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PROSPETTIVE PER GAZA

di - 8 Ottobre 2025
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CIRCOLO DI STUDI DIPLOMATICI                                                                              LETTERA DIPLOMATICA

Piazzale della Farnesina, 1                                                                                         n. 1407 – Anno MMXXV

00135 Roma                                                                                                                Roma, 19 luglio 2025

 

PROSPETTIVE PER GAZA

Nella mia precedente Lettera Diplomatica n. 1400 di metà giugno, sull’attacco israeliano all’Iran e la situazione a Gaza, avevo già segnalato la ferma volontà del Premier israeliano, con l’appoggio del Presidente degli Stati Uniti d’America, di procedere con l’occupazione militare della striscia fino all’eradicazione di Hamas, anche se ciòin sosavrebbe comportato ulteriori numerose vittime, oltre a una situazione di profonda sofferenza per tutta la popolazione gazawa, insieme alla possibile partenza “spontanea” da quel territorio di centinaia di migliaia di Palestinesi per Paesi ancora da individuare. Avevo altresì segnalato che tale situazione, che stava iniziando a provocare una delle più vaste tragedie umanitarie dei nostri tempi, avrebbe anche potuto causare, qualora l’assistenza israeliana o americana avesse continuato a mostrarsi molto al di sotto delle esigenze primarie di salute e di igiene dei profughi nelle varie fasi dell’intera vicenda (concentramento dei Palestinesi in certe aree, sostentamento e cure mediche, futuro parziale esodo ecc.), un eventuale coinvolgimento anche dell’Europa sul piano dell’aiuto umanitario se non emigratorio, di grandi proporzioni. Oggi, tre mesi dopo i fatti sopra accennati, il piano sopra menzionato per Gaza continua come precedentemente descritto. Inoltre si è aggiunto un progetto di 38 pagine, per il momento non ufficiale, pubblicato qualche giorno fa dal Washington Post, predisposto da uno studio professionale cui fanno capo anche Jared Kushner, genero di Trump e, per certe materie, anche l’ex Premier Britannico Tony Blair. Il progetto molto ambizioso sul piano strutturale-edilizio, tecnologico e ambientale (che prende le mosse dalla prima idea di Trump su Gaza, resa pubblica qualche tempo dopo l’avvio del secondo mandato presidenziale), appare più adatto a realizzare un grandioso investimento immobiliare, con l’auspicato aiuto delle banche del Golfo, che a garantire con la ricostruzione della striscia, un nuovo sereno destino agli oltre due milioni di cittadini di Gaza. Nel predetto piano, sono incluse, per l’appunto, alcune indicazioni per il destino dei Palestinesi della striscia. Secondo gli ideatori l’intera responsabilità per la ricostruzione di Gaza verrebbe affidata agli USA, sotto forma di una sorta di “Amministrazione fiduciaria”. Tutti i servizi durante l’amministrazione americana verrebbero forniti dalla Gaza Humanitarian Foundation, che non ha, come noto, dato buona prova finora per la distribuzione dell’aiuto alimentare. L’intera popolazione verrebbe “temporaneamente” trasferita in campi appositamente costruiti, come in qualche caso già parzialmente avvenuto, mentre i Palestinesi che desiderino lasciare il territorio riceverebbero 5000 dollari ciascuno oltre a un piano contributivo di sostenibilità, non ancora dettagliato, per i primi anni dopo il trasferimento all’estero. I proprietari di case o terreni riceverebbero invece un “token” in cambio della cessione di tutti i diritti sui beni mobiliari. Dalle prime informazioni non si specifica se le persone oggetto di trasferimento avrebbero il diritto di tornare a Gaza in un secondo tempo. Inoltre non si conosce il vero destino e il futuro “status” di quelli che resterebbero a vivere nella striscia che verrebbe probabilmente inquadrata in un unico Stato di Israele. Non si parla infine della sorte dei