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La guerra di Israele e Stati Uniti con l’Iran e il diritto internazionale

di - 1 Luglio 2025
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CIRCOLO DI STUDI DIPLOMATICI                                                                              LETTERA DIPLOMATICA

Piazzale della Farnesina, 1                                                                                         n. 1402 – Anno MMXXV

00135 Roma                                                                                                                Roma, 23 giugno 2025

 

La guerra di Israele e Stati Uniti con l’Iran  e il diritto internazionale

Se il diritto internazionale resta la nostra stella polare, come credo che sia ancora, cerchiamo di capire come si pone sotto questo profilo quanto sta accadendo con l’attacco israeliano a impianti militari e nucleari, nonché a strutture e a specifici esponenti del sistema di comando e controllo a vari livelli dell’Iran in risposta ad avvertite minacce provenienti da questo paese. E come poi si pone il successivo bombardamento americano di siti nucleari.
Come è prescritto dal Trattato di Non Proliferazione (TNP) sottoscritto fin dalla sua nascita da Teheran, l’Iran non può dotarsi dell’arma nucleare. Ma sulla base dello stesso Trattato ha il diritto a sviluppare un programma nucleare per scopi pacifici sotto il controllo dell’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica (AIEA). Cosa che ha fatto fin dal Governo dello Shah già prima della firma del TNP. Di fronte alla constatazione da parte delle intelligence occidentali e della stessa AIEA di arricchimenti dell’uranio in quantità e dimensioni sospette, dopo un lungo negoziato sostenuto da crescenti sanzioni iniziato dai maggiori paesi europei nel 2003, cui si sono poi aggiunti gli Stati Uniti inizialmente alquanto scettici, fu come noto raggiunto nel 2015 un accordo tra Iran da un lato e i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU più Germania e Unione Europea dall’altro (JCPOA). Tale accordo prevedeva controlli più stringenti relativamente a concordati limiti di arricchimento dell’uranio e di gestione dell’acqua pesante al fine di impedire che si determinassero le condizioni per la realizzazione di bombe atomiche. Dal JCPOA si ritirò Trump durante il suo primo mandato nell’ambito dell’ampio processo di disfacimento di tutto ciò che aveva fatto il suo predecessore, accompagnando il ritiro da un inasprimento delle sanzioni, incluse quelle indirette verso paesi terzi aventi rapporti economici con l’Iran. L’accordo del 2015 fu così vanificato dal Presidente americano, incoraggiato dal Governo israeliano e allora dall’Arabia Saudita prima che Mohamed Bin Salman sviluppasse la sua dottrina di stabilizzazione e integrazione economica nella regione funzionale al suo ambizioso programma di modernizzazione accelerata del paese e di crescita diversificata dell’economia, comprendente la normalizzazione dei rapporti anche con l’Iran inibendo con un nuovo stringente accordo il suo possesso della bomba, oltre che con Israele subordinatamente a positivi sviluppi verso la costituzione dello Stato palestinese.
L’uscita americana dall’accordo aveva rafforzato le tendenze oltranziste del regime iraniano che aveva ripreso dopo alcuni mesi di attesa ad arricchire l’uranio ben oltre i limiti stabiliti.
Verosimilmente indotto da Bin Salman e come auspicato dagli europei e da vari paesi arabi, Trump ha ripreso nel suo secondo mandato i negoziati per un accordo con lo scopo di impedire l’acquisizione iraniana della bomba. Dall’altra parte il nuovo Presidente iraniano era favorevole ad un nuovo accordo con le necessarie limitazioni purché queste non contrastassero con il TNP e quindi con la possibilità di sviluppare un programma nucleare a fini pacifici. Secondo quanto detto dallo stesso Trump il negoziato si è fermato in quanto l’Iran non accetterebbe la richiesta di non arricchire in alcun modo l’uranio, rinunciando così anche ad un programma nucleare pacifico al quale ha invece diritto in base al Trattato di Non Proliferazione, mentre quello arricchito oltre la soglia andrebbe distrutto. L’AIEA aveva accertato, ribadendolo alcuni giorni fa, che l’arricchimento di uranio si avvicinava a quanto necessario ma non sufficiente per l’acquisizione di una capacità nucleare militare la cui realizzazione richiederebbe altri passaggi e tempi più lunghi.
