I motorini di Madrid
Considerazioni sullo stato di attuazione del PNRR
Mia figlia maggiore ha fatto l’Erasmus a Madrid. Quando vi si stabilì mi venne spontaneo chiederle cosa l’avesse colpita di più di quella città. La risposta fu: in questa città non ci sono motorini
Detta a uno che quotidianamente si trova a confrontarsi con sciami, stormi, battaglioni di mezzi a due ruote per le strade di Roma ed esso stesso condannato a farne uso, la risposta ebbe un impatto che mi avrebbe accompagnato anche negli anni e venire.
Cosa c’entra questo con il PNRR italiano? C’entra, e con un po’ di pazienza ci arriveremo.
Per dare solo un assaggio del punto chiave, vorrei solo ricordare che il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza fu, all’atto del concepimento, lo sviluppo italiano del Piano europeo per ovviare ai disastri causati dalla pandemia da COVID 19. Il Piano era denominato Next Generation EU e la denominazione la diceva lunga sugli obiettivi a lungo termine che avrebbe voluto porsi. Il Piano, approvato a luglio del 2020 dal Consiglio Europeo, consisteva in finanziamenti per complessivi 750 miliardi di Euro di cui 390 miliardi in sovvenzioni (grants) e 360 miliardi in prestiti (loans).
In buona sostanza, la sigla del Fondo lasciava intendere che lo sforzo collettivo dei vari stati membri avrebbe dovuto concentrarsi nel consegnare alle future generazioni un’Europa vivibile, in grado di competere a livello globale in termini di crescita e di tenere botta di fronte a possibili shock futuri tipo COVID. Il Piano, così come era stato concepito, poneva rigidi limiti in termini di assorbimento delle somme, stabilendo come traguardo finale per il suo completamento il 2026.
Per entrare nel merito di alcune considerazioni sullo stato di attuazione del PNRR italiano, mi preme fare una premessa sulla differenza che corre tra i termini “efficienza” ed “efficacia”, differenza che potrebbe non essere così intuitiva. L’efficienza è un termine che misura il comportamento “interno” di un sistema: un motore efficiente è un motore che consuma poco carburante e poco lubrificante, che pesa poco in rapporto alla potenza che esprime, che richiede poca manutenzione, eccetera. Un motore efficace è un motore che, per esempio nel mondo delle competizioni, spinge il mezzo che lo ha in dotazione, a velocità superiori rispetto ad altri concorrenti, consentendogli di vincere i confronti. L’efficacia quindi misura gli effetti “esterni”.
La lettura, ma non solo, dei numerosi documenti elaborati dai vari stakeholders nel corso dello sviluppo del PNRR, e il conseguente dibattito in corso tra sostenitori e detrattori dell’azione del Governo attuale, a mio modesto avviso si sta sviluppando solo attorno all’efficienza del meccanismo messo in moto. La discussione cioè verte attorno alla questione riguardante la capacità dell’Italia di fare in tempo o meno a spendere tutti i finanziamenti che la UE le ha destinato che, come noto, sono di gran lunga più consistenti rispetto a tutti gli altri paesi della Unione, con la sola Spagna che le si avvicina.
D’altra parte, ormai, quello della capacità di spesa è l’unico dibattito che si può sviluppare attorno al tema del Piano, visto che i giochi sul merito dei progetti presentati ormai sono conclusi da quasi 5 anni e, con questa considerazione, l’articolo potrebbe anche interrompersi qui. Ma, sempre facendo riferimento a quella originale denominazione di Next Generation EU, è probabile che qualche riflessione in più valga la pena di effettuarla.
Innanzitutto, una delle raccomandazioni, se mai ce ne fosse stato bisogno, che il Governo dell’Unione pose in modo pressante all’Italia come premessa irrinunciabile al successo del Piano era l’adozione di una serie di riforme strutturali. E qui la prima considerazione: ma c’era bisogno del COVID e del PNRR per fare capire all’Italia che era necessario mettere mano in modo radicale ad alcuni comparti chiave della vita del Paese? In ogni caso, l’attuazione delle riforme avrebbe contribuito sia all’efficienza del Piano, grazie alo snellimento delle procedure di spesa, sia alla efficacia, come complemento indispensabile alla tenuta nel tempo degli investimenti, non solo quelli strettamente legati al Piano, ma anche di quelli che sarebbero stati innescati nel futuro come effetto virtuoso del Piano stesso.
Sinceramente, nei dibattiti e nei documenti che accompagnano lo sviluppo del Piano, io ho perso traccia dell’attuazione delle riforme, sicuramente a livello strutturale. D’altra parte non me ne stupisco più di tanto. A dicembre del 2020, quindi al debutto del PNRR, su questa stessa rivista scrissi un articolo, su cui tornerò più avanti, in cui sostenevo la tesi che, trattandosi di riforme di “sistema”, non nuove alla discussione politica del nostro Paese, ma anzi ciclicamente ricorrenti nei decenni, sarebbe stato sorprendente se fossero state adottate in via contestuale, se non proprio preventiva, al Piano, cioè in tempi così ristretti.
Giusto per memoria: Giustizia e riforma della PA.
