Imposta come home page     Aggiungi ai preferiti

Debito pubblico, ma non solo

di - 20 Ottobre 2025
      Stampa Stampa      

         La questione dei debiti pubblici permane irrisolta, con tendenza ad accentuarsi. Non sorprende che susciti crescenti preoccupazioni. Pure, non può, non deve, essere riguardata come a sé stante. Riflette squilibri di fondo all’interno dei singoli paesi. Di quegli squilibri è l’effetto e il sintomo. Soprattutto, può a propria volta innescare squilibri, anche internazionalmente diffusi. E l’economia mondiale fronteggia problemi non meno preoccupanti di quello del debito pubblico, da questo largamente indipendenti e che potrebbero ulteriormente aggravarlo.

         Su scala mondiale il debito pubblico è giunto a travalicare il 100% del prodotto, nelle economie più avanzate con punte del 220% in Giappone, 150% in Grecia, 140% in Italia, 130% negli Stati Uniti, 120% in Francia. Il rapporto è inferiore nelle economie meno avanzate, ma per collocare i titoli pubblici si devono accettare oneri per interessi molto elevati.

Nell’area dell’OCSE la spesa pubblica è complessivamente pari al 43% del Pil, con una punta non lontana dal 60% in Francia, una media nell’Euroarea del 50% su cui si colloca l’Italia, mentre anche gli Stati Uniti hanno varcato la soglia critica del 40%. Un secolo fa, alla vigilia della prima grande guerra, il rapporto non superava il 15% circa. Strutturalmente, la spesa non è coperta dalle entrate. Oggi esse si situano sul 39% del Pil nell’OCSE, 47% nei paesi dell’euro (52% in Francia, 48% in Italia), 33% negli Stati Uniti. Di qui i disavanzi di bilancio e, con essi, il debito, alto e spesso crescente rispetto al prodotto.

La soluzione del problema del debito, oltre che in una più rapida crescita delle economie, attualmente improbabile, è ovviamente nella riduzione dei disavanzi: minori spese non sociali, maggiori entrate con tassazione progressiva. La incapacità di governi e parlamenti di provvedere è alla base di questa vera e propria “crisi fiscale dello Stato”. Denunciata da James O’Connor nel 1973, ha assunto connotazioni che arrivano a coinvolgere il rapporto fra eletti ed elettori, i modi della ricerca del consenso, le stesse fondamenta della democrazia liberale. Va compreso sino in fondo ciò che dissuade oggi le classi dirigenti dal risanare le pubbliche finanze.

Il pericolo più serio è analogo, mutatis mutandis, a quello descritto da Irving Fisher nel 1933: una depressione economica alimentata da un debito magnificato nella dimensione reale e nell’onere reale degli interessi dalla deflazione dei prezzi. Il tasso d’interesse in termini reali esplode quando c’è deflazione. Nel 1930-1933 negli Stati Uniti i tassi nominali d’interesse sui debiti privati e pubblici erano bassi, inferiori al 4%. Ma i prezzi diminuirono del 15% l’anno, con la conseguenza che i tassi reali dell’interesse balzarono ben al disopra del 10%, un record nell’età contemporanea. Seguì una caduta del Pil dell’ordine del 25%.

Attualmente il mondo rischia l’inflazione, non la deflazione dei prezzi. Ma l’economia mondiale vive oggi almeno altri quattro gravi problemi, non meno urgenti di quello del debito pubblico e che al tempo stesso lo acuiscono e ne ostacolano la soluzione.

Il più serio, per l’intera umanità, è la questione ambientale, sia per le risorse che la sua soluzione richiede sia dopo che la cooperazione internazionale per affrontarla è stata minata dalla uscita degli Stati Uniti di Trump dall’Accordo di Parigi.

Segue la questione di distributiva. Il divario tra ricchi e poveri nei redditi e nei patrimoni è tornato a risalire verso i massimi storici che erano stati toccati cento anni fa.

In terzo luogo, è scemato il ritmo del progresso tecnico. Nell’ultimo ventennio l’accumulazione di capitale è rimasta sul 22% del Pil, ma è quasi ovunque rallentata la dinamica della produttività totale dei fattori (TFP), l’altro motore della crescita. E ciò è avvenuto mentre si affermavano la ICT, l’intelligenza artificiale, i social. Negli stessi Stati Uniti, dove queste nuove tecnologie si affermavano, il tasso di incremento della TFP è sceso allo 0,5% l’anno, ben al disotto del 2% di un glorioso passato (Gordon).

Infine, sono in crisi manifesta la leadership americana e il ruolo del dollaro.  Gli Sati Uniti vivono da oltre 50 anni al disopra delle risorse che producono. La posizione debitoria netta del Paese verso l’estero sfiora i 30 trilioni di dollari ed è concentrata nei confronti di Cina, Germania, Giappone. I dazi di Trump sono recessivi per il Mondo e non possono correggere il disavanzo della bilancia dei pagamenti di parte corrente degli USA, che resta inchiodato a un trilione all’anno aggiungendo alle passività di Washington verso l’estero. L’euro non è in grado di sostituire il dollaro come valuta di riserva, ma il Renmimbi lo è, con i Brics in numero crescente uniti alla Cina a questo fine. La transizione sarà comunque drammatica, con rischi di recessione mondiale e ancor più geopolitici e militari.

Sotto il profilo strettamente economico questi quattro problemi si uniscono a quello del debito. Ne contrastano la soluzione non foss’altro perché, per più vie, tendono a limitare la crescita della intera economia mondiale.

 


RICERCA

RICERCA AVANZATA


ApertaContrada.it Via Arenula, 29 – 00186 Roma – Tel: + 39 06 6990561 - Fax: +39 06 699191011 – Direttore Responsabile Filippo Satta - informativa privacy