Drammatiche testimonianze abruzzesi (1943-1944)
Nato da poco, per fortuna a Ortona nel 1943…non c’ero. Ma una ventina d’anni anni dopo, ospite di mio zio Giovanni Di Paolo, vi raccolsi due testimonianze sulla tragedia della guerra nella città.
Ortona recava ancora i segni della sanguinosa battaglia che nel dicembre del 1943, casa per casa, aveva per giorni opposto gli alleati della prima divisione canadese del generale Vokes – in avanzamento con obiettivo Roma, via Pescara e la Tiburtina Valeria – contro i tedeschi attestati a difesa della Linea Gustav. La battaglia provocò tremila caduti e feriti fra i soldati delle due parti, ma anche 1300 morti fra i cittadini. Per i tremendi sacrifici sopportati la città meritò la medaglia d’oro al valor civile, con la seguente motivazione: “Con fierissimo contegno resisteva intrepida e affermava, negli orrori della guerra, il più alto spirito di solidarietà umana”.
Nel Moro River Canadian War Cemetery, nei pressi di Ortona, sono sepolti 1400 ragazzi canadesi, caduti in quei terribili scontri. Mio zio, sindaco della città, invitò a ricordare quei drammatici accadimenti gli ex ufficiali canadesi. Al brindisi nella sua villa il canadese più anziano – non so se fosse lo stesso Vokes, detto “il macellaio” per le perdite subite negli attacchi da lui ordinati – affermò che gli ortonesi avevano persino aiutato e soccorso i suoi, che era onorato dell’accoglienza da parte del sindaco e della cittadinanza, che la guerra è orrenda e che dal Canada non potevano pensare di andare a morire nei vicoli di Ortona e al fiume Moro, sconosciuto ruscello.
Avevo letto della fuga del Re da Ortona, la notte del nove settembre del 1943 (cfr. P. Mellano, Da Roma a Brindisi (via Pescara), Picchi, Tivoli, 1967). Lo stesso zio mi condusse al porto e invitò due anziani che pescavano con l’amo (l’acqua era pulitissima!) a raccontare anche a me quanto avevano visto quella lontana sera. Dissero che arrivarono decine di automobili “ufficiali”, che c’erano dei piccoli rimorchiatori per trasportare i fuggiaschi sulla corvetta antisommergibile F578 – il “Baionetta” – in attesa al largo, che non c’era posto per tutti, che vi furono spintoni e pugni per imbarcarsi. Aggiunsero che quelli si picchiavano e scappavano, mentre 1300 abitanti di Ortona, compresi loro amici o parenti, avrebbero perso la vita qualche mese dopo nella “Stalingrado d’Italia”
Un ulteriore ricordo riguarda Chieti, dove la nostra famiglia si trasferì, dall’Aquila, nel 1957. I miei compagni di primo liceo dell’antico e glorioso “G.B.Vico” di Chieti mi parlarono del loro vescovo, Monsignor Venturi, a cui la città serbava – e serba – gratitudine per averla salvata nel febbraio-marzo del 1944. Chieti, allora 30mila abitanti, era stata invasa da 100mila fuggiaschi provenienti dai borghi e dalle campagne delle vicinanze, terrorizzati dalla guerra che arrivava in Abruzzo, dalle truppe tedesche, dagli stessi “alleati” indiani, marocchini, neo zelandesi, polacchi. I tedeschi, attestati sulla Linea Gustav, occupavano e minavano i paesi, bombardati a propria volta dagli alleati che con fatica pressavano. Gli sfollati furono accolti dalla cittadinanza teatina per solidarietà, perché recavano vettovaglie dalla campagna, perché non c’era altra scelta. IL generale Kesselring fu capace di bloccare gli anglo-americani per quasi due anni. Progettava di difendersi dall’alto del colle su cui Chieti sorge, per poi minare l’abitato nella prevedibile ritirata. Quindi decretò l’evacuazione di 130mila persone. Una follia! Monsignor Venturi, in macchina, corse a Roma. Attraverso Pio XII – suo ex compagno di studi – poté incontrare Kesserling. Kesserling – come avrebbe in seguito dichiarato al processo in Italia – fu ammirato dal coraggio del vescovo e venne convinto dai suoi argomenti. Accettò, come poi fecero anche gli alleati, una Chieti città aperta (Venturi diceva “città ospedaliera”). E la popolazione e la città furono salve.
Come ha ricordato il Presidente della Repubblica, nacquero allora, in Abruzzo, le prime bande organizzate della Resistenza. La maggiore, la “Brigata Maiella” comandata da Ettore e Domenico Troilo, risalì la Penisola combattendo fino alla liberazione di Bologna, nell’aprile del 1945 (Cfr. M. Franceschelli, la Guerra in Casa, èDICOLA editrice, Chieti, 2007; C. Felice, Dalla Maiella alle Alpi, Donzelli, Roma, 2014).