L’importanza della seconda è facilmente intuibile: una PA efficiente avrebbe contribuito in maniera decisiva allo sviluppo e conclusione rapida del Piano. Non vale la pena di parlarne più di tanto se non per dire che fino al momento in cui non si avrà il coraggio di mettere in discussione il Titolo V della Costituzione, e riportare in seno allo Stato alcune competenze centrifugate alle Regioni (con magari, perché no, anche qualche recupero da parte delle Province), la possibilità di avere una PA snella ed efficiente è una chimera ed è pura ipocrisia il solo parlarne. La burocrazia, per sua stessa definizione, non è mai stata in Italia amica del cittadino, del lavoratore, delle imprese e delle famiglie. L’intrico dei regolamenti a tutela di sé stessa e non dell’utente è sempre stato un baluardo contro la snellezza dei servizi pubblici, ma la riforma del 2001 ha peggiorato e di molto una situazione che è andata a solo vantaggio delle logiche di distribuzione del potere politico di ogni colore. È quindi illusorio immaginare che questo totem venga smantellato in nome del PNRR, al massimo, come è stato, potranno esserci delle scorciatoie legate transitoriamente alla sua attuazione. Cito da Italia Domani, il sito ufficiale del PNRR, in ordine alla riforma della PA: “sviluppare le capacità amministrative a livello centrale e locale con il rafforzamento dei processi di relazione, formazione, mobilità dei dipendenti pubblici, lo snellimento della burocrazia, la digitalizzazione delle procedure amministrative”. Ho cercato invano, anche nel resto del documento, le parole “motivazione” e “tutela del contribuente”.
La questione della Giustizia richiede qualche parola in più. Chi ha seguito nei mesi di formazione del Piano le discussioni sulla necessità di una connessione tra giustizia e PNRR, si ricorderà che la relativa riforma aveva alla base ragioni molto pragmatiche. La necessità della riforma non era dettata tanto da esigenze legate allo sviluppo civile della Società, obiettivo peraltro meritevole. La riforma della Giustizia, nella prospettiva PNRR, riguardava la certezza della durata dei procedimenti, sia di natura civile che penale che amministrativa. Tale esigenza, assolutamente legittima dal mio punto di vista, riguarda in altre parole l’attrattività che il nostro Paese esercita nei confronti degli investimenti, sia interni che esterni, sia quelli strettamente connessi al Piano sia, soprattutto, quelli futuri. L’accumulo dei procedimenti giudiziari, la loro eternità e incertezza, insieme alla spaventosa ragnatela delle norme autorizzative ed attuative, costituiscono un deterrente quasi invalicabile nei confronti di chi vorrebbe investire nel nostro Paese. L’unico vagito, certamente nella direzione giusta, ma debole e del tutto insufficiente rispetto al complesso delle problematiche del comparto della Giustizia, è stata la Riforma Cartabia che, se non altro, conteneva i requisiti minimi posti dalla UE per poter essere considerata compatibile ai fini dell’ammissibilità del PNRR.
Quello in cui non eccelle l’Italia, cioè la sostanza, poi lo recupera nella forma, esercizio in cui anche l’Europa, ad onor del vero, non scherza, sarà colpa del Civil Law? Sta di fatto che, da tre o quattro che le riforme avrebbero dovuto essere per rendere fertile il terreno del PNRR, purchè di peso, alla fine, nella creatività di chi ci amministra, sono diventate 66. Nella mania di voler spaccare il capello in quattro e di voler regolamentare anche il modo in cui si starnutisce, la struttura del quadro di riforme è così costituita: riforme orizzontali, numero 2 (Giustizia e PA di cui si è parlato); riforme abilitanti, numero 14, che sono quelle che dovrebbero garantire l’attuazione del Piano e a migliorare la competitività; riforme di settore, numero 50, che accompagnano le singole Missioni e sono in effetti innovazioni normative, che quindi vanno a sommarsi al già affollatissimo armadio delle norme e regolamenti italiani, così particolareggiate, le riforme di settore, che finiscono col confondersi con gli obiettivi delle missioni.
Esaurito il giro d’orizzonte sul tema preliminare delle riforme, che era comunque doveroso per avere un quadro della genesi del PNRR e che aiuterà a mettere meglio a fuoco la discriminante tra efficacia ed efficienza, siamo ora in grado di entrare nel terreno di quest’ultima, ovvero l’avanzamento del Piano.
Mi baserò a questo scopo su due documenti recenti. Il primo è un rapporto di Assonime del febbraio di quest’anno e il secondo è un analogo documento prodotto nello stesso periodo da Confindustria.
La sintesi dei contenuti di questi documenti è che obiettivamente ci sono dei ritardi nell’attuazione del Piano rispetto ai target programmati per i singoli anni e che dovrebbero garantire il completamento della spesa di tutte le risorse entro il 2026. Più analiticamente, c’è un avanzamento maggiore in termini di “tiraggio” delle risorse (frutto dell’azione di convincimento del Governo nei confronti della UE, con la dimostrazione del raggiungimento delle “condizioni”, Milestone e Target) e un intoppo con effetto domino nello smaltimento delle risorse. È come se in un ufficio postale il giorno dei pagamenti delle pensioni, l’usciere all’ingresso facesse entrare mano mano più persone di quante ne siano in grado di evadere gli sportelli.
Ricordo che, trattandosi di soldi pubblici, la strada per spenderli non può che seguire un sistema, quello descritto dal Codice dei Contratti, nelle sue ultime declinazioni (Dgls 209 del 2024), con qualche piccola scorciatoia dedicata al PNRR (Dl n. 121 del 10 settembre 2021, Dl n.152 del 6 novembre 2021, Dl n. 36 del 30 aprile 2022), ma la sostanza resta quella: si stanziano le risorse necessarie allo scopo, si predispongono dei progetti ad hoc, li si approva (impegno di spesa), si trova chi è in grado di realizzarli (aggiudicazione e contrattualizzazione) e li si realizza pagandoli generalmente a Stati di Avanzamento (spesa) ed infine li si collauda e la partita viene dichiarata conclusa. Funziona così sia per le opere fisiche che per i servizi, più o meno dagli acquedotti romani se non dalle Piramidi, con qualche variazione (abolizione della schiavitù), ma corruzione compresa.
