Pierluigi Ciocca, Intervento su P. Barucci et al. (a cura di), Scrittori e scrittrici di economia nel Regno d’Italia, Bancaria, Roma, 2024, pp. 681.
Avessimo avuto a disposizione quest’opera, Gianni Nardozzi ed io, quando lo scorso anno abbiamo curato per il centenario della Treccani Il pensiero economico nell’Italia Repubblicana! Gli studiosi da includere e quelli da coinvolgere, i temi, gli spazi, le bibliografie, gli aspetti filologici: le difficoltà comuni, brillantemente superate in questo volume. I due libri sono molto diversi, eppure miracolosamente complementari, e non solo perché la Repubblica è nata dal Regno…
Lode allora all’infaticabile Piero Barucci, agli altri curatori, agli autori delle voci, all’ABI, all’Ente Einaudi per averci dato uno strumento che resterà.
Ho apprezzato in modo particolare che non ci si sia limitati agli economisti in senso stretto, né agli economisti accademici, e neppure agli economisti maschi.
Provo a motivare il mio apprezzamento.
Il volume offre chiare sintesi dei massimi teorici, a cominciare da quelle, chiarissime, dovute a Piero Bini e a Marco Dardi, sul tridente – Pantaleoni, Pareto, Barone – che, preceduto e seguito da Ferrara, De Viti, Einaudi, Ricci, resero la scuola italiana “seconda a nessuno nel 1914” (la graduatoria, come sapete, è di Schumpeter). Il libro include la filosofia e la storia, il diritto e la statistica, la ragioneria e le tecniche sebbene – rarissimo neo – manchi Pasquale D’Angelo. Marcello de Cecco ed io lo consideravamo, non solo perché abruzzese, il fondatore della tecnica bancaria moderna. Ma sono presenti altresì uomini d’azione a cui prima facie forse non si pensa come a cultori dell’economia politica. Non solo all’azione ma al pensiero economico, molto hanno dato Cavour, Cattaneo, Jacini, Minghetti, Franchetti e Sonnino, e poi Stringher, il generale Dallolio, quindi Mattioli, Menichella, Paronetto, predecessori dei Carli e dei Baffi “repubblicani”.
In secondo luogo è fondamentale l’incrocio con le altre discipline. Cito dal saggio di Marco Minghetti (Della Economia pubblica e delle sue attinenze colla morale e col diritto, Le Monnier, Firenze, 1859, pp. VII-VIII): “Scrittori gravissimi vollero fare della Economia una specie di matematica, senza curare se alla teorica rispondesse la pratica”. Era quindi utile, continua Minghetti, “porre mano a una novella opera affinchè si rannodassero meglio le varie membra dell’Economia fra loro, e l’Economia stessa si restituisse nelle sue naturali relazioni con la morale, col diritto e con tutte le civili discipline”. Questo libro l’ha fatto, matematica compresa. Condivido in modo specifico l’inserimento dei cultori del sapere giuridico che tocca più direttamente l’economia: commerciale, societario, fallimentare, bancario. In Banca d’Italia Bonaldo Stringher ebbe la fortuna di avere accanto a sé Gustavo Bonelli, che resistette alle lusinghe accademiche di Vivante e preferì praticare l’avvocatura e studiare cambiale e fallimento in Via Nazionale fino a contribuire alla legislazione che concentrò il central banking e introdusse la supervisione sulle banche nel 1926. Quindi sono più che opportuni i riferimenti, oltre che a Vivante, a Mossa, Asquini, Ascarelli, Ferri, fino ad Alfredo De Gregorio. Richiamo un solo intreccio, ma fondamentale, su cui ritorno spesso, fra il giuridico e l’economico. L’art. 2082 del Codice Civile non fissa una regola, bensì un criterio: tratteggia la figura chiave del capitalismo, l’imprenditore. Ma non è l’imprenditore di Schumpeter. E’ l’imprenditore di Marshall: un gestore – recita il Codice – di “attività economiche organizzate”, quindi il manager di entità esistenti, non il promotore di intraprese, di nuovi prodotti, nuovi mercati di sbocco o di fornitura, nuove tecniche. Se l’art. 2082, questa norma-manifesto, venisse riscritta valorizzando le decisioni in condizioni di incertezza, con le probabilità spesso incommensurabili, che non consentono di quantificare il rischio, ne trarrebbero giovamento l’intera esperienza giuridica e l’economia del Paese.
Vi è poi il tema del rapporto fra economia e filosofia. Piero Sraffa forse fu brutale quando nel 1931 scrisse a Gramsci che la cultura italiana ha sottovalutato la scienza, e quindi l’economia, che è pur essa una scienza, ancorchè morale. Nel Regno d’Italia ciò non è del tutto vero, se da Cattaneo ad Ardigò il positivismo aprì all’indagine economica, quanto meno di taglio empirico. Si pensi al Laboratorio di Cognetti. Inoltre tentativi furono fatti – da Giovanni Vailati in primo luogo – di conciliare le due discipline. E tuttavia la filosofia dello spirito, nei suoi massimi esponenti relegò economia e storia economica al ruolo di ancelle della più alta speculazione, se non della metafisica. Con Nardozzi ci siamo chiesti se questo pensiero filosofico costituì un limite, o non piuttosto un vantaggio per l’economia politica. Il limite fu nella subordinazione, persino inducendo Einaudi a reagire a Croce sul liberismo. Ma forse fu anche un vantaggio, nella misura in cui l’economia non venne condizionata dai filosofi, segnatamente dall’individualismo metodologico ancor oggi imperante altrove. Superato il tempo fascista, la disciplina recuperò alti livelli con più ampi gradi di libertà. Ha espresso sia le punte analitiche di Sraffa, de Finetti, Sylos, Napoleoni, Cipolla, Pasinetti – possibili Premi Nobel – sia un eclettismo critico che l’ha caratterizzata internazionalmente e che ha dato molto al rinnovamento della cultura nell’Italia democratica.
Vi è, infine, la questione di “genere”. Allo scadere del 1800 Maffeo Pantaleoni previde che quello che si apriva sarebbe stato il secolo della donna, la cui “produttività marginale” era potenzialmente altissima… Ma visto che il problema forse c’è ancora, i curatori hanno opportunamente incluso studiose anche meno note di Jenny Kretschmann, Nora Federici, Vera Cao Pinna. Mi ha fatto speciale piacere trovare nel volume Almerina Ipsevich. Negli anni Settanta come economista monetario venivo spedito da Via Nazionale al Ministero del Bilancio per rassicurare Luciano Cafagna e la stessa Ipsevich che la banca centrale non affamava il popolo. Fui colpito dall’acume della Ipsevich e dal suo metodo di analisi della congiuntura. La Banca d’Italia allora puntava sulle previsioni econometriche. La Ipsevich aveva una conoscenza e una sensibilità sbalorditive dell’economia italiana, dello stato dei suoi settori. Assistita anche da Enzo Cipolletta, non proiettava meccanicamente i trends, ma sulla base di questi e dei dati anche qualitativi più aggiornati disegnava motivati scenari ciclici. Mi fece pensare, per opposti, a Joan Robinson, che inventava strumenti analitici senza poi applicarli. Appunto, l’opposto della Ipsevich, che non ha pubblicato sulle teorie del ciclo, ma doveva penetrare la realtà dell’economia italiana, e lo sapeva fare. Due intelligenze diversamente orientate!