Imposta come home page     Aggiungi ai preferiti

Rilke ed il diritto :  un antidoto al diritto come forza

di - 22 Aprile 2025
      Stampa Stampa      

Due poesie per cominciare

Mi tiene compagnia.

Mi ha sempre tenuto compagnia.

Per anni, non ho mai finito di conoscerlo.

Come un amico caro mi manda la sua voce di lontano.

Rainer Maria Rilke.

Il poeta a me più caro.

Era un viandante. Un uomo sensibile. Un osservatore.

Cerco di comprendere cosa pensasse della società e del diritto.

Perché?

Perché questo è quello che faccio per vivere, talvolta con passione, talvolta con disperazione: il giurista , il giudice, più che mai provvisoriamente dato lo stato del mondo.

E perché Rilke ha pensato e sentito il mondo come pochi.

Ha sentito il mondo in una poesia pensante, con un pensiero poetante che si fa concetto nel trovare la forma.[1]

Sempre viaggiando, cercando qualcosa di solido ma con la certezza della natura metamorfica dell’esperienza, fuggendo e scrivendo, riflettendo e ascoltando la propria voce interiore.

Ma sfugge l’argomento diretto, sembra che il diritto non gli interessi. Ed in effetti non lo interessa perché non sono gli interessi che lo attraggono ; non quello che ci preoccupa o ci fa sperare ma quello che ci fa vivere nella gioia.

Eppure mi dico : avrà sicuro qualcosa da dirci anche su questo.

Magari di nascosto. Nelle pieghe dei suoi versi.

So che il mio tentativo è arbitrario. Ma forse vale la pena di farlo lo stesso.

Il diritto è tre cose : è solitudine iniziale forse insuperabile forse radicale che cerca di oltrepassarsi, è la situazione paradossale della insocievole socievolezza dell’uomo (  oggi visibile anche nel rapporto con le macchine ), è relazione la relazione con l’Altro ed è istituzione, ossia società organizzata, tre dimensioni che Rilke ha esplorato nei suoi versi, senza parlarne mai direttamente come esperienza giuridica ma dicendo tante cose a partire dal dolore, dal suo lungo lamento sulla condizione umana e sul mondo.

Ed allora cominciamo dai versi che descrivono la condizione umana :

 

“ Noi siamo soli, soli di paura,

nell’altro è l’unico appoggio,

ogni parola sarà come un bosco

su questo nostro cammino.

La volontà è solo il vento

Che ci spinge, vortica ed incalza,

Noi stessi siamo la nostalgia in fiore.”

 

 

Quante cose in questi suoni. La solitudine umana come dato non discutibile, ma poi la comparsa dell’Altro e con questo dell’idea che l’Altro è “l’unico appoggio”.

Sarà che provo ormai una insofferenza verso il diritto come sapere autoreferenziale ma qui vedo in sintesi – nei versi del più grande poeta del Novecento –  espresso tutto ciò che del diritto in fondo si può dire.

Esso germina dalla paura e dalla solitudine dell’uomo, dalla violenza e dalla forza anche, e mai come oggi lo vediamo.

Ma esso si costruisce nel momento e solo nel momento in cui riusciamo a riconoscere l’Alterità. L’altro uomo come unico appoggio.

Robinson Crusoe – per tutti i giuristi – è il mito fondativo della società, il naufrago era solo poi inizia a non essere più un fuscello disperato quando compare il buon selvaggio, Venerdì e si instaura un dialogo.

Il diritto sta tutto in questo atto di riconoscimento della propria fragilità e della propria inconsistenza.

L’opposto della forza, l’opposto – forse – anche della Natura o al limite, rilkianamente ed heideggerianamente Natura che, rischiarata, nella radura rivela un ordine ( sempre provvisorio ) .

Il diritto è fatto di parole alla fine ma Rilke  ci avverte c’è un’insidia nella relazione ed essa sta nel mistero del linguaggio.

“Ogni parola sarà come un bosco”.

Il linguaggio : la società sta nel mistero del linguaggio.

Il linguaggio però è qualcosa in cui ci perdiamo: “… ogni parola è come un bosco”, una fitta inestricabile foresta, un insieme di essenze, un intreccio di foglie ed arbusti, un brulicare di vite, una pluralità di voci che non facilmente ci indicano la strada.

Incontrare un bosco significa incontrare una difficoltà nel cammino.

Ogni parola è insieme la salvezza e l’ostacolo.

La soluzione ed il mistero.

Ed “ogni parola”, non “la parola”, mai una sola parola. La parola è plurale ed è iterativa.

La parola è un suono che si ripete e si ripete e si ripete.

E non solo perché Dio una parola ha detto e due ne ho udite come nel salmista ( su cui B Spinelli, Una parola Dio ha detto due ne udite Bari  2009 ) ma perché ogni uomo dice una parola e più di una ed ogni parola è come un bosco nel quale ci possiamo perdere ma anche ritrovare, un bosco che sorge nel nostro cammino per interrompere  la via ma anche per dirci di continuare, nonostante tutto.