Al netto della multiformità delle 7 missioni in cui si articola il PNRR, e considerato il fatto che nessuna di esse mostra, ad oggi, i segni più o pari rispetto agli obiettivi prefissati, non c’è omogeneità nel ritardo, ma una differenziazione tra missione missione, che dovrebbe indurre qualche riflessione anche nel capitolo efficacia, che poi spinge in basso il baricentro di tutta l’operazione. Le missioni che marcano il ritardo più vistoso, soprattutto nelle fasi pre-esecuzione, ovvero progettazione e aggiudicazione, sono la Misura 2 – Rivoluzione verde e transizione ecologica e Misura 5 – Inclusione e coesione. Forse, trattandosi di argomenti relativamente recenti rispetto alle tipologie di investimento tradizionali e non del tutto consolidati nella prassi progettuale come in quella strategica, vi si possono ravvisare da un lato incertezze in fase di elaborazione e dall’altro disallineamenti nei criteri di valutazione e selezione.
Qualche numero, il più sintetico possibile perché è veramente complicato orientarsi nella massa, ma soprattutto nell’articolazione sia verticale che orizzontale, dei dati da prendere in considerazione: a fronte di 194,4 mld di Euro messi a disposizione del Recovery Fund, al 13 dicembre 2024 sono stati trasferiti in Italia, in sei rate, 122 mld, il 63% del totale. Di tale somma, sempre alla stessa data, sono stati spesi, cioè liquidati al soggetto attuatore, 58,6 mld, cioè il 30% del totale assegnato al nostro Paese e il 48% di quanto “tirato” fino a oggi dalla UE. Il che vuol dire che ci sono 63,4 mld di Euro che surfano in quella zona grigia, che differenzia la competenza dalla cassa, e che va dalla progettazione al residuo degli SAL per arrivare allo stato finale a saldo e dove si annidano, a mio modesto avviso, le trappole più insidiose del processo, a partire dalle verifiche preventive sui progetti, al rilascio delle autorizzazioni per finire ai rischi di default nel corso dei lavori e dei relativi SAL. In definitiva, dall’incrocio dei dati esposti da Italia Domani, emerge che circa il 78% dei progetti in fase di attuazione è, in misura maggiore o minore, in ritardo. Considerando inoltre che l’insieme di tali progetti in fase di attuazione rappresenta il 55,7% del totale complessivo dei progetti costituenti tutto il PNRR, significa che a dicembre 2024, a 4 anni dal suo avvio e a due dalla sua conclusione, solo il 12,2% dei progetti di tutto il Piano è in fase di pagamento, il che, tra l’altro, non significa che tutti i progetti in fase di pagamento siano stati completati e collaudati, perché buona parte dei pagamenti sono degli SAL.
Occorre anche dire che i dati sulla spesa scontano un effetto eco dovuto a un ritardo sulla rendicontazione precisa, che può essere valutato nell’ordine di un mese, ma che non incide sulla sostanza delle cose più di tanto.
Per cercare di colmare tale gap, il Governo a dicembre 2024 ha introdotto delle misure atte a consentire il trasferimento fino al 90% delle risorse dalle amministrazioni ai soggetti attuatori entro 30 giorni, concentrando le verifiche di conformità nella fase finale antecedente il saldo. Vedremo se ci saranno effetti significativi.
I dati riportati da Assonime e da Confindustria sostanzialmente coincidono, d’altra parte sono tratti sempre dal portale Italia Domani.
Se visti in valore assoluto questi dati certamente appaiono preoccupanti, di converso vengono da fare due considerazioni che mitigano in certa misura il pessimismo che suscita la loro lettura, beninteso, sempre sotto il punto di vista dell’efficienza.
La prima considerazione è del tutto personale, quasi scaramantica e non suffragata da alcuna base metodologica: in più di un’occasione di fronte a sfide importanti, l’Italia ha dimostrato di essere in grado di esibirsi in scatti di reni ribaltando le previsioni più pessimistiche. Sono convinto che anche in questa circostanza, magari sul filo di lana e facendo i salti mortali, il nostro Paese sarà in grado di portare a termine tutti gli obiettivi. La seconda considerazione, corroborata viceversa dai numeri, così come evidenziato da Confindustria, è che se l’Italia piange sull’avanzamento del Piano, il resto dell’Europa, nessuno escluso, non ride, anzi. Incredibilmente L’Italia è tra i paesi più virtuosi nell’attuazione del Piano: il 43% dei di Milestone e Target sono stati raggiunti rispetto al 28% di media del resto dell’Europa e il 63% delle risorse è stato trasferito dall’Europa all’Italia rispetto al 48% della media europea. Giustamente Confindustria fa anche notare che, in vista del traguardo finale i paesi che hanno da smaltire risorse molto più contenute dall’Italia potrebbero avere meno problemi di noi a portare a compimento il 100% degli obiettivi.
