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1929 e 2009: due crisi commensurabili?

di - 16 Luglio 2009
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Due termini di paragone aggiuntivi possono essere rilevanti. Nel 1930 – il primo anno di recessione nella crisi del 1929-33 – il PIL diminuì del 5 per cento (ben più dell’1,4 previsto per il 2009) sia nell’area industrializzata, epicentro della recessione mondiale, sia nell’intera economia del globo: la tenuta in Asia e la crescita (del 10 per cento) nell’Europa dell’Est compensarono appena la flessione in America latina. In termini di scarto cumulato del prodotto effettivo da quello potenziale – la misura più accurata della gravità di una recessione – la perdita di reddito delle economie avanzate attualmente prevista dal FMI per il 2009-2010 supera quelle sperimentate nel 1974-75, dopo il primo shock petrolifero, e nel 1980-83, dopo il secondo shock petrolifero (6 punti percentuali).
c)        Finanza. Sul fronte dei prezzi e della produzione l’analogia della fase attuale con la drammaticità della crisi del 1929 appare quindi, allo stato, destituita di fondamento. Più complessa è invece la comparazione delle due crisi nella instabilità dei valori patrimoniali, bancari, finanziari.
Nel quadro delle normali fluttuazioni da moltiplicatore-acceleratore, ma anche indipendentemente dal ciclo, la meccanica delle crisi di finanza è unica. E’ tipizzata in un modello standard, via via affinato, dopo Henry Thornton (1802), da Bagehot, Wicksell, Hawtrey, Fisher, Keynes, Minsky, Kindleberger. Un evento imprevisto dischiude nuove aspettative di lucro. La speculazione rialzista monta. Alimentata da un’offerta di credito inevitabilmente elastica, diventa smodata. Allorché – incertus quando, certus an – l’eccesso comincia ad apparire evidente, si svende in fretta per rimborsare il debito, stanti le attese di deflazione e i più onerosi tassi reali d’interesse. Crollano allora i prezzi dell’oggetto della speculazione, che può essere qualsivoglia: prodotti, immobili, terreni, azioni, obbligazioni, contratti, scommesse. Il circolo vizioso si arresta allorché la fiducia viene ripristinata dalla politica economica, o semplicemente torna. Il significato ultimo del modello è che l’instabilità è radicata nel capitalismo. Delle crisi può darsi la cura, il contenimento, il rinvio, mai con certezza la prevenzione.
Nella crisi attuale l’eccesso speculativo si è incentrato sulle case e sui mutui proposti dalle banche a cinque milioni di famiglie povere in America, ancora sugli immobili in altri paesi occidentali, sui derivati e sui titoli “tossici” quasi ovunque. Ottanta anni fa l’eccesso speculativo si incentrò sulle azioni, in prevalenza industriali. La propensione all’indebitamento eccessivo – di famiglie, imprese, speculatori – trovò, come sempre trova, un’offerta di credito bancario e non bancario con segmenti dalla incontrollabile elasticità.
In stridente contrasto con la regolarità morfologica tipizzata dal modello standard, la casistica empirica delle crisi è di una varietà disarmante. Ogni crisi è specifica, nelle forme, nei tempi, nella gravità, nelle ripercussioni politiche e sociali. In questo senso è oggetto di storia, più che di teoria.
Nella storia dei due secoli di capitalismo industriale, le crisi finanziarie di singole economie ammontano a diverse centinaia. Le fasi di instabilità finanziaria davvero grave su scala mondiale precedenti l’attuale sono state tre: 1873-1878, 1889-1894, 1921-1933. La prima e la terza hanno coinciso, la seconda non ha coinciso, con cedimenti del PIL a livello internazionale. In effetti, storicamente non sono rari gli scompensi finanziari che hanno mancato di risolversi in contrazione del reddito. La crisi venne circoscritta da avvenimenti o da provvedimenti che ristabilirono in tempo la fiducia.