Palestinesi nei campi profughi in Libano, Giordania, ecc. Netanyahu ha inoltre annunciato di avere predisposto una nuova “sistemazione” della Cisgiordania, cioè l’ulteriore forte ridimensionamento della terra destinata ai Palestinesi anche in quella area, rispetto agli accordi di Oslo. In sostanza si tratta di prospettive molto preoccupanti e poco chiare per i Palestinesi, mentre si resta in attesa di una “ufficialità” di questo nuovo piano per Gaza, sia da parte israeliana che da parte americana. Siamo comunque già arrivati da tempo al momento in cui due milioni di persone senza più casa né regolari mezzi di sostentamento (ormai siamo al terzo o al quarto trasferimento forzato, è stato avviato in questi giorni anche lo sgombro radicale di Gaza City), hanno cominciato ad essere ammassati nei campi ove si spera, senza grandi ottimismi, che sarà possibile organizzare in tempo i servizi necessari per tutto il periodo che sarà necessario per le esigenze dell’evacuazione “temporanea” e della ricostruzione, per quelli che resteranno. Per quanto riguarda l’opinione pubblica israeliana, accanto a grandi manifestazioni di massa ci sono state delle prese di posizioni ferme di influenti personaggi a tutti i livelli nella società civile e nelle Istituzioni su Gaza, che collegavano il rilascio degli ostaggi alla fine della guerra. Tali sentimenti potrebbero essere maggiori se fosse consentito l’accesso a giornalisti israeliani nella striscia, essendo le notizie che giungono al pubblico israeliano soltanto smentite ufficiali di quanto riportato da altri (genocidio, carestia, epidemie). Oltre a questo, i massacri e gli atti innominabili del 7 ottobre e la guerra conseguente, hanno “riacceso” tra gli Israeliani la visione del palestinese come “nemico”, pur nella differenza che viene loro in un modo o nell’altro riconosciuta rispetto agli esponenti di Hamas. Tuttavia non è ancora del tutto chiaro l’atteggiamento della casta militare israeliana che, a tratti, ha dato negli ultimi mesi chiari segnali di nervosismo, cui però non sono seguiti episodi di indisciplina. La determinazione del Premier di marciare il più velocemente possibile sulla definitiva realizzazione di un solo Stato si va confermando prima di tutto dalle sue stesse recenti dichiarazioni: “uno Stato Palestinese non vedrà mai la luce” nonché dalle dichiarazioni di alcuni membri del Governo, ma anche dall’evidente grado di priorità che Netanyahu attribuisce ai suoi piani su Gaza e Cisgiordania, rispetto al recupero definitivo degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas o a quello degli Accordi di Abramo per il riconoscimento di Israele da parte dei Paesi vicini, ormai in crisi. Nel comunicato finale della riunione di Doha del 16 settembre, quando i Paesi arabi e islamici si sono riuniti in Qatar per condannare il recentissimo attacco israeliano alla delegazione di Hamas (verificatosi nella stessa capitale poche ore prima, nel quadro del negoziato per la liberazione degli ostaggi israeliani e di cui gli Usa erano a conoscenza, per ammissione dello stesso Trump) si dice che: “i crimini israeliani di genocidio, pulizia etnica, assedio e colonizzazione… minano le prospettive di pace e coesistenza pacifica nella regione”. E con questa ultima frase i convenuti vogliono anche alludere al fatto che gli Stati Uniti, ormai considerati fedeli complici di Israele, non sono più il garante della sicurezza per il Golfo e per l’area medio-orientale. D’altronde altri elementi ci dicono che la determinazione su Gaza di Netanyahu è assolutamente adamantina, come ad esempio il fatto di avere lasciato per ultimo il colpo fatale a Gaza, nella “road map” scelta dal premier per l’azione militare di legittima difesa dopo gli esecrabili eventi realizzati da Hamas il 7 ottobre 2023. Infatti il Premier ha proceduto ad eliminare qualunque possibile disturbo alla sua azione complessiva distruggendo, prima di tutto la capacità principale di attacco