Ipotesi sulle linee principali di politica estera del secondo mandato del Presidente Donald Trump
CIRCOLO DI STUDI DIPLOMATICI LETTERA DIPLOMATICA
Piazzale della Farnesina, 1 n. 1393 – Anno MMXXV
00135 Roma Roma, 7 gennaio 2025
Fare previsioni sulle politiche in campo internazionale che seguirà Donald Trump nel suo secondo mandato presidenziale è esercizio molto difficile, considerata la personalità dell’uomo, le sue controverse inclinazioni e idiosincrasie, la sua elementare reattività e suscettibilità a situazioni inattese e complicate. Eppure è un esercizio che vale la pena di compiere, non fosse altro per poter constatare alla fine del prossimo quadriennio quanto la realtà si sia divaricata dalle anticipazioni. Trump appare essere una sorta di neoisolazionista, ma di un tipo particolare. Non certo sostenitore della “solitudine” che per quasi un decennio aveva caratterizzato la politica estera degli Stati Uniti dopo il crollo dell’economia nella crisi del 1929; bensì il propugnatore di un ruolo di equilibrio nel mondo con pochi legami di alleanza se non con paesi amici proni alle sue direttive e alle sue esigenze in campo economico e commerciale, in posizione concorrenziale ma non necessariamente ostile militarmente nei confronti delle altre grandi potenze che non intendano venire a patti con la sua leadership, incline, infine, a ricorrere alla forza contro paesi di piccola-media stazza che pretendano di sottrarsi alle sue richieste geostrategiche. I teatri in cui la politica estera di Trump avrà modo di esercitarsi saranno soprattutto il conflitto russo-ucraino, le relazioni con Mosca e con l’Europa; il settore medioorientale con la questione palestinese e i rapporti in particolare con l’Iran; l’ambito estremo orientale con la prioritaria equazione di potere con la Cina nei confronti soprattutto di Taiwan; la gestione della naturale predominanza nei Caraibi e nell’America latina.
A. Conflitto russo-ucraino e relazioni con la Russia di Putin
E’ quasi certo, anche sulla base delle recenti dichiarazioni dopo la vittoria elettorale, che l’attenzione di Trump neopresidente si concentrerà sulla guerra tra Russia ed Ucraina. E’ in questo quadro che si paleserà il singolare atteggiamento nei confronti dell’ultra ventennale detentore del potere a Mosca. E’ ormai evidente che tra i due leader corre una sotterranea simpatia che può dire molto sulla natura tendenzialmente autoritaria di Trump. Questi guarda con malcelata ammirazione alla capacità di durare nel potere di Putin. Per cui, senza sposare necessariamente tutte le pretese di Mosca – anche se lo stesso Zelensky ha riconosciuto l’irrecuperabilità della Crimea e del Donbass – il neo presidente americano si sforzerà di trovare una soluzione, che potrebbe essere anche temporanea, che dia soddisfazione a Mosca, senza per questo umiliare troppo Kiev. Sarà una quadratura del cerchio di enorme difficoltà che potrà essere in qualche modo realizzata con una dose notevole di ambiguità, destinata forse a chiarirsi dopo la fine della presidenza Trump. Al di fuori di una qualche altamente improbabile ipotesi di sostanziale riavvicinamento di Mosca all’Occidente, Putin potrebbe utilizzare gli anni offerti dalla pseudo soluzione precedente per ricostituire un minimo di solidità offensiva, riprendendo forse l’attacco contro Kiev e concludendo la guerra secondo gran parte dei suoi obiettivi. La vittima sacrificale sarà l’Ucraina, a meno che l’Occidente non trovi nel periodo dopo Trump un’insospettata solidarietà all’insegna del rilancio della Nato e con qualche forma di associazione o addirittura di adesione dell’Ucraina stessa all’Organizzazione Atlantica. Non vi è dubbio che l’ambizione di Trump sarebbe quella di staccare la Russia dalla Cina. Ma è quasi certo che, a meno di una improvvisa e del tutto improbabile 2 dislocazione del potere a Mosca nella direzione dell’Occidente, la logica delle autocrazie continuerà a prevalere.