La maggiore preoccupazione, manifestata anche dal Governo italiano, è ora che l’attacco israeliano all’Iran e poi quello americano, nonché le risposte iraniane, destabilizzino ulteriormente la regione rischiando di rendere più difficili le prospettive di pace.
Una iniziativa europea e araba per attivare la “de-escalation” da tutti auspicata a parole sarebbe quindi opportuna.
Andavano in questa direzione i colloqui avviati a Ginevra fino alla sera prima dell’attacco americano dagli E3 (sigla che un tempo facevo cancellare da ogni documento dell’UE per non ufficializzarla a nostre spese) e dall’Alto Rappresentante per riattivare il negoziato sul controllo del programma nucleare.
La posizione ufficiale degli europei, da Starmer a Meloni a Merz a Macron a Von der Leyen e a Costa è di riattivare il negoziato anche dopo l’attacco americano. Si è tuttavia manifestato subito lo scetticismo se non l’ostilità di Trump che more suo voleva e vuole condurre la questione in via bilaterale mostrando ad un certo momento un interesse ad un eventuale coinvolgimento della sola Russia.
Un rischio che ora si palesa, anche se parzialmente mitigato da dichiarazioni del Ministro degli Esteri Aragchi, è che di fronte all’attacco israeliano e americano l’Iran si ritiri dal Trattato di Non Proliferazione, come fece la Corea del Nord, sottraendosi così ad ogni controllo.
Un altro rischio, su cui si è pronunciato il Parlamento iraniano con una deliberazione però non vincolante è il blocco dello stretto di Ormuz, cosa tecnicamente non troppo difficile. Se la Cina e gli Stati arabi del Golfo non convincessero Teheran a non farlo sarebbe il bel regalo che ci avrebbe fatto Trump: prezzo del petrolio e del gas alle stelle, rimbalzo dell’inflazione, stagflazione ecc. a tutto vantaggio immediato ma non a lungo termine per USA e Russia. Il solo vantaggio per noi potrebbero essere forse che ci impegneremmo di più sulle rinnovabili, sui sistemi di accumulo ed eventualmente sull’energia nucleare.
Restano infine il rischio del lancio di una campagna terroristica non solo nella regione e quello, gravido di conseguenze, di attacchi alle basi americane in Iraq, Bahrein, Kuwait, Emirati Arabi Uniti e Qatar.
Da parte di Trump, al di là delle sue affermazioni sulla distruzione di tutte le capacità nucleari iraniane (non sarebbe così secondo l’AIEA), la decisione di attaccare l’Iran è forse un gesto soprattutto a fini di politica interna e per mostrare la forza dell’America di fronte ad una delle componenti che lo sostengono, quella dei falchi evangelici pro-grande Israele. È un gesto che rischia però di essere a doppio taglio perché tra i suoi impegni sui quali ha preso voti vi era anche quello di non aprire un’altra guerra. Si è infatti subito affrettato a dire che si ferma qui. La motivazione interna a maggior ragione vale per Netanyahu. Di fronte alle ritorsioni iraniane egli è comunque riuscito, almeno fino ad ora, a ricompattare il paese su questo aspetto, pur rimanendo i dissensi sulla gestione di Gaza e della Cisgiordania passati in secondo piano, al prezzo tuttavia di fare aumentare le ostilità nel mondo nei confronti di Israele di cui Netanyahu sembra però curarsi poco.
Sul piano del diritto internazionale, in mancanza dell’osservanza di quanto previsto dalla Carta delle Nazioni Unite per imporre all’Iran l’attuazione del Trattato di Non Proliferazione, avendone accertata la violazione e qualora vi fosse la volontà di farlo, sarebbe comunque difficile contestare che l’attacco unilaterale americano non sia in contrasto con la Carta stessa. Non sarebbe infatti applicabile l’art. 51 sulla legittima difesa, anche nella sua interpretazione più estensiva del legittimo attacco preventivo, che potrebbe invece al limite applicarsi ad Israele, non essendovi stata almeno finora una minaccia imminente e attuale agli Stati Uniti.
In tutto questo, per quanto riguarda l’Italia, è positivo che la Presidente Meloni e la Segretaria Schlein si siano parlate. Nei 3 momenti di crisi internazionale Moro, Andreotti e Craxi parlavano con Berlinguer anche se poi ciascuno faceva il suo gioco ad uso interno ma nell’ambito di certi parametri.
Ora è importante che i maggiori paesi europei operino compatti per riattivare il negoziato.

Maurizio Melani

 

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