di Hamas a Gaza e in Cisgiordania, sopprimendone i leaders anche all’estero. Poi ha eliminato Hezbollah, distruggendone la componente militare in Libano e in parte anche la leadership politica, poi ha colpito i sostenitori di Hezbollah e Hamas in Siria, occupandone anche parti di territorio, in particolare al confine con Israele e infine ha attaccato l’Iran suo principale nemico ridimensionandone con l’aiuto degli USA la sua capacità militare convenzionale e forse anche nucleare per qualche anno e sta provvedendo anche a eliminare la minaccia degli Houthi, ribelli yemeniti alleati dell’Iran. Netanyahu sapeva di essere a capo della potenza militare più forte dell’area, grazie anche all’appoggio americano, soprattutto dopo il ritorno di Trump al potere all’inizio di quest’anno. Oltre alle note ragioni personali che lo spingono all’azione, egli ha ritenuto probabilmente che un’altra occasione come questa di dare l’ultimo colpo agli accordi di Oslo con la “colonizzazione” di Gaza e gran parte della Cisgiordania, non sarebbe mai più tornata. Certo lo aspetta un’operazione molto difficile. Nonostante che il trattamento subito dai Palestinesi di Gaza è stato e sarà ancora per qualche mese, durissimo e quindi si verificherà per questo meno difficile fargli accettare le proposte che verranno loro fatte dagli Israeliani quando verrà il momento, l’idea di “alleggerire” la situazione con il “trasferimento” di alcune centinaia di migliaia di persone non è semplice da organizzare e mi pare che fino ad oggi ben poco sia stato fatto. Rimane naturalmente da accertare lo status politico e amministrativo che riguarderà chi rimane, ancor più di chi parte, dato che il “piano” non ufficiale israelo-americano di cui abbiamo fatto cenno sopra, non ne parla. Inoltre ci si domanda come sarà possibile organizzare in tempi brevi una credibile assistenza per circa due milioni di persone, i quali rimarranno, si ha ragione di credere, in condizioni di notevole indigenza per alcuni anni. Solo per i trasferimenti ipotizzabili di circa un milione di persone ci vorrebbe almeno un anno in una zona priva di grandi porti e aeroporti. Tenendo poi conto dei tempi della ricostruzione ci vorranno almeno quattro anni, se non di più, dato che è ancora in corso la demolizione delle case. Dati i lunghi anni di permanenza nei campi, l’assistenza dovrebbe provvedere a vari servizi ulteriori rispetto all’aiuto umanitario, quali alloggi degni di questo nome, la scolarizzazione dei giovani, la cura degli anziani, un servizio sanitario permanente per tutti ecc. in assenza dei quali si scatenerebbe una crisi umanitaria molto pericolosa e peggiore di quella già cominciata da più di un anno, magari capace di determinare pressioni insostenibili al confine con l’Egitto, con l’obiettivo di arrivare alle coste del mediterraneo occidentale con le possibili conseguenze sull’Europa che dicevamo prima, la quale non potrebbe rimanere impassibile per anni di fronte a una tragedia umanitaria di quella portata sulle coste di fronte a quelle proprie Vediamo quindi realisticamente cosa potrebbe offrire il prossimo futuro alla popolazione palestinese di Gaza e di Cisgiordania. Si deve osservare che, insieme alle giuste proteste internazionali sul trattamento dei Palestinesi, o su questioni di opportunità politiche come il riconoscimento della Palestina, o puntuali come la questione degli ostaggi o l’ostracismo israeliano contro la stampa internazionale e Palestinese, o addirittura l’uccisione di alcuni di questi o di personale sanitario ecc., non si sia riusciti a concentrare l’attenzione anche su quello che più interessa la parte israeliana, cioè le misure materiali per garantire la sicurezza dello Stato ebraico. Ad esempio la presenza di forti ed esperti contingenti internazionali in una ideale fascia smilitarizzata tra i due Stati disposti a restare per molti anni in qualità di cuscinetto fra i due Stati sovrani. Possibilmente si sarebbe dovuto