Tale confronto, a mio avviso e per spezzare una lancia a favore del nostro Paese, forse evidenzia che anche la UE, all’atto della definizione del Recovery Fund, ha peccato di fretta, soprattutto ponendo termini troppo ristretti per il completamento dello stesso, il che, oltre a causare i ritardi generalizzati su tutto il territorio dell’Unione, ha costretto l’Italia, pur di non perdere l’ammontare delle risorse resesi disponibili, ad infarcire il PNRR di progetti la cui memoria non impatterà certamente sulle future generazioni.
E qui, al di là dell’avanzamento emergente da questi numeri stringati che parlano dell’efficienza, entriamo a piedi pari nell’area dell’efficacia, con un dato che, perlomeno a me, mette veramente i brividi: al PNRR italiano sono registrati ad oggi 270.000 progetti, per l’esattezza 269.262.
Tradotto in altri termini, significa una media di 0,720 milioni di Euro a progetto, spalmati sul montante complessivo dei finanziamenti PNRR, dato che si abbassa ulteriormente se si considera il valore effettivo della sommatoria dei progetti, pari a 162 miliardi di Euro, arrivando a 0,600 milioni di Euro a progetto. Ovviamente è una media, il che significa che, accanto a progetti di grandi dimensioni, sono stati ammessi come finanziabili dal Piano che dovrebbe garantire stabilità e competitività al Paese per le future generazioni, anche progetti di valore inferiore al mezzo milione di Euro. Qualcosa comincia a scricchiolare.
Torniamo a Madrid. La risposta completa di mia figlia alla domanda, qual è la cosa che più ti ha colpito di quella città, fu: qui non ci sono motorini, se ne vede solo uno ogni tanto. Non solo, anche il traffico delle macchine è bassissimo, giusto il sabato sera non si cammina, le strade sono intasate da macchine che vanno a passo d’uomo, è la movida. D’accordo, ma te come ti muovi? La città è grande: io vivo in centro con altre studentesse, la mia università dista 20 chilometri da qui, in mezz’ora la metropolitana mi ci porta e mi riporta a casa, tutti qui si muovono in metro.
Questa conversazione si svolgeva (ahimè) 22 anni fa. La Spagna era uscita nel 1975 dalla dittatura di Franco, poverissima. Negli anni ’60 le donne di paese andavano a fare le domestiche nelle famiglie borghesi di Parigi, mentre l’Italia era in pieno boom economico. La Spagna non aveva neanche goduto del Piano Marshall nel dopoguerra, in quanto era stata neutrale. La Spagna entra a far parte della UE il 1* gennaio del 1986, insieme al Portogallo, anch’esso uscito con la Rivoluzione dei Fiori dalla dittatura di Salazar, dando vita all’Europa dei 12. In meno di 25 anni la Spagna si è completamente rifatta il volto ed è diventata competitiva a livello internazionale su alcuni settori strategici in cui l’Italia dovrebbe essere leader, al punto che qualche anno fa il più importante gruppo spagnolo nel settore delle infrastrutture di trasporto si è fatto avanti per venire a gestire in concessione la rete autostradale italiana. Non solo, per restare in un settore a me vicino professionalmente, tra le grandi multinazionali dell’alberghiero che ormai hanno fatto shopping della stragrande maggioranza degli alberghi italiani più prestigiosi, ne figurano due spagnole, NH e Melià che navigano all’interno delle prime 30 del mondo con un totale di circa 760 alberghi per decine di migliaia di stanze, quando i maggiori gruppi alberghieri italiani vantano al massimo qualche decina di unità ricettive. Secondo una classifica aggiornata al 2025 la Spagna è al secondo posto per presenze di turisti nel mondo, con 85 milioni di presenze, preceduta dalla Francia con 100 milioni e seguita dall’Italia con 57 milioni. La Spagna ha i due club calcistici più ricchi e competitivi del mondo, con tutto quello che ne consegue in termini di sponsorizzazioni, diritti televisivi, infrastrutture di base, eccetera. Il PIL della Spagna cresce a un tasso del 3,2 per il 2024 e quello dell’Italia si arrabatta attorno agli zerovirgola da anni. E mi fermo qui.
Com’è possibile tutto ciò per un paese che ha avviato la sua crescita sociale ed economica con 25 anni di ritardo rispetto all’Italia?
Forse perchè aveva già impostato il proprio Next Generation ben prima di venti anni fa.
Inoltre, lo ha fatto con unico focus: conseguire l’efficacia degli investimenti in conto capitale garantiti dai fondi strutturali. Ovviamente l’efficacia è stata raggiunta attraverso l’efficienza degli apparati statali unita ad una stretta cooperazione con le comunidad locali, una grande capacità progettuale unitaria che non ha disperso le risorse disponibili, ma si è concentrata su pochi e grandi obiettivi strategici, sfruttando il potere moltiplicativo degli investimenti, creando le piattaforme necessarie allo sviluppo imprenditoriale e la competitività delle nuove generazioni.
Esattamente quello che l’Italia non ha fatto con i Fondi Strutturali ad essa destinati nei decenni passati e che sembra testardamente continuare a non voler capire e fare con il PNRR.
I motorini di Madrid, che non c’erano già 22 anni fa, sono un marcatore sociale che evidenziava ed evidenzia tuttora il percorso di un paese che da tempo aveva fatto le sue scelte strategiche e le portava avanti con decisione e sacrifici, rispetto a un paese che vive alla giornata, in cui la gente è costretta, con una o due eccezioni di città, a dover rischiare la vita quotidianamente per strada e con ogni tempo perché a monte si è scelto di previlegiare la spesa corrente rispetto agli investimenti, lasciando le città senza infrastrutture pubbliche di trasporto, solo per dirne una, anche se il cahiers de doléances è bello lungo.
