Intervista ad Alessandro Roselli a proposito di The Political Economy of Central Banking. A Short History of the Changing Role of Central Banks
Il recente libro di Alessandro Roselli, The Political Economy of Central Banking. A Short History of the Changing Role of Central Banks (Palgrave Macmillan, 2024), ha lo scopo – forse troppo ambizioso – di accostare il lettore non specialista, ma pieno di buona volonta’, a quell’istituzione, cosi’ importante nella sua singolarita’ ma cosi’ poco conosciuta, che e’ la banca centrale. Conoscerne qualche tratto essenziale appare opportuno perche’ – essendo un corpo non eletto in una societa’ democratica, sottratto al potere esecutivo e, almeno di massima, al vaglio preliminare del parlamento – la motivazione della sua esistenza deve trovarsi in ultima analisi nella fiducia che la societa’ civile ripone nel suo operato. In assenza, il suo punto d’approdo finale sarebbe la sua totale riconduzione all’ambito dello stato: un esito talora auspicato da chi intende sottoporre la banca centrale alle dirette pressioni della politica.
Qui di seguito viene data una sintesi di alcuni punti trattati nel libro.
Banca centrale: perche’ non lo stato?
La banca centrale come siamo abituati a conoscerla e a studiarla è figlia della società liberale che si è affermata nell’Europa del 19mo secolo. Questa società venne a poggiare su una serie di istituzioni che – come scrisse un grande storico del liberalismo – H.A.L. Fisher – “sono esse sole capaci di dare alla gente abiti di fiducia in se stessa e di iniziativa”. Nel campo che ci riguarda, la società liberale, grazie a questi “abiti”, ha avuto la forza di creare un’istituzione non rappresentativa, alla quale lo stato ha affidato una funzione fondamentale quale è quella di creare e gestire la moneta. La riconduzione della banca centrale direttamente alla sfera dello stato sarebbe un sicuro segno di decadimento della società liberale.
L’assetto istituzionale emerso nella società liberale, una banca centrale separata dal potere esecutivo e costituita da organi non eletti, tiene conto del fatto che la gestione della moneta e del credito è allo stesso tempo altamente politica e strettamente tecnica. La sottrazione della banca centrale alle pressioni immediate della politica si motiva con la convinzione che l’ interesse della società a che la moneta sia stabile sia meglio servito da una istituzione che esercita il proprio compito in modo autonomo, nel quadro delle responsabilità che l’ordinamento dello stato le attribuisce.
Quando, nell’avanzamento delle istanze democratiche, la natura privata dell’istituzione ha ceduto il passo all’ampliamento della sfera pubblica, la maggior parte delle banche centrali è stata nazionalizzata, ma di esse sono rimaste ferme la separatezza e l’autonomia operativa.
Regole e discrezionalità
Il dibattito sul se la banca centrale debba seguire nella sua attività precise regole, ovvero se sia preferibile una più o meno vasta discrezionalità, è vecchio quanto la stessa istituzione, e riflette quanto si è detto più sopra in merito alla sua posizione nell’ordinamento statuale. Si possono prendere due grandi esponenti del pensiero economico per sintetizzarlo. All’inizio del 19mo secolo, David Ricardo osservò che “è necessario che la quantità di moneta in circolazione sia regolata in base al valore del metallo che [lo stato] ha dichiarato essere lo standard” – cioè, allora, dell’oro. In altre parole, la banca centrale, cui il potere di creare moneta è demandato, deve assicurare che tale moneta sia convertibile in oro. Una eccessiva creazione di moneta, in relazione alla riserva aurea disponibile, preclude tale convertibilità. La regola della convertibilità toglie alla banca centrale, sia pure se operante in forma di istituzione privata, autonomia di comportamento.
Piu’ o meno negli stessi anni, un banchiere, Henry Thornton, notò che, con lo sviluppo dei sistemi bancari, la crescita del credito era tale da influenzare grandemente l’attività economica e di conseguenza il livello dei prezzi. La banca centrale avrebbe potuto, usando la sua discrezionalità, ad esempio abbassando il livello del tasso di interesse, influenzare l’attività economica, incoraggiando la crescita della produzione dei beni senza pregiudizio per la stabilità dei prezzi. Il credito ha “lo scopo di dar vita a nuova intrapresa, la quale, cosi’ sollecitata, creera’ gradualmente piu’ beni”. Con giudiziosa discrezionalità, la banca centrale puo’ bilanciare l’esigenza della stabilità dei prezzi con quella, fino ad allora negletta, di tutelare il livello della produzione e quindi dell’occupazione.