E qui entra la spinta vitale : la volontà è “solo il vento che ci spinge, vortica ed incalza”.

L’uomo in fondo è ridotto a nuda volontà, volontà di vivere, puro conatus ( come in Spinoza e in Nietzsche ).

Ma la sua grandezza – la grandezza dell’uomo – è essere “nostalgia in fiore”.

Nostalgia è sentimento ulissiaco tradizionale, desiderio di ritorno, di marcia verso la propria radice, ma la nostalgia di cui parla Rilke qui è nostalgia in fiore.

Cos’è la “nostalgia in fiore”?

E’ il nostro amore per la tradizione, è il nostro essere fedeli ad essa, è il nostro fiore che sorge dal passato e non contro il passato ; il fiorire non dimentico di ciò che è stato.

Il diritto è il filo di questa continuità che non ci fa soli, che ci mette in relazione, che ci connette attraverso il filo misterioso della parola, che ci fa essere un “noi” quando riconosciamo un passato comune e lo facciamo fiorire ( come fu nel sogno umanistico di Erasmo e non nella furia anche distruttrice di Lutero grande ma forse troppo implacabile critico delle nequizie della Chiesa ).

Rilke era tedesco ma che tedesco era?

Un tedesco che aveva paura del freddo, di tutto ciò che è freddo. Un solitario che aveva nostalgia della comunità; un viandante che si voleva fermare; un amante che disperava di poter amare secondo i canoni della società ma ovunque vedeva l’amore guidare le cose.

E leggiamo ancora sulla parola che troppo definisce e separa e in fondo raffredda:

 

“Io temo tanto la parola degli uomini.

Dicono tutto sempre così chiaro:

questo si chiama cane e quello casa,

e qui è l’inizio e là la fine.

 

E mi spaura il modo, lo schernire per gioco,

che sappian tutto ciò che fu e sarà;

non c’è montagna che gli meravigli;

le loro terre e giardini confinano con Dio.

 

Vorrei ammonirli, fermarli: state lontani.

A me piace sentire le cose cantare.

Voi le toccate : diventano rigide e mute.

Voi mi uccidete le cose.”

 

Qui al centro è la parola non il cammino dell’uomo.

La parola che definisce e plasma il mondo.

La parola del diritto che formalizza e astrae dalla vita e la regola.

La parola che sembra chiara ( ma non lo è mai è un “bosco” ) e lo è al prezzo di cedere vita.

L’uomo definisce attraverso il diritto il suo destino ( al di fuori di questo si consegna al caos ) , il diritto misura e pondera. Il diritto separa e devitalizza (“Voi mi uccidete le cose” la pretesa degli uomini di dire parole che definiscono con chiarezza il mondo uccide le cose). La parola ha il suo mistero che va rispettato e va risolto rispettando sempre ik senso del limite (  i versi “le loro terre e giardini confinano con Dio”… i versi “ vorrei ammonirli fermarli: state lontani/ a me piace sentire le cose cantare” sono evocativi di questa necessità di non sentirsi mai onnipotenti con le parole ).

 

 

 

 

Altri passi : il mondo, l’ Eros paziente dell’attesa, gli animali che amano e passano ed un ordine possibile che emerge dal fondo.

 

Rilke – come ho detto – non si è occupato direttamente del diritto, tanto meno in senso tecnico o giuridico. Quindi sto traslando arbitrariamente il senso giuridico riposto nei suoi versi. Tuttavia, il suo lavoro esplora profondamente i concetti di responsabilità, giustizia interiore, e ordine universale, che possono essere letti in modo simbolico come affini a temi giuridici.

Ad esempio, nelle Lettere a un giovane poeta, Rilke invita a vivere con autenticità e a seguire una propria legge interiore, un concetto che si potrebbe collegare alla riflessione sull’etica e sul senso profondo della giustizia.

La legge interiore è la precondizione per il funzionamento della vita del diritto.

Soccorre un passaggio dalle Lettere a un giovane poeta (Lettera dell’8 novembre 1904):

“Esiste una sola via: entrare in se stessi. Esplora la necessità che ti spinge a scrivere; verifica se essa affonda le radici nel più profondo del tuo cuore; chiediti: morirei, se mi fosse negato di scrivere?”

In questo brano, Rilke introduce un’idea di responsabilità personale e di necessità interiore che può essere accostata alla nozione giuridica di autonomia morale ( messa in discussione oggi nel tempo dell’intelligenza artificiale ).

Egli invita il poeta a interrogarsi sulla legittimità della propria azione, quasi come un giudice che verifica la “fonte del diritto” di una scelta esistenziale.

Il richiamo a un “tribunale interiore” si collega a una concezione del diritto che non è codificata, ma radicata nell’etica individuale e nell’autenticità. In un certo senso, Rilke traccia una linea tra il “dovere verso sé stessi” e il rispetto di un ordine più grande, universale, che richiama il concetto filosofico di legge naturale.

