni migliori per adottare le misure di riparazione, anche a prescindere dal rigoroso accertamento del nesso eziologico.
36. Significativa, inoltre, è anche la previsione dell’art. 8, n. 3, lett.b), della direttiva 2004/35/Ce, secondo cui i costi delle azioni di prevenzione e di riparazione non sono a carico dell’operatore “se egli può provare che il danno ambientale o la minaccia imminente di tale danno è stato causato da un terzo o si è verificato nonostante l’esistenza di opportune misure di sicurezza”.
Tale disposizione dà rilievo al rapporto di causalità, ma non in positivo, bensì in negativo, nel senso che la presenza del nesso di causalità (e, dunque, la necessità che esso sia dimostrato dall’autorità competente) non sembra essere condizione necessaria al fine del sorgere della responsabilità; è, al contrario, la prova, fornita dall’operatore, dell’assenza del rapporto di causalità, o meglio la dimostrazione di un nesso eziologico che permetta di ricondurre l’evento lesivo ad un soggetto terzo, che lo esonera dalla responsabilità. Sembrerebbe, quindi, confermata la possibilità di imporre misure di prevenzione e di riparazione anche senza rapporto di causalità, ferma restando la possibilità per l’operatore di recuperare i costi di tali interventi dimostrando che l’evento lesivo è eziologicamente imputabile ad un soggetto terzo.
I principi di precauzione e di prevenzione.
37. Oltre al principio “chi inquina paga”, vengono poi in rilievo i principi di precauzione, di prevenzione e di correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, anch’essi esplicitamente richiamati dall’art. 191, paragrafo 2, TFUE, come fondamenti della politica dell’Unione in materia ambientale.
I principi di precauzione e di prevenzione rendono legittimo un approccio anticipatorio ai problemi ambientali, sulla base della considerazione che molti danni causati all’ambiente possono essere di natura irreversibile.
38. Per prevenire il rischio del verificarsi di tali danni, il principio di precauzione legittima l’adozione di misure di prevenzione, riparazione e contrasto ad una fase nella quale il danno non solo non si è ancora verificato, ma non esiste neanche la piena certezza scientifica che si verificherà. In altri termini, la ricerca di livelli di sicurezza sempre più elevati porta ad un consistente arretramento della soglia dell’intervento delle Autorità a difesa della salute dell’uomo e del suo ambiente: la tutela diviene “tutela anticipata” e oggetto dell’attività di prevenzione e di riparazione diventano non soltanto i rischi conosciuti, ma anche quelli di cui semplicemente si sospetta l’esistenza.
39. Il principio di prevenzione presenta tratti comuni con il principio di precazione, in quanto entrambi condividono la natura anticipatoria rispetto al verificarsi di un danno per l’ambiente. Il principio di prevenzione si differenzia da quello di precauzione perché si occupa della prevenzione del danno rispetto a rischi già conosciuti e scientificamente provati relativi a comportamenti o prodotti per i quali esiste la piena certezza circa la loro pericolosità per l’ambiente.
40. Si potrebbe certamente sostenere, in prima approssimazione, che entrambi i principi in questione non siano pertinenti nella presente fattispecie, in cui non vi è un mero rischio (scientificamente provato o meramente ipotizzato), ma un danno certo e già consumato all’ambiente e l’incertezza riguarda semmai l’individuazione del soggetto materialmente responsabile.
41. Tuttavia, in una diversa ottica, si può evidenziare che, se laratiodei principi di precauzione e di prevenzione è quella di legittimare un intervento dell’autorità competente anche in condizioni di incertezza scientifica (sulla stessa esistenza del rischio o delle sue ulteriori conseguenze), sul presupposto che il trascorrere del tempo necessario per acquisire informazioni scientificamente certe o attendibili potrebbe determinare danni irreversibili all’ambiente, allora non appare peregrino sostenere che la medesimaratioconsenta l’intervento in via precauzionale o preventiva non solo quando l’incertezza da dipanare riguardi l’evento di danno, ma anche quando concerna il nesso causale e, quindi, l’individuazione del soggetto responsabile di un danno certo.