Thornton e’ stato definito il padre del central banking. L’adesione a regole rigide e’ quindi ritenuta la sua antitesi. Una banca centrale e’ necessaria solo quando una comunità decide che un fattore di discrezionalita’ sia desiderabile.
Egli osserva: “Per i dirigenti di un istituto come la Banca d’Inghilterra la politica acconcia consiste: nel limitare l’ammontare complessivo delle emissioni di carta moneta (anche con il ricorso, allorche’ la domanda di credito e’ forte, a efficaci meccanismi di contenimento); nel consentire alla circolazione di oscillare entro determinati limiti, senza mai ridursi apprezzabilmente; nel permettere, invece, un graduale e cauto incremento della circolazione, a mano a mano che le attivita’ economiche del paese si espandono; nell’accrescere il circolante, in via eccezionale e temporanea, ogni volta che si crei un anomalo stato di allarme o di crisi, essendo questo il modo migliore di prevenire un sensibile aumento della domanda interna della moneta aurea; infine, nell’orientarsi alla restrizione di fronte a deflussi d’oro verso l’estero e al persistere di una tendenza cedente nei tassi di cambio. Tollerare che siano le pressioni esercitate dai mercanti, o i desideri del governo, a determinare la misura delle emissioni della Banca significa, senza alcun dubbio, aderire a una regola di condotta del tutto errata”. Questo passaggio fu definito da J.A. Schumpeter “la Magna Carta del central banking”.
Ciò che è stato detto fin qui non e’ tuttavia dato per scontato. Anche in assenza di uno standard aureo, e in presenza della discrezionalità nella creazione della moneta e nel controllo del credito (cd regime di fiat money), si invocano, e si traducono in norme, limiti all’autonomia della banca centrale, nel presupposto che il suo compito esclusivo sia quello della tutela della stabilità monetaria. Il libero mercato, poggiando sull’iniziative privata e operando in un contesto di concorrenza, sarebbe da solo capace di creare le condizione per una sostenuta crescita economica.
Banca centrale e inflazione
Il passaggio da un regime di regole a uno basato su discrezionalita’ (che si puo’ considerare definitivo solo dal 1971, con la fine della convertibilita’ aurea del dollaro statunitense, al quale le altre valute erano legate da un tasso di cambio quasi fisso) ha esaltato il ruolo della banca centrale, che grazie ad essa puo’ contrastare l’instabilita’ insita nel sistema economico. E’ da chiedersi se l’obiettivo dell’equilibrio tra stabilita’ monetaria ed economica (che e’ in certi casi legislativamente sancito, come in quello delle banca centrale americana) sia stato efficacemente e costantemente conseguito. Questa e’ una valutazione non facile, perche’, oltre a possibili errori “tecnici” (ad esempio, una variazione intempestiva dal saggio d’interesse), la banca deve tener conto delle specifiche circostanze in cui opera.
Ad esempio, con l’eccezione dei periodi bellici, gli anni ’70 sono stati il peggior decennio del secolo scorso in termini d’inflazione, in particolare nel Regno Unito e in Italia, con punte di oltre il 20%. Si cumularono allora tre pressioni sui prezzi: un eccezionale aumento dei prezzi dell’energia (un’“inflazione importata”, testimonianza di mutati equilibri geo-politici mondiali), e un’espansione del Welfare state, anche dovuta a pressioni partitiche, con enormi aumenti dei disavanzi pubblici. Ne consegui’ una terza pressione sui prezzi: l’aumento quasi automatico dei salari grazie a meccanismi di indicizzazione (scala mobile), che innesto’ una forte spirale prezzi-salari.
Opporsi a questa spirale con l’adozione di estreme politiche monetarie restrittive avrebbe avuto conseguenze sociali inaccettabili. L’”angoscia” del banchiere centrale fu quella di individuare uno “stretto sentiero” (per usare termini espressi da governatori di allora) tra stabilita’ monetaria ed economica: un sentiero che porto’, in diversi paesi e diversi momenti, all’adozione di misure come la “politica dei redditi”, il “divorzio consensuale” tra banca centrale e governo per contenere il finanziamento monetario dei deficit di bilancio e, sul piano internazionale, il tentativo di “riciclare” i proventi dei paesi fornitori di energia a favore di quelli che la importavano. Infruttuosi si rivelarono i tentativi di ricorso a strette politiche di controllo della quantita’ di moneta, sulla base di parametri suggeriti dalla teoria economica (“monetarismo dottrinale”), specialmente nel Regno Unito.