En passant, visto che la Spagna è il paese più vicino all’Italia in termini di dimensioni della versione nazionale del NGEU (162 miliardi di Euro), vediamo qualche dato di fondo tratto direttamente dal sito governativo spagnolo dedicato al PRTR, Plan de Recuperacion, Transformacion y Resiliencia. Inizialmente il Piano prevedeva meno della metà dell’ammontare attuale dei finanziamenti e solamente sotto forma di grants.
Dopo l’approvazione della prima stesura del Piano, nel 2022, visto il buon andamento dell’assorbimento, il Governo spagnolo ha chiesto ed ottenuto una ulteriore porzione di finanziamenti, anche sotto forma di prestiti, che ha più che raddoppiato la dotazione iniziale, per arrivare all’attuale somma totale, mentre l’Italia, per carenza di progetti “elegibili”, ha dovuto chiedere un taglio di 18 miliardi rispetto a quanto avrebbe potuto ottenere. Per quanto concerne l’attuale stato di avanzamento, le percentuali non sono molto dissimili da quelle italiane, se non per un dato: il lasso di tempo che separa l’impegno di spesa dalla liquidazione è sensibilmente più corto per la Spagna. Ma il dato che più mi ha impressionato, ed in linea con i ragionamenti che ho fatto prima, è quello relativo al montante dei progetti. I progetti registrati sono 35.262. Questo vuol dire che la media del valore di ogni singolo progetto è pari a 4,6 milioni, 6,6 volte di più rispetto alla media italiana. Tutto torna.
Torniamo in Italia e ai rapporti di Assonime e Confindustria che affrontano il tema dell’efficacia col parametro dell’impatto macroeconomico del PNRR sul PIL. Forse non siamo ancora in grado di misurare l’effetto sulle Next Generations, ma indubbiamente l’effetto sul PIL è un indicatore di efficacia, anche se a breve termine. I dati base vengono forniti dall’UPB (Ufficio Parlamentare di Bilancio) e sono riportati dal Governo nel PSB (Piano Strutturale di Bilancio) di fine settembre 2024. Nel DEF di aprile era previsto un impatto “aggiuntivo” del PNRR sul PIL 2024 di 0,9 punti. All’atto dell’aggiornamento di fine anno tale dato è crollato allo 0,1, praticamente effetto nullo. Revisioni al ribasso, anche se non di tale entità, si erano registrate nei due anni precedenti. Il Governo sostiene che l’effetto cumulato finale (quindi al 2026) sarà comunque mantenuto ed è stimato del 3,7 per cento, con una crescita per il solo 2026 dell’1,8, il che presuppone, ottimisticamente, un netto cambio di passo sia nell’efficienza sia nell’efficacia in questi prossimi 24 mesi.
Ragionando per assurdo, come si fa in matematica, immaginiamo per un istante che non ci sia stato il COVID e di conseguenza neanche il PNRR. La crescita annua sarebbe stata più o meno in linea con gli anni precedenti, e quindi dello 0,5. Se così fosse, il risultato per il 2026, al lordo del COVID e del PNRR, dovrebbe superare di poco il 2 per cento, ma gli analisti nazionali ed internazionali stimano per l’Italia una crescita nel 2026 dell’1 per cento. In definitiva, la fiducia dell’efficacia sulla crescita del nostro Paese grazie al PNRR è praticamente pari a 0. Ma, sempre ragionando per assurdo, cosa significa, che se non ci fosse stato il PNRR il Paese nel 2026 sarebbe in recessione?
Io sono piuttosto dell’idea che l’Italia avrebbe mantenuto il suo galleggiamento al di sotto dell’1 per cento, ma sopra lo 0, e che il PNRR, così come è stato per buona parte dei fondi strutturali degli ultimi 30 anni, sia da considerare un episodio transitorio, utile sì, ma i cui effetti, nella gran parte, svaniranno come rivoletti in un paesaggio carsico, senza lasciare traccia del proprio passaggio, salvo alcune infrastrutture di trasporto.
A cascata delle previsioni di impatto sul PIL, un altro indicatore di efficacia del PNRR è costituito dal rapporto debito/PIL. La BCE fornisce delle indicazioni in tal senso abbastanza incoraggianti: l’attuazione completa del PNRR porterebbe ad una riduzione di 7/8 punti nel rapporto. Non una rivoluzione, ma pur sempre un miglioramento. Il problema è che se non ci fossero stai i ritardi illustrati in precedenza, il miglioramento del rapporto sarebbe stato 12/14 punti, valore decisamente osservabile anche ad occhio nudo.
D’altra parte, considerando il combinato disposto di scarsa efficacia nei risultati della riforma della Giustizia e della PA, del numero e della dimensione dei progetti e del numero e delle dimensioni di gran parte delle amministrazioni aggiudicatrici, non è che se ci si possa stupire più di tanto.
Quello che sinceramente trovo sconfortante è che, anche in presenza di una circostanza unica e irripetibile (si spera, ovviamente), il Paese, invece di cogliere l’incredibile opportunità che gli è stata posta, (a meno naturalmente di improbabili sorprese nei prossimi 20 mesi) abbia una volta di più offerto il fianco ai soliti clichè critici, anche stranieri, che accompagnano da decenni l’operato delle nostre amministrazioni, centrali e periferiche, in termini di spesa pubblica.
Alla base manca innanzitutto la sensazione di un progetto unitario, di una strategia, che indichi una rotta di dove si voglia portare l’Italia da qui ai prossimi 25-30 anni (l’arco di una generazione).