con congruo anticipo identificare anche gli interessati, come è emerso per l’Ucraina già da tempo con le riunioni dei “volonterosi”. Ovviamente per avere la possibilità di procedere con un’operazione di pace bisognerebbe avere l’approvazione di Tel Aviv, che per il momento ha tutt’altri progetti, soprattutto dopo l’orrore del 7 Ottobre 2023. Servirebbe chiaramente a tal proposito la disponibilità del Presidente Usa per fare pressione sul Premier Netanyahu in favore della scelta dei due Stati, cosa che attualmente non sembra in alcun modo attuabile. C’era stata ormai vari mesi fa la proposta egiziana fatta propria dalla Lega araba e poi anche dall’UE, che prevedeva la ricostruzione di Gaza con i fondi delle banche del Golfo, aperti anche al finanziamento internazionale, l’esclusione di Hamas dalla gestione futura della striscia e l’affidamento della medesima a una ANP riformata. La proposta non dettagliava però abbastanza le garanzie di sicurezza per entrambi gli Stati. Andiamo tuttavia verso la terza settimana di Settembre, quando si concentreranno a New York tutti i Capi di Stato o di Governo, per l’apertura dell’Assemblea Generale dell’ONU. In tale occasione ci sarà il primo tentativo e forse l’ultimo, di produrre un progetto completo e dettagliato per la messa in opera della “soluzione a due Stati”. Infatti l’Assemblea Generale dell’ONU il 12 settembre scorso, ha fatto proprio il testo della “dichiarazione di New York” cioè il documento varato a fine luglio dalla conferenza dell’ONU sulla “soluzione a due stati” del conflitto israelo-palestinese, promossa dalla Francia e dall’Arabia Saudita. La risoluzione è stata approvata con 142 sì, 10 no (tra cui Israele e USA) e 12 astenuti. L’Italia si è pronunciata a favore con il resto dell’UE tranne l’Ungheria che ha votato contro. Si tratta del primo passo sostanziale verso la riapertura a New York della “Conferenza sulla soluzione dei due stati”, nell’ambito della sessione di apertura dell’Assemblea Generale che inizia i suoi lavori il 22 Settembre. Nel testo della risoluzione si affrontano varie tematiche quali il disarmo di Hamas, la riforma dell’Autorità nazionale palestinese, il rilascio degli ostaggi e soprattutto un “post conflict planning”, cioè il dispiegamento a Gaza di una “missione internazionale di stabilizzazione, su mandato del Consiglio di Sicurezza” che lancerebbe la prima concreta azione internazionale per la “soluzione a due Stati”. Non sappiamo se siano già stati presi contatti con Paesi interessati a far parte della missione di stabilizzazione, ma ci auguriamo che la proposta per il “post conflict planning”, sia stata adeguatamente preparata. E’ ovvio che si tratta di un momento molto delicato per la presentazione di questa proposta e il dibattito si presenta arduo, ma non è meno arduo il tentativo di Netanyahu di arrivare nei modi sopra accennati a finalizzare la configurazione di “uno Stato” di Israele “dal mare al fiume”, con le possibili preoccupanti conseguenze del caso. La Francia ha inoltre deciso insieme ad altri importanti Paesi europei e di altri continenti, di riconoscere lo Stato della Palestina nel corso di questo vertice. Molti altri, come noto, l’avevano già riconosciuto in passato. Non è difficile prevedere che il destino di Gaza costituirà uno dei grandi temi che animeranno il dibattito in Assemblea Generale questo fine di settembre. Nell’interesse della pace in Medio Oriente per Israele e per i Palestinesi e per tutte le Nazioni Unite, ci auguriamo che si tratti di un dibattito libero, senza preconcetti e senza speciali “acquis” che le forze in campo possano già rivendicare di fronte alla comunità internazionale, nel rispetto del Diritto internazionale e del principio della supremazia della pace che sola sarà in grado di assicurare uno sviluppo sostenibile dell’area e la felicità dei suoi abitanti, già tanto limitata.

 

Paolo Casardi


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