In entrambi i casi, invero, il ritardo nell’intervento giustificato dalla necessità di acquisire un livello di certezza scientifica soddisfacente può dare luogo al rischio di effetti irreversibili.
In quest’ottica, quindi, i principi di precauzione e di prevenzione potrebbero legittimare l’imposizione, a prescindere dalla prova circa la sussistenza del nesso di causalità, in capo al soggetto che, essendo proprietario del sito contaminato, si trova nelle migliori condizioni per attuarle, non solo delle misure di prevenzione descritte dall’art. 240, comma 1, lett.i) decreto legislativo n. 152 del 2006, (già previste a suo carico dall’art. 245, comma 2, decreto legislativo n. 152 del 2006), ma anche di misure di sicurezza di emergenza. Anche queste misure, infatti, hanno una finalità precauzionale ed una connotazione di urgenza, essendo dirette a contenere la diffusione delle sorgenti primarie di contaminazione, impedirne il contatto con altre matrici presenti nel sito e a rimuoverle, in attesa di ulteriori interventi di bonifica o di messa in sicurezza operativa o permanente.
Il principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati.
42. Infine, viene in rilievo il principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati. Tale principio, infatti, dispone che i danni causati all’ambiente vengano contrastati in una fase il più possibile vicino alla fonte, per evitare che i loro effetti si amplifichino e si ingigantiscano. Nelle situazioni di impossibilità di individuare il responsabile, o di impossibilitò impossibilità di evitare da questi le misure correttive, la “fonte” cui il principio fa riferimento sembra potere essere ragionevolmente individuata nel soggetto attualmente proprietario del fondo, che, proprio per la sua posizione di proprietario, è quello meglio in grado di controllare la fonte di pericolo rappresentata dal sito contaminato.
Il punto di vista dell’Adunanza Plenaria sulla questione pregiudiziale di interpretazione comunitaria.
43. Seguendo sul punto le “Raccomandazioni all’attenzione dei giudici nazionali, relative alla presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale” (punto n. 24), pubblicata sulla GUCE del 6 novembre 2012, C-388, l’Adunanza Plenaria ritiene di indicare succintamente il suo punto di vista sulla soluzione da dare alla questione pregiudiziale sottoposta.
44. L’Adunanza Plenaria ritiene che, nonostante la serietà degli argomenti su cui si fondano i dubbi interpretativi di cui si è trattato, la questione pregiudiziale sottoposta alla Corte di giustizia possa essere risolta in senso negativo, escludendo cioè che i richiamati principi comunitari in materia ambientale ostino ad una disciplina nazionale che non consente all’autorità competente di imporre misure di messa in sicurezza d’emergenza e di bonifica in capo al proprietario del sito non responsabile della contaminazione, prevedendo in capo al medesimo solo una responsabilità patrimoniale limitata al valore del fondo dopo l’esecuzione degli interventi di bonifica secondo il meccanismo sopra descritto dell’onere reale e del privilegio speciale immobiliare.
45. Risulta significativo a tale proposito richiamare la sentenza della Corte di giustizia, Grande Sezione, 9 marzo 2010, C-378/08.
Questa sentenza è stata pronunciata, in seguito ad una questione pregiudiziale sollevata dal Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, su una fattispecie diversa rispetto a quella oggetto del presente giudizio e proprio tale diversità tra fattispecie, giustifica la presente domanda di pronuncia pregiudiziale alla Corte di giustizia.
Ciò nonostante, come si andrà ad esporre, alcuni principi espressi dal Giudice comunitario in quella sentenza potrebbero rivelarsi risolutivi anche nel caso in esame.
In particolare, nella sentenza 9 marzo 2010, C-378/08, la Corte di giustizia ha affermato che, in applicazione del principio “chi inquina paga”, l’obbligo di riparazione incombe sugli operatori solo in misura corrispondente al loro contributo al verificarsi dell’inquinamento; gli operatori medesimi, pertanto, non devono farsi carico di oneri inerenti alla riparazione di un inquinamento al quale non abbiano contribuito.