In tutti i documenti che ho esaminato, sia quelli ufficiali, dello Stato, sia quelli degli stakeholders, non sono riuscito a trovare per esempio traccia di una valutazione sul peso e sulla conseguente attribuzione dei grants rispetto ai loans. Detto in altre parole, mi aspettavo di poter capire se le sovvenzioni fossero state attribuite, come sarebbe logico, a quegli interventi indispensabili al territorio, ma incapaci di generare redditi e viceversa se i prestiti fossero stati distribuiti a quegli interventi che, capaci di attivare un flusso di cassa, fossero stati in grado di ripagare il debito contratto. Sulla scia di questo, non ho trovato inoltre traccia di una valutazione sul potere moltiplicativo degli investimenti ammessi a finanziamento, sia in termini di generare risorse indotte, sia di costituire una piattaforma in grado di proiettare nel medio lungo termine l’attrattività del Paese verso investitori e verso risorse umane ad alto valore aggiunto, invertendo la tendenza all’espatrio dei nostri giovani più dotati.
Nei miei 17 anni di militanza in ANCE (Associazione Nazionale dei Costruttori Edili, tradizionalmente dotata di uno dei migliori centri studi del Paese), uno dei fari guida nella promozione degli investimenti in edilizia era il moltiplicatore degli investimenti di settore, pari al 2,5: ogni miliardo (allora di lire) investito in edilizia “induceva” ulteriori 1,5 miliardi di valore in termini di componentistica, arredi, impianti, ecc, e lo stesso, ovviamente, provocava in termini di occupazione, con l’effetto collaterale e non trascurabile, di avere fatto fiorire una straordinaria stagione di pace sindacale tra lavoratori e datori, che si concretizzò con la promozione bilaterale e paritetica dei famosi Enti Scuola ed Enti Cassa negli anni ’80 e ‘90.
Il decennio successivo lo passai in Mediocredito Centrale, in particolare in Europrogetti & Finanza, e anche lì il verbo, esteso ad altri settori oltre l’edilizia, era la creazione di valore aggiunto in nome della crescita non solo economica, ma anche sociale, e sia in termini diretti che indiretti, attraverso una politica strategica delle risorse finanziarie messa a disposizione in modo complementare e collaborante dai privati, dallo Stato e dalla UE. Cosa è rimasto di questo approccio e di questa visione illuminata ed “elicotteristica” dello sviluppo del territorio?
Ai tempi si è tanto strombazzato a destra e a sinistra che mai e poi mai col PNRR si sarebbe ripetuto lo scandalo dei finanziamenti “a pioggia”, ma cos’altro può venire fuori aprendo i recinti a 270.000 tra progetti e progettini?
Nel dicembre 2020 in un articolo intitolato “sostituzione edilizia e recovery fund” avevo auspicato che il PNRR, allora agli esordi, si concentrasse su quattro grandi assi: digitalizzazione del territorio, infrastrutture, dissesto idrogeologico/tutela del territorio e sostituzione edilizia. Altri temi, tipo la rivoluzione verde, l’istruzione e ricerca e l’inclusione e coesione, che nel PNRR sono missioni a sé stanti, a mio avviso avrebbero dovuto essere componenti trasversali e passanti, nella qualità di elementi imprescindibili e comuni a tutti e quattro i grandi assi. Trattarli come obiettivi autonomi, come poi è stato, significa privarli di contenuti concreti e mantenerli a livello di bandiera, mettendo a serio rischio la loro possibilità di entrare a far parte del “patrimonio genetico e culturale” di tutti i campi applicativi della vita civile ed economica italiana, come invece è necessario che sia, anche per le future generazioni.
Il tema delle città, che in tutto il mondo è oggetto da anni di una grande attenzione, in quanto stime ormai consolidate danno per il 2050 l’80% della popolazione della Terra concentrato nei grandi agglomerati urbani, viene relegato nel PNRR in una sottocategoria della Missione inclusione e coesione, con pochissime risorse e racchiusa nella definizione Rigenerazione Urbana. Il tema si basa su di un impianto legislativo di recente costituzione e che nei fatti riguarda solo marginali interventi di natura edilizia, laddove le future generazioni si troveranno ad affrontare gravissimi problemi di degrado del patrimonio edilizio, di urbanistica inadeguata, di mobilità urbana e di emarginazione sociale. Di converso a tutto ciò, lo spopolamento delle aree interne continuerà imperterrito, nonostante che lo stesso PNRR faccia della rivitalizzazione dei borghi una delle proprie bandiere. Ma qualcuno ha la faccia di ammettere l’ipocrisia di una tale idea che è destinata a previlegiare solo i componenti di alcune fasce di reddito e magari qualche straniero del Nord Europa desideroso di passare la vecchiaia nel Bel Paese? Alla possibilità che campagne, colline e montagne si ripopolino solo perché alcuni Comuni vendono a 1 Euro le case abbandonate, a parte il fatto che poi queste case debbono essere restaurate e dotate di servizi, fa riscontro la totale assenza di condizioni di vita, di studio, di lavoro, di mobilità e di sanità, insomma dei servizi alla Società, anche per le future generazioni, che siano veramente competitive con quelle, ancorchè non ancora sufficienti, offerte dagli agglomerati urbani.
Un altro argomento che sollevavo nell’articolo del 2020, sperando che entrasse a far parte del PNRR con pari dignità nella quaterna dei grandi progetti strategici che immaginavo, era quello della messa in sicurezza del territorio cioè, detto in modo meno annacquato, il problema del dissesto idrogeologico.
