Pierluigi Ciocca, F. Capriglione, Il diritto dell’economia tra passato e futuro. Una conversazione con Andrea Sacco Ginevri, UTET, Milano, 2025.
In Banca d’Italia la tradizione giuridica risale al mitico Gustavo Bonelli: stimato da Scialoja e Vivante, teorico dei titoli di credito e del fallimento, coautore della fondamentale legge che nel 1926 unificò l’emissione ed estese la vigilanza su tutte le aziende di credito. Dal dopoguerra ai vertici dei legali della Banca si sono avvicendati Ruta, Battaglia, Persiani Acerbo, Sangiorgio, De Vecchis. Fra i cultori del diritto pubblico e privato di Via Nazionale evoco insieme all’autore del libro Cammarano, Carbonetti, Lamanda.
In Banca d’Italia Capriglione si distingueva per il tenace impegno a studiare, da giurista, l’economia. E nel ventennio che nell’Istituto condividemmo di economia parlavamo spesso. La bellissima copertina di questo libro, con l’immagine dell’uomo che legge, riflette il crisma dell’autore.
L’intervista ben curata da Sacco Ginevri ripercorre passaggi importanti della delicata transizione attraversata negli ultimi decenni dal sistema bancario e finanziario del Paese, passaggi approfonditi da Capriglione appunto in chiave di diritto dell’economia.
Donato Menichella non aveva scelta, nel 1936. Crollata la Borsa, fallite le maggiori banche private, in un capitalismo senza capitalisti non restava che dettare ad Alfredo De Gregorio la legge bancaria puntando sugli intermediari pubblici e sulla solidità assicurata al sistema dalla Banca d’Italia. Per quarant’anni funzionò. I depositanti non rischiarono più una lira e la trasformazione dei depositi in prestiti trasmise alle imprese una massa copiosa di fondi. Insieme col progresso tecnico l’accumulazione del capitale fu il motore del formidabile sviluppo post-bellico non a caso detto “miracolo economico”.
Ma negli anni Settanta fu l’inferno. Impazzirono, contemporaneamente, i salari, il petrolio, il debito pubblico. Si stravolsero i prezzi relativi dei prodotti, del capitale, del lavoro, dell’energia. Il ristagno si unì all’inflazione. L’urgenza, quindi, era di spostare le risorse dai vecchi a nuovi utilizzi. Si impose una vera e propria mutazione del sistema bancario e finanziario, così da affinarne l’efficienza allocativa, la capacità di selezionare le imprese e i nuovi investimenti. Nella Banca d’Italia la mutazione era stata sollecitata già da Carli e da Baffi. Venne poi guidata da Ciampi e Fazio. Interessò il ventennio 1980-2000. Fu graduale perché a differenza dagli anni Trenta non la si dovette attuare sotto lo stress della crisi.
Il sistema bancario e finanziario italiano è quindi entrato nel secolo attuale radicalmente trasformato: concorrenza; banche come imprese; mercati; da pubblico a privato; più operatori, metodi organizzativi, strumenti; apertura internazionale; sistema dei pagamenti; risparmio delegato; supervisione soprattutto prudenziale. Con l’euro, per direttive europee è andato perduto il principio cardine della legislazione del 1936: la separatezza tra finanza e industria. Il principio, imposto dalla drammatica commistione degli anni Venti, non era scritto, perchè costituiva la ratio legis. Nel 1993 venne scolpito ai commi 5 e 6 dell’art. 19 del TUB, alla cui redazione la Banca d’Italia contribuì assistita da Uberto Scarpelli. Lo ricordo perché fui tra coloro che sostennero l’opportunità e la rilevanza economica di quei commi. Il principio era volto a evitare che gruppi industriali avessero facile accesso a somme enormi, falsando la concorrenza e iniettando rischi sistemici nell’economia. Se oggi fosse in vigore, il principio metterebbe fine alla attuale caccia di posti di comando nei consigli d’amministrazione della finanza da parte di interessi industriali.