Inoltre, nelle sue poesie, emerge una tensione verso l’armonia e l’equilibrio, elementi che possono evocare l’idea di ordine, tipica del diritto.

L’ordine giuridico o è agganciato al cosmo o non è sembra dirci Rilke.

Ancora : un passaggio della Prima Elegia Duinese, dove Rilke affronta il senso del limite umano e il rapporto con un ordine più grande:

“Chi, se gridassi, mi udrebbe mai dalle schiere degli angeli? /E se uno di loro improvvisamente mi stringesse al cuore, soccomberei per la sua più forte esistenza.”

Qui Rilke riflette sul desiderio umano di essere compreso e di partecipare a un ordine superiore, ma anche sull’incapacità di sostenerlo pienamente. Questa tensione può essere letta come una metafora del diritto: l’uomo si trova di fronte a leggi cosmiche (rappresentate dagli angeli), che trascendono la comprensione e la capacità di adattamento umano.

 

Il “grido” dell’individuo è come una richiesta di giustizia o riconoscimento, che però rimane inascoltata da un ordine superiore troppo distante o incomprensibile. Qui si intravede un parallelismo con il concetto di diritto naturale o diritto universale, che regola tutto ma spesso si sottrae alla piena comprensione umana.

Qui si sente anche un’eco del dolore kafkiano verso la condizione umana sovrastata da forze che non domina .

La tensione tra l’individuo e l’universale invita a riflettere su quanto l’essere umano possa agire o reclamare all’interno di un sistema che lo trascende.

Un altro esempio si trova nell’Ottava Elegia Duinese, dove Rilke esplora il rapporto tra l’uomo e il mondo, sottolineando una tensione tra libertà e necessità:

“Con tutti i suoi occhi la creatura vede l’aperto. Solo i nostri occhi sono come rovesciati, e posti tutt’intorno a essa trappole, per afferrarne l’uscita.”

In questo passaggio, Rilke riflette sull’umana incapacità di accedere alla piena libertà (l’aperto), un luogo simbolico che richiama l’armonia e l’equilibrio universale. La condizione umana è descritta come limitata da strutture che “intrappolano” il movimento naturale, richiamando metaforicamente le leggi o le norme che regolano la convivenza sociale e i limiti imposti dalla giustizia umana e forse le stesse condizioni biologiche e limitazioni cognitive che conducono ad errori di valutazione.

La creatura, con la sua connessione diretta all’aperto, può rappresentare una condizione pre-giuridica, una libertà originaria che l’uomo ha perduto a causa delle sue stesse costruzioni, tra cui quelle legali e sociali. Questo dialogo tra libertà e limite può essere inteso come un’allegoria della tensione  il diritto naturale, che rappresenta l’idea di una giustizia ideale, non mediata ed il diritto positivo che impone regole ( l’animalità in Rilke è centrale per la comprensione dell’uomo egli evoca spesso le condizioni degli angeli e degli animali ).

Rilke sembra suggerire che l’essere umano, nel suo tentativo di creare ordine (giuridico morale), perda di vista una dimensione più alta, forse inaccessibile, che è però essenziale per la sua piena realizzazione; l’uomo non tocca la trascendenza degli angeli né la naturalità degli animali tutte condizioni di esistenza meno dolorose.

Il concetto di aperto riferito all’uomo, come non istintuale, non rinchiuso nel recinto della mera biologia, può divenire il simbolo di una libertà ideale e illimitata, può essere letto come l’aspirazione ai diritti fondamentali, che dovrebbero garantire all’individuo una condizione di dignità universale.

Tuttavia, il “rovesciamento” degli occhi umani e le “trappole” intorno alla creatura richiamano i vincoli creati dalle istituzioni e dalle norme giuridiche, che limitano e regolano l’esercizio di tali diritti.

Nella modernità, l’idea delle “trappole per afferrarne l’uscita” evoca la società della massima sorveglianza, le normative sulla digitalizzazione e la gestione dei dati personali.

L’essere umano, desideroso di libertà (digitale, sociale, politica), è vincolato da un sistema che spesso intrappola la sua azione sotto forma di regole restrittive, giustificate da esigenze di sicurezza o progresso tecnologico.

Lo stesso Stato amministrativo disvela talvolta un lato oppressivo quando si congiunge al nudo lavoro della tecnica.

Il richiamo a una condizione originaria della creatura che vive in armonia con l’aperto può essere accostato al concetto di protezione della natura e di giustizia ambientale.

 

 

Ma l’ambiente ha valenze diverse e sfuggenti, delle trappole continue al suo interno, l’ambiente è una parola “bosco” direbbe Rilke, da cui fioriscono mille significati, tutela del paesaggio identitario, tutela del paesaggio naturale, protezione della biodiversità, sostenibilità climatica e politiche energetiche verdi.