Più nel dettaglio, nella citata sentenza 9 marzo 2010, C- 378/08 si legge (punti da 53 a 59):
– dagli artt. 4, n. 5, e 11, n. 2, della direttiva 2004/35 si evince che, così come l’accertamento di un nesso causale è necessario da parte dell’autorità competente al fine di imporre misure di riparazione ad eventuali operatori, a prescindere dal tipo di inquinamento in questione, quest’obbligo è parimenti un presupposto per l’applicabilità di detta direttiva per quanto concerne forme di inquinamento a carattere diffuso ed esteso;
– un nesso di causalità del genere può essere agevolmente dimostrato quando l’autorità competente si trovi in presenza di un inquinamento circoscritto nello spazio e nel tempo, che sia opera di un numero limitato di operatori. Viceversa, non è questo il caso nell’ipotesi di fenomeni di inquinamento a carattere diffuso, per cui il legislatore dell’Unione ha giudicato che, in presenza di un inquinamento del genere, un regime di responsabilità civile non costituisce uno strumento idoneo quando detto nesso di causalità non possa essere accertato. Di conseguenza, ai sensi dell’art. 4, n. 5, della direttiva 2004/35, quest’ultima si applica a questo tipo di inquinamentosolo quando sia possibile accertare un nesso di causalità tra i danni e le attività dei diversi operatori;
– la direttiva 2004/35 non definisce la modalità di accertamento di un siffatto nesso di causalità; nella cornice della competenza condivisa tra l’Unione e i suoi Stati membri in materia ambientale, quando un elemento necessario all’attuazione di una direttiva adottata in base all’art. 175 CE non sia stato definito nell’ambito di quest’ultima, una siffatta definizione rientra nella competenza di questi Stati e, a tale proposito, essi dispongono di un ampio potere discrezionale, nel rispetto delle norme del Trattato, al fine di prevedere discipline nazionali che configurino o concretizzino il principio «chi inquina paga» (v., in tal senso, sentenza 16 luglio 2009, causa C-254/08, Futura Immobiliare e altri);
– da questo punto di vista, la normativa di uno Stato membro può prevedere che l’autorità competente abbia facoltà di imporre misure di riparazione del danno ambientale presumendo l’esistenza di un nesso di causalità tra l’inquinamento accertato e le attività del singolo o dei diversi operatori, e ciò in base alla vicinanza degli impianti di questi ultimi con il menzionato inquinamento;
– tuttavia, dato che, conformemente al principio «chi inquina paga», l’obbligo di riparazione incombe agli operatorisolo in misura corrispondente al loro contributo al verificarsi dell’inquinamento o al rischio di inquinamento(v., per analogia, sentenza 24 giugno 2008, causa C-188/07,Commune de Mesquer), per poter presumere secondo tali modalità l’esistenza di un siffatto nesso di causalità l’autorità competente deve disporre di indizi plausibili in grado di dar fondamento alla sua presunzione, quali la vicinanza dell’impianto dell’operatore all’inquinamento accertato e la corrispondenza tra le sostanze inquinanti ritrovate e i componenti impiegati da detto operatore nell’esercizio della sua attività;
– quando disponga di indizi di tal genere, l’autorità competente è allora in condizione di dimostrare un nesso di causalità tra le attività degli operatori e l’inquinamento diffuso rilevato. Conformemente all’art. 4, n. 5, della direttiva 2004/35, un’ipotesi del genere può rientrare pertanto nella sfera d’applicazione di questa direttiva, a meno che detti operatori non siano in condizione di confutare tale presunzione.
46. Dai citati passaggi motivazionali, emerge, quindi, come, per il Giudice comunitario, il rapporto di casualità sia comunque elemento imprescindibile ai fini dell’applicazione della direttiva 2004/35 Ce e del principio comunitario “chi inquina paga” in essa richiamato.