Il diritto dell’economia che il futuro professor Capriglione aveva respirato in Banca d’Italia venne in seguito affidato all’Ufficio Diritto per l’economia italiana, guidato dal distinto civilista Paolo Zamboni con Magda Bianco, Monica Marcucci, Cappiello, Carriero, Enriques e altri giuristi ed economisti, a cui si chiedeva di lavorare insieme. Non si trattava solo della law and economics di Director, Coase, Posner. Quella analisi economica del diritto è imperniata sulla teoria marginalista, neoclassica, che valorizza l’efficienza affidata al ruolo segnaletico dei prezzi di mercato, rispettato dall’intervento dello Stato. Ma i mercati non sono perfetti. Inoltre la teoria è statica, non è orientata alla crescita. Soprattutto, sottovaluta l’instabilità e l’iniquità distributiva del capitalismo. Forse il futuro del diritto dell’economia è nell’andar oltre l’individualismo metodologico, oltre Walras-Pareto e Arrow-Debreu.
Capriglione conferma come la Banca d’Italia, per parte sua, abbia sempre avuto presente che non esiste “la” teoria, ma “le” teorie. Vi sono due teorie del prezzo fondamentale, il tasso dell’interesse. Fisher lo lega a forze reali: al risparmio e alla produttività, “all’impazienza nello spendere il reddito e alle opportunità nell’investirlo”. Keynes invece lo lega a moneta, incertezza, aspettative, probabilità di rado commensurabili. Lo stesso Richard Posner lesse in età avanzata Keynes dopo la crisi Lehman e comprese allora come non sia giustificata la fiducia nella stabilità del capitalismo che gli era stata trasmessa dal suo collega di Chicago, Milton Friedman.
Così, sono più d’una le teorie della funzione imprenditoriale, cruciale nel capitalismo. Planando sul caso italiano, l’art.2082 del Codice Civile ha desunto la figura dell’imprenditore da Alfred Marshall: un amministratore di attività produttive esistenti, non il creatore di intraprese innovative, alla Schumpeter.
La stessa Costituzione patisce oggi carenze sul fronte di una moderna economia di mercato con regole.
L‘art. 41 non afferma che l’iniziativa economica privata deve svolgersi in condizioni di concorrenza. Il concetto di concorrenza che l’ordinamento europeo estende a quello italiano concerne le forme di mercato, protette da concentrazioni, abusi di posizione dominante, intese collusive. Ma anche in mercati concorrenziali sotto questi tre aspetti può difettare quella che Pantaleoni e Schumpeter chiamarono “minaccia”: la pressione, di varia fonte, che deve costringere le imprese a impegnarsi per massimizzare la produttività, minimizzare i costi, investire e innovare. Negli ultimi trent’anni questa pressione è mancata. Le imprese italiane – alcune più di altre – sono state favorite da sottovalutazione del cambio, moderazione salariale, danari pubblici, evasione delle imposte. I profitti si sono spesso trasformati in rendite. Sono quindi scemati, stentano, gli investimenti e il progresso tecnico, che invece tracciano la via canonica al profitto in una economia di mercato capitalistica.
Lo stesso art. 41 non chiarisce la natura della “utilità sociale” che l’iniziativa economica deve rispettare. Quando la Costituzione venne redatta erano ancora da venire i progressi analitici compiuti dalla teoria economica sulle esternalità negative, sui fallimenti del mercato, sulla economia del benessere. Quei progressi potrebbero rendere oggi meno vaga la nozione di “utilità sociale”.
Nondimeno, di recente, aprendo l’anno accademico alla Università Cattolica di Milano, Guido Calabresi ha opportunamente sottolineato che occorre cautela nel trasfondere all’ordinamento i dettami delle discipline di confine rispetto al diritto: oltre all’economia, la filosofia, la sociologia, la storia. Ha invitato a procedere “adagio, adagino”
Insomma, c’è molto da riflettere, da approfondire. E’la lezione di questo libro, il libro di un giurista con orientamento pubblicistico consapevole delle potenzialità ma anche dei limiti insiti nel rapporto fra economia e diritto. Il libro riassume il senso e le tappe della instancabile ricerca del professor Capriglione. La sua vita ha coinciso, continuerà a coincidere, con lo studio.