Le norme internazionali sul clima cercano di bilanciare le esigenze del pianeta (l’ordine naturale) con i vincoli dell’economia globale, spesso fallendo nel garantire una vera armonia.

Dalla Seconda Elegia Duinese:

Che fare allora, se non restare,

se non restare sempre assorti nel dolce strazio della propria condizione umana, amarla. Come i pazienti, gli animali, che amano e passano.”

Qui Rilke riflette sulla condizione umana come una sensazione di dolore e strazio, un’esistenza intrinsecamente legata a vincoli e limiti.

Questo passo può essere interpretato come una metafora dell’esperienza giuridica: vivere implica accettare le regole, le norme, e i compromessi necessari per convivere, ma anche interrogarsi sul loro senso ultimo, cercando di superarlo rientrando in contatto profondo con il nostro essere naturale.

 

Gli animali, che “amano e passano”, rappresentano un ordine naturale che non necessita di leggi scritte, mentre l’uomo si trova nella difficile posizione di amare ciò che lo limita, come le leggi, riconoscendone però la provvisorietà e la caducità.

Nei  sonetti a Orfeo (I, 20),  Rilke tocca un tema vicino al senso di giustizia universale, una visione non antagonistica della giustizia :

 

“Non essere vittoria. Essere essenza.

Né un volo,

né un urto.

Il saldo volo dell’uccello

non contrasta il suo spazio, che passa.”

 

In questi versi,  ( non essere vittoria, essere essenza ) Rilke sembra suggerire una giustizia che non è forza né trionfo, ma armonia, un ordine che esiste senza bisogno di scontri. Questa immagine richiama un diritto che non impone attraverso la coercizione, ma che si realizza come equilibrio naturale, fluendo in accordo con le esigenze di chi lo vive.

Il “saldo volo dell’uccello” potrebbe simboleggiare un ideale di legge che non è oppressiva, ma che diventa uno spazio di libertà, capace di accompagnare la vita senza limitarla.

 

Un ultimo esempio:

Nella Terza Elegia Duinese, Rilke scrive:

“Chi ci ha capovolti, che tutto,

come fosse nell’attesa, ci tiene a rovescio?

E, qualunque cosa facciamo, siamo sempre nell’atteggiamento di chi parte.”

Qui emerge una visione dell’essere umano come soggetto che opera sempre dentro un sistema che lo trascende. Questo può evocare il tema della giustizia come qualcosa di parziale, incompiuto: le nostre leggi e azioni sono sempre provvisorie, un tentativo di trovare equilibrio in un mondo che ci tiene “a rovescio”, quasi in una posizione di continua precarietà.

Questi testi, con la loro forza simbolica, sembrano parlare di un diritto che aspira alla perfezione ma che è, come l’essere umano, inevitabilmente imperfetto.

 

Dalla Nona Elegia Duinese:

 

“Forse noi siamo qui per dire: casa,

ponte, fontana, porta, brocca, frutteto, finestra –

almeno: colonna, torre… Ma dire, capisci, oh dire così, come le stesse cose mai intimamente pensassero d’essere.”

 

Siamo di nuovo al tema del nominare.

Al rapporto fra parole e cose.

Tema che fu pensato anche da Hoffmanstal e che portò alla rinuncia a poetare per l’insufficienza della parola.

La sua incapacità di pensare il mondo. Di farlo emergere.

In questo brano, Rilke riflette sul compito umano di dare senso al mondo, di “dire” le cose, di costruire un ordine significativo. Questa responsabilità creativa richiama il tema giuridico della nomopoiesi, la creazione delle leggi: come le leggi danno forma alla convivenza umana, così il linguaggio dà ordine al caos del reale. Il nostro “dire” è una sorta di atto normativo, un tentativo di rendere il mondo comprensibile e abitabile.

 

Dal Libro d’ore (I, 7):

 

“Tutte le cose attendono pazienti,

attendono chi le ami abbastanza

da divenire legge.”

 

Qui, Rilke suggerisce che l’amore e la comprensione profonda possono trasformare l’apparente casualità del mondo in un sistema di senso, quasi in un ordine normativo. La legge emerge come frutto di un’intima connessione con ciò che ci circonda, un principio non imposto dall’alto ma nato dalla relazione. Questa visione richiama un’idea di giustizia fondata sulla reciprocità e sul rispetto per il mondo.

 

Dalla Quarta Elegia Duinese:

 

“La terra non è forse ancora ciò che gli amanti promettono di compiere? Non è il tempo che, nell’amare, diventano fecondi?”

 

Qui, l’amore diventa un simbolo di responsabilità creatrice. La promessa degli amanti di “compiere la terra” può essere letta come un parallelo con il ruolo del diritto: costruire una realtà più giusta e feconda. La giustizia, come l’amore, è un atto di fede nell’altro e nel futuro, un’opera mai conclusa che richiede impegno e dedizione costanti.