47. Tale conclusione, ovvero la necessità di accertare, eventualmente anche mediante presunzione, l’esistenza del rapporto di causalità, sembra, del resto, trovare conferma nella considerazione che il principio comunitario “chi inquina paga” affonda le sue radici storiche nell’omologo principio del diritto nazionale tedesco espresso con il termine «Verursacherprinzip», che letteralmente significa “principio del soggetto causatore”.
48. Depongono in tale direzione anche le Conclusioni presentate il 22 ottobre 2009 nello stesso procedimento C 378/08 dall’Avvocato Generale Juliane Kokott, in cui si legge:
– “una responsabilità svincolata da un contributo alla causazione del danno non corrisponderebbe all’orientamento della direttiva sulla responsabilità ambientale e non sarebbe neppure conforme a quest’ultima, qualora essa avesse l’effetto di attenuare la responsabilità del soggetto effettivamente responsabile, in forza della direttiva stessa, per i danni ambientali. Infatti, la direttiva costituisce proprio per l’operatore responsabile un incitamento ad attivarsi per la prevenzione dei danni all’ambiente e stabilisce che egli debba sopportare le spese per la riparazione dei danni che dovessero comunque verificarsi” (punto 98).
– “La questione dei presupposti per un esonero dell’operatore autore del danno dal pagamento dei costi di risanamento viene disciplinata, in particolare, all’art. 8 della direttiva sulla responsabilità ambientale. Eventuali più ampie fattispecie di esenzione dal pagamento dei costi minerebbero con ogni probabilità l’attuazione del principio «chi inquina paga» perseguita dalla direttiva. Esse attenuerebbero l’effetto di stimolo associato alla responsabilità prevista e modificherebbero la ripartizione dei costi giudicata equa dal legislatore comunitario” (punto 99).
– “ Se non si vuole svuotare di significato la responsabilità a titolo prioritario dell’operatore che ha causato il danno, l’art. 16, n. 1, della direttiva sulla responsabilità ambientale non deve essere interpretato nel senso che gli Stati membri possano individuare altri soggetti responsabili destinati a subentrare al predetto. Va respinta altresì l’ipotesi di individuare ulteriori soggetti responsabili chiamati a rispondere insieme e a pari titolo con l’autore in modo tale da diminuire la responsabilità di quest’ultimo” (punto 102).
49. Con questo non si vuol certo intendere che il principio “chi inquina paga” implichi un divieto assoluto di addossare a soggetti diversi dall’autore del danno i costi per l’eliminazione dei danni ambientali. Un simile divieto, infatti, citando ancora le conclusioni dell’Avvocato generale Kolkott, finirebbe per tradursi nella passiva accettazione di eventuali danni all’ambiente, nel caso in cui l’autore di questi non potesse essere chiamato a rispondere. Infatti, anche in caso di riparazione a carico della collettività, le spese dovrebbero essere sopportate da un soggetto che non è responsabile per il danno. Tuttavia, l’accettazione dei danni all’ambiente sarebbe incompatibile con la finalità di promuovere un elevato livello di protezione dell’ambiente e il miglioramento della qualità di quest’ultimo. Il principio «chi inquina paga» è funzionale al raggiungimento di tale finalità, sancita non soltanto dal n. 2, ma anche dal n. 1 dell’art. 191 TFUE (ex art. 174 CE). Il detto principio non può essere inteso, quindi, in un senso tale da risultare in definitiva confliggente con la tutela dell’ambiente, ad esempio considerandolo idoneo a precludere la riparazione dei danni ambientali nel caso in cui l’autore degli stessi non possa essere chiamato a rispondere. Esso, in definitiva, sembra precludere una responsabilità per danni ambientali indipendente da un contributo alla causazione dei medesimi soltanto se ed in quanto essa abbia l’effetto di elidere quella incombente a titolo prioritario sull’operatore che ha causato i danni in questione.