Solo nuovi equilibri – sia sul piano internazionale, sia su quello della politica sociale – portarono all’adozione di misure di contenimento monetario (come il “monetarismo pratico” del presidente della Federal Reserve Paul Volcker), all’abbandono della scala mobile e alla fine della suddetta “dominanza fiscale”, culminata poi col divieto di finanziamento monetario dei disavanzi pubblici, ora sancito per legge.
Banca centrale, mercato finanziario e vigilanza
L’evoluzione storica mostra, come sopra accennato, un’ enorme crescita dell’attivita’ delle banche, e quindi del deposito bancario come strumento di pagamento. Nei sistemi finanziariamente sviluppati, la carta moneta e’ una componente minore, e decrescente, degli strumenti di pagamento disponibili.
Basata come e’ su un passivo prevalentemente costituito da depositi facilmente ritirabili, e su un attivo fatto di prestiti non altrettanto liquidi e di non sicura restituzione, l’attivita’ delle banche e’ intrinsecamente rischiosa. Dato il loro ruolo centrale nell’economia di un paese, e il carattere del loro bilancio, e’ sorprendente che il problema della loro stabilita’ sia stato a lungo pretermesso. Le banche, in Italia come in altri paesi, rimasero fino all’inizio del secolo passato soggette a codici generalmente concernenti il commercio, senza riguardo alla loro peculiarita’ (prima tra tutte fu la Federal Reserve americana, cui furono attribuiti compiti di vigilanza bancaria fin dalla sua istituzione, nel 1913).
L’intervento della banca centrale, in caso di instabilita’, era in precedenza limitato a quello di “prestatore di ultima istanza”, come “codificato” nella prassi da un giornalista finanziario, Walter Bagehot, nel 1873. Egli premise che la banca centrale, nonostante la sua natura legale privatistica, ha “un grande dovere pubblico”, che la fa operare come “semi-fiduciaria della nazione” (quell’idea liberale richiamata all’inizio di questo scritto). Il precetto di Bagehot era che, in caso di severa crisi bancaria – se di illiquidita’ o di insolvenza rimase un punto controverso – la banca centrale debba creare moneta, prestando a un tasso d’interesse elevato e con adeguate garanzie, ma per un importo potenzialmente illimitato (“to lend freely”): una politica che, in regime di gold standard, contravveniva alla regola fondamentale della convertibilita’ aurea, in nome della tutela della stabilita’ finanziaria.
Il prestatore d’ultima istanza e’ diretto a evitare che situazioni di crisi possono destabilizzare il sistema bancario, generare sfiducia nella moneta e contrarne l’ammontare, con conseguenze sul sistema produttivo e sull’occupazione.
Contenere il ruolo di intervento della banca centrale solo a quello, essenzialmente monetario, di prestatore d’ultima istanza e’ alla base di normative che attribuiscono la vigilanza bancaria a istituti separati dalla banca centrale. Il Regno Unito si e’ a lungo astenuto dall’attribuire alla Banca d’Inghilterra compiti che andassero oltre una informale supervisione sulle banche; una volta attribuitile tali compiti, glieli ha poi tolti nella quadro di una generale deregolamentazione finanziaria, attribuendo la vigilanza a un istituto da essa separato, salvo tornare allo status quo ante dopo la grande crisi finanziaria del 2008.
Se il prestatore di ultima istanza e’ indispensabile per contenere gli effetti di crisi in atto, l’attribuzione della vigilanza bancaria alla banca centrale ha lo scopo, preventivo, di evitare che tali crisi si generino. Essa si basa sul concetto – che si puo’ far risalire, come sopra accennato, a Thornton – che la moneta e il credito sono due facce della stessa medaglia. Questa attribuzione e’ oggi generalmente riconosciuta (in Italia, fin dalla normativa del 1936).
Nel corso del tempo, peraltro, la vigilanza bancaria “prudenziale” (come distinta da quella attinente a un corretto rapporto con la clientela) e’ venuta evolvendosi: dapprima con un obiettivo microeconomico, basata su un’interlocuzione continua tra vigilante e vigilato, largamente cartolare e “intrusiva”, e sulla tutela del depositante; e poi con un approccio che, attraverso l’osservanza di certi rapporti di capitale e di altri coefficienti di bilancio, e’ rivolto alla stabilita’ dell’intero sistema finanziario.