Intercorrono due secoli fra il caso di Londra del 1793 e quello di Wall Street del 1987, ma l’intervento esterno fu in entrambe le occasioni risolutivo. Nel 1793 il panico si diffuse nella City a seguito del crack di banche operanti fuori Londra. La domanda di biglietti della Bank of England crebbe a dismisura, per ragioni precauzionali; la stretta si fece rapidamente durissima. Ma la catena dei dissesti bancari venne spezzata e non si estese al mondo della produzione. Bastò l’annuncio del Parlamento di porre a disposizione dei mercanti solvibili titoli dello Scacchiere, a breve e facilmente liquidabili: moneta con cedola. Nell’ottobre del 1987 il crollo da primato storico dei corsi azionari a Wall Street – peggiore che nell’ottobre del 1929 – venne bloccato dalla pronta correzione di segno della politica monetaria americana, attuata da Greenspan. L’immissione di liquidità evitò che l’attività produttiva venisse intaccata.
Altri episodi di tensione finanziaria rientrata per accidente o per intervento esterno si sono avuti in Inghilterra nel 1797, 1810, 1825; in Francia nel 1818; negli Stati Uniti e in Europa nel 1857; di nuovo in Inghilterra nel 1866 e nel 1890; in Italia nel 1907, nonostante una caduta di borsa dell’80 per cento tra quell’anno e le cosiddette “radiose giornate” del maggio 1915.
Per non riandare tanto indietro, dopo il 1987 sono stati contenuti i danni per l’economia internazionale derivanti dalle crisi finanziarie asiatiche, latino-americane, dell’Est europeo, dello SME, dello LTCM. Anche in questi casi è stato prezioso l’apporto del Federal Reserve di Alan Greenspan.
Al contrario, allorché una forte contrazione produttiva vi è stata – specie se unita, come nel 1929, a deflazione dei prezzi – essa non ha mancato di interagire con una crisi finanziaria. La crisi detta del “1929” fu la più pesante, per entità e per durata, anche nella dimensione finanziaria. La si può quantificare con la sommatoria delle perdite bancarie scalate per il PIL di un anno rappresentativo e con la flessione dei corsi azionari deflazionati per i prezzi al consumo. Tra il 1921 e il 1933 nei due paesi sino ad allora a più alta instabilità finanziaria fra quelli oggi sviluppati – l’Italia e gli Stati Uniti – le perdite bancarie – accertate anni dopo da contabili e tribunali – furono pari al 5 per cento del PIL negli Stati Uniti e all’8 per cento in Italia; le borse crollarono del 50 per cento in Italia nel 1925-1932, come negli Stati Uniti nel 1929-33 (-85 per cento i valori nominali, -30 per cento i prezzi al consumo). In Italia si dovette ricorrere alla eterodossa soluzione dell’IRI, che evitò il panico bancario sperimentato negli USA e che oggi, mutatis mutandis, torna a suscitare interesse, anche fuori d’Italia.
Per singoli paesi piccoli o emergenti il quadro è in realtà altamente variegato, con punte anche molto più gravi rispetto ai due casi appena evocati. Già l’Austria nel 1931 accusò perdite bancarie legate al Kredit-anstalt – grossa banca in piccola economia – pari al 9 per cento del PIL. Nell’ultimo quarto del Novecento in Italia – merito di Via Nazionale – il costo cumulato delle crisi bancarie non ha superato l’1,5 per cento del PIL di un anno rappresentativo. Ma fra i paesi industriali che in quei venticinque anni hanno sperimentato crisi la cifra italiana è inferiore non solo ai casi limite della Spagna (17 per cento del PIL), del Giappone (12 per cento), della Finlandia (10 per cento), ma anche a quelli – compresi fra il 2 e il 5 per cento del PIL – di Svezia, Norvegia, Stati Uniti, Francia, Australia. Nello stesso periodo un centinaio di economie in via di sviluppo hanno sperimentato crisi finanziarie. In questi paesi i costi della crisi non sono stati inferiori a numerosi punti di PIL, con un valore modale di 15 punti. I costi sono giunti a commisurarsi a un terzo del PIL in Tailandia e Turchia, alla metà o poco meno nei casi estremi dell’Argentina e del Cile nei primi anni Ottanta. Nell’ultimo mezzo secolo 21 paesi avanzati hanno sperimentato 122 recessioni, almeno 15 delle quali associate a crisi finanziarie.

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