 

Eros e Polemos si alternano nel costituire il diritto.

Nel Quaderno di Malte Laurids Brigge (1910), Rilke intreccia memorie, meditazioni e osservazioni frammentarie attraverso la voce di Malte, un giovane poeta che vaga per Parigi. L’opera è un viaggio interiore in cui Malte esplora la fragilità dell’esistenza, la paura, il tempo, e l’inevitabilità della morte.

 

 

“Perché una volta e una volta sola siamo qui, e non c’è mai una seconda volta. E non c’è mai un’indulgenza a correggere quello che abbiamo fatto di sbagliato.”

 

Questo passaggio emerge nel contesto di una riflessione più ampia sulla responsabilità morale: ogni scelta, ogni azione è definitiva. La vita è unica e irripetibile, e non vi è possibilità di un “processo d’appello” per correggere gli errori, un concetto che evoca fortemente la giustizia come giudizio irrevocabile.

Come nel diritto, dove alcune sentenze diventano definitive e non più impugnabili, qui la vita stessa è vista come un giudice supremo. Non ci sono indulgenze o seconde possibilità per gli errori, e il tempo non permette revisioni. Questo riflette la tensione tra giustizia e irreversibilità: è possibile essere giusti di fronte a una condizione così definitiva? O la giustizia richiede una disponibilità alla correzione  ?

Ma certo la vita implica un anelito alla verità.

La frase richiama inoltre un principio fondamentale del diritto e dell’etica: la responsabilità individuale. Ogni atto umano ha conseguenze definitive che non possono essere annullate. Questo aspetto è particolarmente significativo per la giustizia penale, che cerca di bilanciare l’idea di riparazione con l’impossibilità di cambiare il passato.

Rilke sembra sottolineare che non esiste un “perdono automatico” per le colpe, ma solo una piena accettazione delle conseguenze. Questo risuona con l’idea di giustizia retributiva, dove l’equilibrio tra colpa e pena è centrale. Tuttavia, Rilke non sembra interessato a punire, quanto a esortare l’uomo a vivere con piena consapevolezza della propria condizione.

Il passo può essere interpretato anche in chiave esistenziale: la vita umana, come il diritto, richiede di agire con consapevolezza e con il senso di un dovere verso l’altro e verso sé stessi. In un mondo senza indulgenza, la vera giustizia è forse quella di vivere ogni momento con autenticità, sapendo che ogni azione lascia un’impronta indelebile.

 

Dalla Decima Elegia Duinese:

 

“E ancora una volta il grido puro si leva sopra noi, il grido d’amore per un destino, il grido dei madri partorienti […]”

 

Qui Rilke celebra il grido puro, un’espressione universale di accettazione del destino. Questo richiamo al destino come qualcosa che si deve accogliere richiama l’idea di giustizia come un ordine intrinseco, che non può essere sfuggito ma deve essere affrontato con consapevolezza e coraggio. È un appello all’umanità a riconoscere la propria condizione, che implica sia vincoli che responsabilità, proprio come avviene nel rapporto con le leggi.

 

Dal Libro d’ore (I, 28):

 

“Io vivo la mia vita in cerchi crescenti che si espandono sopra le cose.

Forse l’ultimo non lo compirò,

ma voglio tentare.”

 

In questa visione dei cerchi crescenti, Rilke esprime la tensione verso un ordine più ampio e inclusivo, sempre in divenire. Questo movimento infinito può essere letto come un’allegoria del diritto e della giustizia: un sistema umano mai perfetto, che aspira continuamente a espandere i propri confini per includere nuovi bisogni, nuovi diritti, nuovi orizzonti etici. La legge, proprio come i cerchi di Rilke, è sempre incompleta, ma il suo valore risiede nel tentativo di compiersi.

 

La solitudine del poeta e la solitudine del giudice : sentire lo sfondo e l’armonia delle cose

 

 

Rilke era un solitario.

Solitario è colui a cui è dato sentire “quel che altri origliano soltanto nel buio di uno spazio fatto di vuoti.”

Solitudine è un lungo raccoglimento che se ti fa sentir grave la vita non declina nella malinconia ma nell’ascolto.

In questo la condizione del poeta è la stessa del giudice una condizione solitaria per permettere al mondo di essere ed all’Io – con le sue pretese affermative/possessive –  di essere deposto o conciliato.

I passi del Malte evocano la paradossale condizione ontologica dell’uomo:

“Siamo dunque sinceri, noi non abbiamo alcun teatro, cosi come non abbiamo un Dio, per averli occorre essere comunità. Ciascuno ha le sue particolari idee e le sue paure e ne mostra agli altri quel che tanto che gli è utile e gli si confà.”

Essere comunità – il rimpianto dell’uomo moderno ( la comunità degli antichi quella solida e calda sempre rimpianta dai grandi conservatori ) – significa percepire il canto sommesso che attraversa le cose oltre il tempo e lo spazio a loro destinate.

