Teoria e dommatica delle fonti in Alessandro Giuliani
1.- Ha osservato giustamente Nicola Picardi, in un suo noto, affettuoso e scientificamente impegnato ricordo di Alessandro Giuliani, che anche le ricerche sulla legge e sulle fonti in generale costituivano, nell’impianto complessivo del pensiero di questi, “uno sviluppo delle riflessioni sul giudice”. In effetti, è proprio così. Non mi sembra che in Giuliani si possa registrare lo sforzo dell’indagine su un possibile “in sé” della legge, perché la legge era da lui concepita come il medium del rapporto che inevitabilmente doveva e deve instaurarsi fra il legislatore e il giudice: fra chi pone (anzi, significativamente chiosa Picardi, chi “tenta di porre”) le regole e chi deve interpretarle ed applicarle. Quel che interessava, dunque, non erano le questioni classiche della legge e delle fonti: non il rapporto tra legge e sovranità; non la questione del pregio specifico delle fonti di derivazione dalla rappresentanza (non quindi, la questione della riserva di legge); non l’ordinamento delle fonti in sistema secondo una griglia di princìpi ordinatori capaci di risolvere le antinomie. Non troveremo, dunque, una dommatica delle fonti nell’opera di Giuliani; troveremo – però – una loro teoria, ed è per questo che il titolo del mio intervento è quello che si legge nell’indice di questo volume.
Già la scelta di non elaborare una dommatica, in realtà, è un elemento di una teoria delle fonti e rimanda al convincimento che la legge (alla quale fonte soltanto, per semplicità, è qui bene riferirsi) sia questione che non può essere trattata prescindendo da ciò che le sta fuori, e cioè dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Talvolta questo convincimento è manifestato in modo radicale, estremo, come quando si afferma che “il linguaggio legislativo presuppone quello della scienza e della giurisprudenza”. Talaltra, anche a brevissima distanza, lo è in forma più moderata, come quando si scrive che “esiste interazione tra il linguaggio del legislatore e quello della dottrina della giurisprudenza”. E si tratta di un convincimento ben fondato e che, specie quando è espresso nella forma più prudente che ora ho riportato, mi sembra particolarmente condivisibile.
A ben vedere, che quella del giudice sia interpretazione per l’applicazione è cosa ormai nota e acquisita alla consapevolezza del pensiero giuridico. Molto meno lo è che la stessa legislazione sia legislazione per l’interpretazione e – quindi – per l’applicazione. Credo che un grande merito di Giuliani sia stato proprio l’aver mostrato che la legislatio e la iurisdictio sono elementi di un processo di decisione sociale che – pur nelle differenze funzionali delle due attività – possiede una sua unitarietà, sicché può produrre risultati apprezzabili solo a condizione che chi sta a monte non dimentichi che quanto fa è destinato a ripercuotersi a valle, e che chi sta a valle non dimentichi che quanto fa lo fa perché a monte esiste un voluto legislativo da condurre ad effetto. Non si tratta, dunque, soltanto della constatazione (per altro opportunamente registrata da Francesco Cerrone in un bel saggio sul Nostro) che il diritto è il prodotto di apporti multipli – del legislatore, cioè, ma anche dei giudici, così come degli stessi poteri privati o della dottrina -, ma della ricostruzione unitaria del fenomeno giuridico, nella sua prospettiva dinamica (e cioè della nomopoiesi).
Certo, la premessa può essere suscettibile degli svolgimenti più vari. Per Giuliani furono quelli della teoria dell’argomentazione e della riscoperta della topica, ma non credo (e non paia provocatorio) che con quella promessa sarebbero state incompatibili posizioni molto diverse, come quella di Bobbio (il cui positivismo non era certo inconsapevole del fatto che l’interpretazione non è mai riproduzione, ma è svolgimento della previsione normativa recata dalle fonti, legislative e non). Peraltro, questa astratta compatibilità ha dei chiari limiti concreti e comincia e finisce qui, perché è inevitabile che in quel processo sociale che è la legislatio/iurisdictio si finisca per assegnare il primato o alla prima delle due azioni – a quella del legislatore – o alla seconda – a quella del giudice. E non v’è bisogno di esplicitare per quale soluzione propendessero le due posizioni paradigmatiche di Bobbio e di Giuliani (ricordo solo le attente notazioni di Cervati – nel Biografico – sulle riflessioni di Giuliani quanto alla pretesa – da lui giustificata e che, confesso, mi lascia invece assai più tiepido – di un nuovo protagonismo del giudice).
Ma restiamo, appunto, a quest’ultimo. Gli altri elementi della sua teoria delle fonti, e in particolare della legislazione, li troviamo innanzitutto nel noto Commento alle Preleggi, apparso nel Trattato diretto da Pietro Rescigno. Qui, mi sembra, almeno nella prospettiva che ho scelto di assumere, acquistano un rilievo particolare le considerazioni sull’abrogazione e quelle sulla retroattività. Si badi: è evidente che, considerate le coordinate teoriche generali del pensiero di Giuliani, elementi essenziali della sua teoria delle fonti si trovano anche nella dottrina dell’interpretazione: penso, in particolare, all’inquadramento del fenomeno dell’analogia tra l’interpretazione e l’equità, che ha problematizzato la tradizionale discussione fra chi nega la distinguibilità di interpretazione estensiva ed analogia e chi (come la Cassazione francese, nelle Observations al projet del Code civil, sulle quali di recente ha richiamato l’attenzione Ugo Petronio) sostiene che l’analogia non abbia nulla a che vedere con l’interpretazione. E’ evidente, ripeto, ma è proprio nelle pagine sull’abrogazione e in quella sulle retroattività che, a mio parere, le fonti sono trattate nella prospettiva più sistematica.
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