Pierluigi Ciocca
Mentre a Ortona, all’estremo capo orientale della Linea Gustav (quello occidentale era Minturno) la “colonna” Commonwealth degli Alleati (il settore occidentale era prevalentemente composto di truppe USA, più reparti delle colonie francesi e reparti del rinato Regio Esercito) combatteva metro per metro e dove di frequente pattuglie tedesche e canadesi si battevano all’arma bianca all’interno di uno stesso edificio sotto gli occhi terrorizzati degli abitanti e dove spesso i tank restavano incastrati nelle viuzze, nell’immediato nord del Fronte abruzzese l’esercito di occupazione tedesco, fiancheggiato dalla RSI, aveva imposto lo stesso regime brutale che opprimeva il resto d’Italia. Il 30 dicembre del 1943, in contrada Santa Cecilia, a metà strada tra Francavilla al Mare e Ripa Teatina, una ragazza del posto venne violentata da un milite della Wermacht. Il padre della fanciulla ammazzò, pare a badilate, il nazista. La rappresaglia non si fece attendere e il prezzo fu il doppio dello “standard” di quei casi: invece di 10 ostaggi fucilati per ogni tedesco ucciso, le vittime, rastrellate a caso nel contado, furono 20. A poche centinaia di metri c’era, c’è ancora, la casa della mia famiglia paterna, fulcro di una delle storiche aziende agricole della zona, in Comune di Miglianico. La casa padronale era stata requisita dalle Waffen SS, il braccio armato della organizzazione di Himmler, che vi avevano installato una postazione della Flak, la contraerea (negli anni della mia infanzia a ogni “scasso” del terreno agricolo spuntavano fuori elmetti bucati, fucili, bombe inesplose). Il comandante della postazione, un tenentino trentenne che parlava correntemente greco e latino, oltre che l’italiano, aveva preso in simpatia mia nonna e due giorni dopo l’eccidio, senza farsi sentire dai suoi commilitoni, mentre potava con lei le rose nella serra, le disse che tirava una pessima aria nel comando tedesco e che probabilmente vi sarebbero state altre rappresaglie, facendo così intendere che prima la mia famiglia scappava e meglio era. Nei tre giorni successivi, anzi, nelle tre notti, mio padre, che viveva nascosto nel seminterrato di uno dei casali dell’azienda per sottrarsi alla leva coatta nella RSI, insieme a tre giovani coloni dell’azienda, riempì di acqua e viveri un vecchio barcone a remi nascosto sotto le canne nel lungo tratto di costa, a nord del fiume Alento, che divideva Francavilla da Pescara, oggi completamente edificato, ma che a quei tempi era una meravigliosa duna mediterranea. La quarta notte, a piedi e col terrore di essere scoperti, in quaranta si incamminarono furtivamente tra le vigne, i fossi e i campi di mais per raggiungere la spiaggia e il barcone. Il gruppo, capeggiato da mio padre e mio nonno, era quanto di più eterogeneo: insieme alla mia famiglia (meno la sorella di mio padre che era internata nelle Filippine in un lager giapponese perché il marito era un dirigente della Shell e lavorava lì, la guerra aveva anticipato la globalizzazione) c’erano tre famiglie di coloni e due generali della Regia Aereonautica che tre mesi prima, il 9 settembre, non erano riusciti a imbarcarsi a Ortona sul “Baionetta” e che vivevano in clandestinità. Spinta a mare la barca e armati i remi, il gruppo, ormai all’una del mattino, riuscì ad allontanarsi dalla spiaggia. A circa 400 metri dalla riva arrivarono le pattuglie dei tedeschi che si erano accorti della fuga e illuminando la barca con le fotoelettriche, spararono raffiche con le mitragliatrici montate sulle moto, ma ormai erano troppo lontani. Mio nonno era stato pilota di caccia nella prima guerra mondiale e, oltre a essere un tipo piuttosto brusco, era abituato ad orientarsi con le stelle. Dopo circa un’ora di remata diede degli idioti ai giovani agli scalmi, facendo notare che avevano messo la prua a nord. Fatto un repentino cambio di rotta di 180 gradi e remando per 6 ore riuscirono prima a doppiare il promontorio di Ortona e finalmente ad arrivare a San Vito Marina, dove, per non farsi mancare nulla, nella nebbia del mattino furono presi a fucilate dai canadesi, che li avevano scambiati per un commando tedesco, per fortuna senza conseguenze. Rifocillati e ospitati, i componenti del gruppo presero ognuno la propria strada. I coloni con mio nonno e mia nonna attesero che il fronte sfondasse, per tornare a Miglianico, i due generali, di cui uno pianse tutto il tempo consolato da mia nonna, si unirono a Badoglio e mio padre, giornalista, divenne uno dei dirigenti di Radio Bari. La battaglia di Ortona durò ancora a lungo, quanto bastò alle truppe tedesche per ritirarsi attuando la tattica della “terra bruciata” di cui una delle vittime più illustri fu Francavilla al Mare, fino ad allora denominata la Castiglioncello dell’Adriatico, che fu completamente minata e rasa al suolo, lasciandomi, nel ricordo dei filmati di repertorio che vedevo da bambino, l’immagine indelebile della locomotiva tedesca che trascinava dietro di sé un enorme vomere che devastava la ferrovia, arricciando i binari come burro.
Levino Petrosemolo