L’ordine quindi nasce dalla voce stessa delle cose che la solitudine ci fa percepire quando accogliamo lo spazio interiore del mondo.

Il giudizio è possibile solo a partire dalla solitudine come la percezione poetica del canto dell’essere.

In “Appunti sulla melodia delle cose” Rilke scrive, come sognando di una potenza dell’intelletto sulle cose :

 

“Vedi, siamo appena al principio.

Come prima di ogni cosa.

Con mille ed un sogno dietro di noi e senza azione.

 

Non posso immaginare nel sapere che una sola beatitudine, questa:

diventare colui che inizia.

Uno che scrive la prima parola dietro un punto di sospensione lungo interi secoli.

 

Queste misteriose parole ci dicono l’importanza dello sfondo da cui emergiamo evocano con magia solo apparentemente contraria il quadro di Paul Klee di Walter Benjamin l’Angelus Novus che va verso il futuro fiammeggiante senza vederlo con il volto rivolto al passato.

Si tratta di figure opposte solo in apparenza.

L’uomo di Klee e Benjamin va verso il futuro come una freccia inconsaevole perché è antiquato.

Rilke va verso il futuro e sogna di poterlo scrivere come da una pagina bianca “come prima di ogni cosa” e di farlo guardando avanti, sapendo guardare avanti.

Il tempo di Rilke –come quello di Benjamin,   come il nostro – era percorso da un desiderio di ricominciamento, di tracciare una linea nuova. Nella consapevolezza che “per riconoscere gli uomini fu necessario isolarli”. E’ sempre tragico il tempo del ricominciamento.

Sempre il fondo non si cancella. Sempre l’ordine emerge dalle cose, dal loro fondo.

Ma subito dopo aver sognato di scrivere come se fosse al principio del mondo, si dispera:

 L’arte non ha fatto che mostrarci il turbamento in cui spesso ci troviamo.

Ci ha recato angoscia invece di calma e di silenzio.

… nessuno può aiutare nessuno.”

E la comunità sfugge fino a che non si evoca la parola sovranità:

Quando due o tre persone si riuniscono non si può dire che siano insieme.

Sono come marionette appese a fili tenute da mani diverse .

Solo quando un’unica mano li regge,

su tutto scende un sentire condiviso che li muove all’inchino o alla lotta.

E anche le forze dell’uomo stanno in quel punto dove le estremità dei fili convergono nella salda stretta di una mano che domina sovrana.”

Terribile lucidità, viene fatto di pensare ed aggiunge :

Solo in quell’ora di comunione, nella comune tempesta, all’interno della stanza in cui si incontrano

finiscono per trovarsi.

Solo quando dietro di loro c’è uno sfondo, allora entrano finalmente in relazione.”

La comunità è sempre un emergere dallo sfondo ci dice il poeta ( non un atto di volontà ed il costituzionalismo convenzionalistico alla Rawls  si rivela un metodo filosofico in cui l’accordo è idea regolativa che è chiamata a confrontarsi con la storia e l’antropologia profonda ).  

 

La nostra pienezza si compie lontano

Nello splendore degli sfondi.

Dove è volontà è movimento.

Dove si narrano storie di cui noi siamo i titoli in ombra.

Dove stiamo insieme e prendiamo congedo tra consolazione e tristezza.

Noi siamo là, mentre qui , in primo piano muoviamo avanti ed indietro.

 

 Qui Rilke evoca uno sfondo che va oltre la storia, oltre il passato da cui pure veniamo.

L’origine presocratica, l’archè ( noi siamo là ).

La storia è movimento, comunque un congedo tra consolazione e tristezza.

Lo sfondo è l’essere , un essenziale profondo.

Ed allora ?

Se vogliamo essere iniziati alla vita occorre considerare due cose:

“La grande melodia delle cose

E le singole voci.

… nella loro forma primitiva.

 

Cogliere il fragore di un mare in tempesta

Il ritmo dell’onda che si frange

Sciogliere dal groviglio della rete d parole quotidiane

La linea vivente che porta tutte le altre.

 

Si devono tenere l’uno accanto all’altro i colori puri per imparare a conoscere i loro contrasti e le loro affinità.

Dimenticare il molteplice per desiderare l’essenziale.”

 

Questo per Rilke è quasi una religione : trovare la melodia delle cose, un accordo vero con il cosmo. Allora l’uomo non sarà più irresoluto nelle parole e oscuro nelle decisioni. La massa non tollera i solitari – dice Rilke nel “Frammento dei solitari” – eppure è solo da tale movimento interiore che nasce l’ordine dell’arte (e del diritto diciamo noi ).

La radice nutre i frutti anche quando non sa della loro presenza.

 

Il frammento “Esperienza”

 

Nel frammento noto come “Esperienza” Rilke descrive uno stato di contemplazione estatica, provato durante una passeggiata, fatta con un libro in mano.