A giugno del 1998 tornavo in macchina dalla Basilicata, regione che, insieme all’Abruzzo, seguivo con Europrogetti & Finanza nell’assorbimento dei fondi strutturali, (per inciso, per andare a Potenza in macchina da Roma ci vogliono circa 3/3,5 ore, in autobus circa 5, a seconda delle fermate e in treno 11, se non ci sono intoppi e per la gioia delle solite autolinee private che monopolizzano il sistema pubblico di trasporto da Napoli in giù). Sulla bretella di raccordo della A1 che portava a Caserta mi si parò di fronte, a circa 6 o 7 chilometri di distanza, uno spettacolo che lì per lì faticai a decifrare: un paese inerpicato su una alta collina, come ce ne sono centinaia lungo l’Appennino dai Colli Euganei a Villa San Giovanni, attraversato in senso verticale da quella che sembrava una pista da sci, solo che non era bianca, ma marrone, che partiva da molto a monte rispetto al paese e finiva serpeggiando a fondovalle. Erano circa le 18,00 e la scena era resa ancora più inquietante e biblica dalla cometa di Hale – Bopp che in quei giorni si stagliava chiarissima in cielo anche in pieno giorno e sovrastava la collina del paese. Il paese era Sarno, la valanga di fango che lo aveva spaccato in due la notte del 6 maggio di quell’anno, circa un mese prima del mio passaggio, aveva provocato 161 vittime. L’allora sindaco fu condannato a 5 anni per atteggiamento passivo di fronte alla manifesta probabilità del disastro imminente, a causa delle abbondantissime piogge dei giorni precedenti. Nella mia vita privata e lavorativa non fu l’unica volta in cui, per un motivo o per un altro, mi sono trovato nelle prossimità di un evento catastrofico. Il 19 luglio 1985 ero in Val di Fiemme quando ci fu il disastro della Val di Stava, 268 vittime. La dinamica fu quasi identica a quella di Sarno, anche se in questo caso la responsabilità era molto più sfacciatamente umana, perché esondarono a monte delle dighe di decantazione di una miniera, ma il disastro fu innescato anche in quel caso dalle abbondantissime piogge. Il terzo episodio furono le due esondazioni a Genova del fiume Bisagno, nel 2011 e nel 2014. Non tutti sanno che, a Genova, città che amo e in cui ho lavorato molto, quasi tutti i fiumi, sarebbe meglio chiamarli torrenti, che dalla montagna che incombe sulla città irrompono a valle verso il mare, sono tombati, cioè coperti da un coperchio che in molti casi sono le strade, come il Bisagno, che nel suo ultimo tratto scorre sotto viale delle Brigate Partigiane, che porta dritto dritto verso il mare di piazzale Kennedy, accanto alla Fiera. E fin qui tutto ok. Senonchè da circa una ventina d’anni la frequenza e la violenza delle manifestazioni metereologiche è aumentata sotto gli occhi di tutti. La sezione dei canali di cemento sotterranei in cui scorrono questi corsi d’acqua fu a suo tempo calcolata in base al volume d’acqua che si era standardizzato nel corso degli anni. Aumentano negli anni il volume d’acqua e la sua violenza con cui si precipita verso il mare a causa dei nuovi fenomeni atmosferici, i tombini di ispezione di cemento, pesanti quintali, saltano come tappi di champagne, l’acqua irrompe nelle strette strade di Genova, le macchine vengono trascinate via, le case si allagano e la gente muore.
Ho fatto solo tre esempi di episodi a cui ho personalmente assistito, ma si potrebbero riempire volumi di situazioni analoghe o anche peggiori che non hanno risparmiato nessun centimetro quadrato del nostro territorio. Tanto per ricordare solo i fatti più recenti e luttuosi: Casteldaccia, vicino Palermo, 9 morti nel 2023, Ischia, frana a novembre 2022, 12 morti, 12 feriti e 462 sfollati. Per non parlare delle alluvioni in Emilia Romagna del 2023 e 2024. Si badi bene, non sto parlando di eventi sismici o vulcanici. Si sa che l’Italia è un paese fortemente a rischio sotto quei punti di vista e da millenni ci si convive, più o meno. Si sa anche che l’Italia è un territorio difficilissimo rispetto alla fragilità geologica, soprattutto se in balìa di minacce metereologiche fuori standard. Ma nel caso delle piogge, rispetto a quanto si può fare nei confronti dei terremoti, delle azioni si possono adottare: a) un certo grado di prevedibilità lo si è raggiunto, b) i disastri sono per la stragrande maggioranza effetto di scelte sbagliate da parte dell’uomo, c) con adeguate contromisure e con adeguata prevenzione i rischi possono essere mitigati in maniera molto consistente, rispetto ai danni provocati da un terremoto, anche in un’era di cambiamenti climatici.
Tanto per citare solo un paio delle responsabilità attribuibili all’uomo che hanno amplificato i rischi derivanti da eventi atmosferici: gli alvei dei fiumi sono in gran parte stati cementificati per poter ottimizzare il prelievo idrico da parte di attività produttive, con la conseguenza che, diventati piste da bob, in caso di aumento abnorme della massa d’acqua che si riversa a valle, questa non viene frenata dalle irregolarità delle sponde naturali e dalla vegetazione, con l’ulteriore conseguenza che tutte le sostanze naturali in sospensione nell’acqua non vengono assorbite nel letto o nelle sponde, ma si sversano in mare. Inoltre, per questioni di opportunità economiche e logistiche, la stragrande maggioranza delle attività produttive è stata insediata nei fondovalle se non addirittura in aree golenali, facendo grazia di quelle residenziali ugualmente ivi localizzate.