(In considerazione dello stretto rapporto tra stabilita’ monetaria e finanziaria, tardiva e’ stata l’attribuzione di poteri di vigilanza prudenziale sulle banche piu’ importanti dell’euro area alla Banca Centrale Europea, fino ad allora esercitata a livello nazionale: parecchi anni dopo la creazione dell’euro e l’istituzione della BCE.)
L’estensione della vigilanza alla stabilita’ dell’intero sistema finanziario ha posto la questione di controlli adeguati sul settore – crescente – dell’intermediazione finanziaria non bancaria, che si estende da istituti “tradizionali” come le assicurazioni, ad altri piu’ recenti, come hedge funds e private equity offices, che operano sul mercato dei capitali, avvalendosi di enormi risorse, con strumenti innovativi e speculativi. Qui il problema e’ nel rischio potenzialmente sistemico che, dato l’indebitamente crescente di tali istituti verso il sistema bancario, l’instabilita’ dei primi si estenda al secondo – e che si ripetano le condizioni che portarono alla grande crisi finanziaria del 2008.
Come la banca centrale reagisce alle crisi sistemiche, con un occhio alla storia
Uno sguardo agli S.U., il paese piu’ rappresentativo del sistema di mercato capitalistico, mostra la forza delle regole e la discrezione del banchiere centrale in due momenti diversi:
Nella fase della Grande Depressione (1930-1933), un drammatico calo del prodotto si accompagno’ a una estrema deflazione dei prezzi. La Federal Reserve fu “piu’ realista del re” nel senso che la riserva aurea americana era ampia, tale da permettere un’espansione del credito senza compromettere la convertibilita’ aurea del dollaro. Ma prevalse la preoccupazione che tale espansione creasse inflazione, e si attenne al criterio, fini ad allora seguito, di prestare al sistema bancario solo per le necessita’ di breve periodo di finanziamento del ciclo economico (cd real bills only doctrine): un criterio completamente inadeguato alla gravita’ della crisi incombente. Il ruolo di prestatore d’ultima istanza fu completamente dimenticato.
All’iniziale shock produttivo seguito al collasso di una borsa sopravvalutata, non segui’ quindi una politica espansiva, ma invece una caduta del credito, estesi fallimenti bancari, una severa deflazione dei prezzi, drastici cali della produzione e dell’occupazione (i prezzi scesero nella Depressione del 25%, il PIL reale del 20%). Assente fu la politica fiscale, a sua volta vincolata – nel quadro del gold standard – dal pareggio di bilancio.
Quell’ esperienza degli anni ’30 e’ stata ben presente nella grande crisi finanziaria del 2008. Del tutto diversa e’ stata infatti la reazione della banca centrale: una grande espansione monetaria che ha impedito che tale crisi si mutasse in collasso economico e produttivo. Per restare agli S.U., grazie a tali interventi – all’applicazione del “precetto di Bagehot”, estesa anche a istituti con evidenza insolventi, ma anche alla vigorosa espansione dei deficit pubblici, largamente finanziati dalle stesse banche centrali – il calo del prodotto e dei prezzi si e’ potuto limitare al solo 2009. Esperienza analoga si e’ avuta sia nel Regno Unito sia nell’area dell’euro.
Tuttavia, imparare dall’esperienza non esime dal fare nuovi errori. La crisi del 2008 e’ stata il risultato di un nuovo errore: quello di consentire l’espansione di una finanza largamente deregolamentata (v. sopra). Il paradosso e’ che, mentre alla crisi del 2008 seguirono leggi basate su un parziale ritorno a una visione del credito orientata alla pubblica utilita’, e’ nuovamente in corso, soprattutto negli S.U., una tendenza a deregolare in nome dell’innovazione e dell’efficienza. Sembra questa volta che neppure dell’esperienza si stia facendo tesoro.
Testi citati:
Baffi, Paolo, Italy’s Narrow Path, in The Banker, vol 125, n 598, 1975
Bagehot, Walter, Lombard Street. A Description of the Money Market, John Murray, 1932 [1873]
Burns, Arthur F., The Anguish of Central Banking, Federal Reserve Bulletin, September 1987
Fisher. H.A.L., A History of Europe, Edward Arnold, 1936
Ricardo, David, On the Principles of Political Economy and Taxation, Dover, 2004 [1821]
Schumpeter, Joseph A., History of Economic Analysis, Oxford University Press, 1954
Thornton, Henry, Indagine sulla natura e sugli effetti del credito cartolare in Gran Bretagna, a cura di Pierluigi Ciocca e Valeria Sannucci, Cassa di risparmio di Torino, 1990 [ An Enquiry Into the Nature and Effects of the Paper Credit of Great Britain, 1802]