Estasi che lo coglie all’atto di appoggiarsi ad un arbusto in una condizione così poacevole da sentire le vibrazioni dell’albero passare in lui e poi divenire esperienza fusionale uomo mondo.

Qui la mistica diviene un’erotica e diviene dottrina deontica. Essere e dover essere coincidono.

Egli conclude dicendo che questa esperienza gli ha donato una singolare libertà, come di vivere più leggero, distaccato, capace di un movimento tutto suo fra coloro – gli altri uomini – che “legati in vita e morte, nutrivano reciproche speranze e preoccupazioni”.

La sola cosa che poteva volgere verso di loro era ormai la sua naturale semplicità.

Viveva in uno spazio così poco concepito per gli uomini che avrebbero potuto chiamarlo il vuoto. Gli era concesso parlare della gioia dove loro erano prigionieri dell’infelicità e poteva parlare anche del suo rapporto con la Natura, tutte cose alle quali di norma asi conferisce un’importanza solo marginale.

La levità dei solitari che si fanno invadere dal mondo.

 

 

 

E dice che ormai non v’era più nulla da nascondere, tutti gli oggetti gli si offrivano da una più vasta lontananza, lontani ma più autentici, e lo sguardo si “diluiva nell’aperto”.

Uno stato che non poteva durare certo, ma che lui definisce in modo chiaro e sublime : “infinitamente conforme alle leggi”.

 

Klage

 

Il lamento nelle Elegie duinesi è la metafora della condizione umana.

Nella prima e nella decima campeggia il tema del Lamento ma in tutta la struttura delle Elegie si sente questo lamento sommesso, un mormorio, un suono come di acque sotterranee che cercano fra i minerali una via verso la luce.

Un concetto che illumina il Lamento rilkiano è quello heideggeriano di “gettatezza”.

La gettatezza, o Geworfenheit in tedesco, è un concetto filosofico di Martin Heidegger che indica la condizione dell’essere umano di essere gettato nel mondo.

Come sappiamo, è in Essere e Tempo che Heidegger formula la sua nota espressione “essere- per-la morte” (Sein-zum-Tode): risoluzione filosofica all’“essere gettato” (Geworfenheit) quale momento fondamentale della struttura dell’Esserci (Da-sein), l’umana esistenza. Una risoluzione filosofica che passa attraverso il sentimento rivelatore dell’angoscia.

Se in Heidegger la gettatezza si risolve in angoscia ed in ricerca liquidatoria di ogni metafisica per cercare un umanesimo naturalistico ( la radura, la natura rischiarata )[2] in Rilke la dinamica è diversa l’uomo parte dalla constatazione della sua solitudine e finitezza e cerca il suo posto nel mondo, attraverso uno smarrito, balbettante, ma poetico lamento sommesso mai disgiunto da lucidità razionale, dalla forza del pensiero poetante, dall’incessante forza del paradossale domandare.

Così dal nulla sorge la comunità  e con essa la scoperta del fondamento nichilistico del diritto.

Sul fondamento nichilistico del diritto ha molto ragionato Natalino Irti ( cfr. Irti Nichilismo giuridico, Bari 2004  ) analizzando i modi di produzione delle norme giuridiche e – come lui li chiama – dei nomodotti ( molteplici perché molti sono gli apparati dotati di poteri normativi nel complesso mondo contemporaneo ) : le norme non sono più un rispecchiamento di valori idealistici ma sono un prodotto ( infondato ) dell’uomo.

Il diritto è consegnato ormai alla solitudine della volontà umana.

E qui viene in mente la Klage rilkiana espressa nella prima delle Elegie  duinesi :

 

Chi, s’io gridassi, mi udrebbe mai dalle sfere degli angeli ? 

E se pure d’un tratto uno mi stringesse al suo cuore :

perirei della sua più forte esistenza.

 

Poiché del terribile il bello:

non è che il principio, che ancora noi sopportiamo,

e lo ammiriamo così, che quieto disegna di annientarci.

 Ogni angelo è tremendo.

E così mi trattengo e serro in gola

Il richiamo dell’oscuro singulto.

Ah, di chi sappiamo giovarci?

D’angeli no,

e neppure di uomini

e gli scaltri animali hanno certo sentore

che non siamo giusto di casa, sicuri,

nel mondo esplicato.

Un testo – quello rilkiano – da cui emerge la radicale infondatezza della condizione umana.

Le elegie duinesi sono un tentativo di dire l’indicibile, di evocarlo, di farlo sentire, di farlo emergere senza tuttavia fissarlo nella parola, perché se emergesse non sarebbe più indicibile.

La radicale infondatezza della condizione umana che oscilla fra l’angelo e l’animale, fra l’utopia e la miseria, fra l’ideale ed il reale, fra l’infinito e la materia, fra la cultura e la natura, senza alcuna radice, senza sicurezza ( “non siamo giusto di casa, sicuri, nel mondo esplicato”) : questo è evocato nel testo.