Tuttavia, ed è questo il punto che sembra decisivo ai fini della risoluzione della questione, i principi del diritto dell’Unione in materia ambientale, pur non ostando, alle condizioni appena viste, ad una responsabilità svincolata dal rapporto di casualità, non sembrano, tuttavia, imporla, demandando la regolazione di queste forme sussidiarie di responsabilità al legislatore nazionale. Tali principi, quindi, non sembrano di per sé interferire con i limiti (sopra ricostruiti) che il legislatore nazionale ha voluto prevede alla responsabilità del proprietario non autore della contaminazione..
Conclusioni.
50. In conclusione, alla luce di quanto esposto, si rimette all’esame della Corte di giustizia dell’Unione Europea la seguente questione pregiudiziale di corretta interpretazione che di nuovo si trascrive:se i principi dell’Unione Europea in materia ambientale sanciti dall’art. 191, paragrafo 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e dalla direttiva 2004/35/Ce del 21 aprile 2004 (articoli 1 e 8, n. 3; tredicesimo e ventiquattresimo considerando) – in particolare, il principio “chi inquina paga”, il principio di precauzione, il principio dell’azione preventiva, il principio, della correzione, in via prioritaria, alla fonte, dei danni causati all’ambiente – ostino ad una normativa nazionale, quale quella delineata dagli articoli 244, 245, 253 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, che, in caso di accertata contaminazione di un sito e di impossibilità di individuare il soggetto responsabile della contaminazione o di impossibilità di ottenere da quest’ultimo gli interventi di riparazione, non consenta all’autorità amministrativa di imporre l’esecuzione delle misure di sicurezza d’emergenza e di bonifica al proprietario non responsabile dell’inquinamento, prevedendo, a carico di quest’ultimo, soltanto una responsabilità patrimoniale limitata al valore del sito dopo l’esecuzione degli interventi di bonifica”.
Atti da trasmettere alla Corte di giustizia.
51. Ai sensi della “nota informativa riguardante la proposizione di domande di pronuncia pregiudiziale da parte dei giudici nazionali” 2011/C 160/01 in G.U.C.E. 28 maggio 2011, vanno trasmessi alla cancelleria della Corte mediante plico raccomandato in copia i seguenti atti:
– i provvedimenti impugnati con il ricorso di primo grado;
– i ricorsi di primo grado;
– le sentenze del T.a.r. appellate;
– gli atti di appello del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare;
– le memorie difensive depositate da tutte parti nel giudizio di appello, sia nella fase innanzi alla VI davanti che in quella davanti all’Adunanza Plenaria;
– la sentenza parziale con contestuale ordinanza di rimessione all’Adunanza Plenaria pronunciata nel presente giudizio dalla Sesta Sezione, 21 maggio 2013, n. 2740;
– la presente ordinanza;
– copia delle seguenti norme nazionali: articoli da 239 a 253 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152; art. 99 del codice processo amministrativo.
Sospensione del giudizio.
52. Il presente giudizio viene sospeso, nelle more della definizione dell’incidente comunitario, e ogni ulteriore decisione, anche in ordine alle spese, è riservata alla pronuncia definitiva.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria), non definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, dispone:
1) a cura della segreteria, la trasmissione degli atti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, nei sensi e con le modalità di cui in motivazione, e con copia degli atti ivi indicati;
2) la sospensione del presente giudizio;
3) riserva alla decisione definitiva ogni ulteriore statuizione in rito, in merito e in ordine alle spese.
Sospende il giudizio.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 8 luglio 2013 con l’intervento dei magistrati:
Giorgio Giovannini, Presidente
Pier Giorgio Lignani, Presidente
Stefano Baccarini, Presidente
Alessandro Pajno, Presidente
Giorgio Giaccardi, Presidente
Marzio Branca, Consigliere
Francesco Caringella, Consigliere
Maurizio Meschino, Consigliere
Nicola Russo, Consigliere
Salvatore Cacace, Consigliere
Bruno Rosario Polito, Consigliere
Roberto Giovagnoli, Consigliere, Estensore
Manfredo Atzeni, Consigliere
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 25/09/2013
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)