Ci vorrebbe un volume solo per trattare questo argomento. Mi limiterò a due o tre considerazioni: ma ci vuole molto a capire che gli interventi di ripristino ex post dei danni di questi interventi ciclici costano enormemente di più che non lo sforzo di una buona pianificazione a monte degli insediamenti, e inoltre che questo è uno degli argomenti cardine che avrebbero dovuto caratterizzare il nostro PNRR e, per finire, che il non avergli dato la giusta importanza, si ammasserà sulle spalle dei nostri figli e nipoti? Altro che Next Generation EU. Inutile dire che, anche in questo caso, pesa moltissimo la polverizzazione delle competenze che, puntualmente, si traducono in rimpallo di responsabilità, a danni fatti, tra Stato, Regioni, Comuni, Protezione Civile e Autorità di Bacino.
Bene, come si traduce tutto ciò nel PNRR? Ho cercato e ricercato, ho letto i documenti in controluce sperando che qualcosa fosse stato scritto con l’inchiostro simpatico, poi alla fine mi sono dovuto arrendere. Lancio un appello, qualcuno mi dica che mi sono sbagliato, che non ho saputo leggere i dati: alla tutela del territorio e della risorsa idrica sono destinati 15,06 miliardi di Euro, il 7,7 per cento di tutto il Piano. Anzi no, il Piano attuale di 194,4 miliardi è frutto di una revisione che lo ha incrementato di 2,92 miliardi, ma la tutela del territorio è stata invece ridimensionata di 5,19 miliardi, attestandosi a 9,87 miliardi complessivi, il 5 per cento di tutto il Piano. Ogni commento è superfluo.
Last but not least, la sanità. Lo slogan corrente sembra essere, anche nel PNRR, quello che promuove la casa come primo/primario luogo di cura. Va benissimo, evviva, con tutto il lunghissimo rosario delle problematiche legate alla ricettività dei presidi sanitari per arrivare al tema dei cosiddetti caregivers. Nel formulare gli obiettivi della missione però qualcuno si è premurato di considerare il fatto che se la casa deve essere il primario luogo di cura, in particolare a livello pediatrico e a livello gerontologico, ci vuole un medico di famiglia che venga a casa, non si limiti a redigere le prescrizioni dei farmaci e che, in particolare, abbia una profonda esperienza generale e una capacità diagnostica non legata ad una estrema specializzazione? Le risorse per la salute sono l’8 per cento delle risorse complessive, che non sono enormi ma neanche da buttar via. Quello che può destare preoccupazione è il modo in cui verranno spese, ammesso di poterlo fare interamente. L’argomento è estremamente complesso e non basta certo un articolo per poterlo esaurire. Qualche battuta vale però la pena di farla. Di base, come mi ripeto spesso, il nostro sistema sanitario pubblico non solo funziona, ma bisogna tenercelo ben stretto, se confrontato con la situazione di altri paesi. Certo, ci sono molte disfunzioni, soprattutto se si analizzano le differenziazioni tra Nord, Centro e Sud, con quest’ultimo in forte deficit rispetto al resto dell’Italia, anche se esistono delle eccellenze di livello assoluto anche lì. Solo per citarne una, in provincia di Isernia c’è un polo neurologico di livello internazionale in cui l’efficienza amministrativa va di pari passo con quella scientifica. I problemi propri del comparto sanitario, come accennato in altra parte dello scritto, sono in gran misura riconducibili ai poteri attribuiti alle Regioni dalla riforma costituzionale del 2001. La riforma del sistema in realtà prese le mosse già nel 1992, con la Legge 502, opportunamente modificata nel 1993 dal Governo Ciampi, i cui effetti benefici furono poi vanificati, appunto, con l’avvento del Titolo V.
In conclusione rischiavo di dimenticarmi un altro aspetto del panorama offerto dal PNRR che mi aveva colpito: ho trovato una notevole assegnazione di risorse alla realizzazione di strutture per l’infanzia, leggi asili, ma non ho trovato un disegno di investimenti in grado di invertire il trend demografico negativo, attraverso misure che mitighino il tasso di povertà non tramite sovvenzioni a fondo perduto una tantum, ma attraverso una politica del lavoro tesa a recuperare il potere d’acquisto dei giovani e delle famiglie, senza la quale temo che le aule resteranno vuote..
Come si diceva una volta, del senno di poi sono piene le fosse, ed estendere le critiche al PNRR dal campo dell’efficienza (la capacità di spesa) a quello dell’efficacia (l’impatto effettivo del Piano sullo sviluppo del Paese), quando ormai le scelte sono state fatte 5 anni fa appare sicuramente un po’ come sparare sulla Croce Rossa: sterile, se non inopportuno, se non fosse che molte di queste considerazioni furono già fatte nel 2020. Ma, se non altro, le ragioni e gli argomenti sopra esposti potrebbero essere di riflessione per gli impegni di spesa che, in forma indubbiamente più contenuta e meno straordinaria rispetto al PNRR, aspettano il nostro Paese e i nostri governanti negli anni a venire, sia per ciò che concerne le poste del Bilancio nazionale sia per i futuri fondi UE. In altre parole, un po’ come parlare a nuora perché suocera intenda.
LP
Roma, 16 aprile 2025