L’impossibilità della comunità ma anche l’aspirazione continua ad essa.

Il dolore e la bellezza.

La nostalgia dell’Essere e la sofferenza dell’Esserci.

Il continuo – metamorfico – ciclo di passaggio da una condizione ad un’altra.

E la vanità della politica ( e del diritto ) che viene dissolto senza essere nominato.

Eppure è necessario l’ordine.

Eppure si evoca la sua radice.

 

 

 

 

 

Ci rimane un albero,

 forse, lungo il pendio,

da rivedere ogni giorno;

ci rimane la strada di ieri

e fedele, viziata,

una vecchia abitudine

che stava bene con noi

e non se n’è andata, rimase.

 

Ancora l’albero: l’esperienza estatico-mistica, di poggiarsi su un albero e sentirlo respirare o cercare radici.

Ma anche la ripetizione ( il giurista direbbe la tradizione, la consuetudine, i significati riposti e nascosti nella lingua che è sempre data e trovata e non inventata se non nel senso dell’inventio del diritto pensata da Paolo Grossi, tutte cose che il capitalismo letto da Marx e da Marshall Berman dissolve, travolgendo ogni eredità e sicurezza del mondo passato, “tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria”).

Il passato come ancoraggio, debole forse, ma umano.

Ed il diritto chiamato a custodirlo.

Il diritto che è sempre già vecchio. Il diritto che nasce superato ed infondato.

Il diritto e la sua funzione tragica, segnata insieme da infondatezza ( il nulla di Irti ) ed una trascendenza immanente ( nozione jaspersiana che tradurrei nel senso dell’aspirazione perenne alla giustizia , valore sacro , impensabile senza una dimensione di oltrepassamento che è a ben vedere trascendenza immanente non trascendenza vera e propria ; è l’infinito in noi ).

 

L’angelo è una figura di mediazione, è colui che annuncia, è il tramite ma l’uomo ed il divino, ma è anche sovranamente indifferente ( come nel film di Wenders il Cielo sopra Berlino ).

 

Ma i viventi fanno tutti l’errore

Che troppo forte distinguono.

Gli angeli ( si dice ) di sovente non sanno

Se vanno fra i vivi o fra i morti.

 

Ed il diritto non è sovente questa indifferenza formalistica dell’angelo?

La risposta, non definitiva, percorre tutto il testo delle elegie, il testo di un lamento sommesso, ed è nell’unità della vita, nel non fare troppo forte ricorso alle differenze.

E’ qui la lezione che Rilke ci dà.

Se il diritto è per sua natura  il “distingue frequenter”,  se fare differenze ( concettuali ) è il primo dovere del giurista;  il giurista, tuttavia, nel distinguere,  non deve dimenticare che i viventi “fanno tutti l’errore che troppo forte distinguono”,  sentendo dentro di sé, perennemente,  l’aspirazione all’uguaglianza alla quale pure il diritto costituzionale moderno è approdato al fine di attenuare le distinzioni che la vita delle comunità umane  pone al proprio interno a discapito dell’unità che caratterizza la vita come cosmo vivente.

Il diritto costituzionale respira a volte dello stesso respiro dei poeti.

 

[1] Il tema del contenuto che nell’arte trova una forma è tema desanctisiano crociano.

[2][2] Ha notato R. Prezzo  Essere-gettato (Geworfenheit) ed essere-nato in Aurora 2011  : “La preliminare analitica esistenziale (ossia l’analisi dell’essere di quell’ente che comprende l’essere, il Da-sein, e delle sue strutture fondamentali), come via obbligata per riformulare la questione del senso dell’essere, sfocia in Heidegger nella tesi secondo la quale per l’essere umano “la morte si rivela come la possibilità più propria, incondizionata e insuperabile”.

Per Heidegger, “l’Esserci è già essere-nel mondo, originario essere-intimo col mondo, presso le cose (che maneggia e usa) e con gli altri, in una situazione di costitutiva apertura rispetto al mondo. Dove mondo è inteso come totalità di rimandi e di significati, in cui ci muoviamo già sempre in una pre-comprensione dell’essere. L’Esserci, in quanto tale, è quindi sempre già in ‘familiarità’ e in ‘intimità’ col mondo.

In questo quadro la “venuta al mondo” dell’Esserci, il “come” della sua nascita sono per principio fuori gioco. La nascita è infatti citata solo fugacemente da Heidegger, come altro limite rispetto a quello della morte, indici entrambi della finitezza dell’Esserci. Ma per Heidegger se la nascita è un passato concluso, la morte è ciò che apre al futuro l’esserci-giànel-mondo nel suo “esistere-in avanti””.


RICERCA

RICERCA AVANZATA


ApertaContrada.it Via Arenula, 29 – 00186 Roma – Tel: + 39 06 6990561 - Fax: +39 06 699191011 – Direttore Responsabile Filippo Satta - informativa privacy