B. Le relazioni Stati Uniti-Europa
Il quadrante geografico dove potrebbero avvertirsi le maggiori pressioni non militarmente ostili da parte della nuova presidenza Trump è l’Europa. Se i paesi europei non si adatteranno rapidamente alle richieste della Amministrazione americana in campo economico-commerciale e se gli stessi – quelli in difetto – non procederanno ad un celere adeguamento dei loro stanziamenti per la difesa al livello del 2-3% del PIL (o addirittura al 5%) è verosimile che la reazione di Washington sarà all’insegna di una risentita determinazione che potrebbe anche sfociare in un tendenziale, anche se non definitivo, allontanamento fra le due sponde dell’Atlantico. I legami fra Stati Uniti ed Europa sono troppo profondi perché il sotterraneo, anche se soprattutto declamatorio, neo-isolazionismo trumpiano possa arrivare alle sue ultime conseguenze. Ma se l’Europa non sarà all’altezza delle attese di Trump, è del tutto probabile che l’Alleanza atlantica perda vigore, venga messa in qualche modo “sotto naftalina”, e che l’impegno di cui soprattutto all’articolo 5 del trattato nord-atlantico assuma un carattere sempre più ipotetico. Non vi è dubbio in ogni caso che le iniziative di Trump punteranno a coltivare le divisioni dell’Europa, assecondando le pulsioni anti-unitarie di non pochi paesi. E’ in questo quadro che va anche vista la privilegiata simpatia che si è palesata con Giorgia Meloni, foriera di un ruolo non certo secondario che potrà giocare la presidente del Consiglio italiana nella difficile fase di riassestamento dei rapporti con la presidenza Trump, per lo meno nella prima parte del suo tragitto. L’atteggiamento che assumerà la nuova amministrazione USA, lungi dal favorire le forze che puntano all’unificazione dell’Europa, ne costituirà un ostacolo i cui effetti si protrarranno oltre il quadriennio presidenziale. Quanto all’Ucraina, l’Europa, dopo l’ipotizzata tregua cui potrebbe aderire senza eccessive difficoltà e di fronte ad una possibile ripresa delle ostilità da parte russa, non troverebbe presumibilmente la forza di opporsi alla rinnovata offensiva di Mosca e non potrebbe fare molto per evitare una sistemazione più duratura della questione che sarà probabilmente a danno dell’Ucraina. Il rapporto transatlantico affronterà, pertanto, nei prossimi quattro anni non poche difficoltà, ma non è detto che non ritrovi, dopo la parentesi trumpiana, una sua vitalità.
C. Il conflitto israelo-palestinese e i rapporti con l’Iran
Se c’è una certezza nel futuro della politica estera di Trump, questa è la continuazione se non il rafforzamento dell’amicizia con Israele. Sfuggono le ragioni profonde di questo inattaccabile allineamento, siano esse legate ad esigenze di politica interna (il voto ebraico) o a connessioni familiari (il genero Jared Kushner). Resta il fatto che il rapporto con Tel Aviv (o Gerusalemme) costituisce l’unico stabile elemento nella visione del mondo di Trump. Certo, Israele poteva contare sull’appoggio dell’Amministrazione democratica per quanto riguarda le sfide essenziali alla sua sicurezza, ma la sintonia con Joe Biden era talvolta segnata da frizioni più o meno sotterranee e da qualche più visibile incomprensione. Non vi è dubbio che, per quanto attiene alla questione di Gaza, Netanyahu potrà procedere senza le rallentanti prudenze degli Stati Uniti di Biden in vista dell’auspicata, quanto più immediata liberazione degli ostaggi, anche se nel destino del futuro della Striscia le propensioni israeliane – nell’ottica di Trump – dovranno in qualche modo tenere conto delle posizioni dell’Arabia Saudita nel quadro di un ulteriore consolidamento degli Accordi di Abramo e di una piena partecipazione di Riad alla stabilizzazione della regione. Dove non si intravvedono differenziazioni di sostanza nelle intenzioni di Netanyahu e di Trump è il futuro dei rapporti con Teheran. Mentre Trump deve avere accolto con enorme soddisfazione quanto sorprendentemente intervenuto nelle ultime settimane in Siria con la caduta del regime di Bashar al-Assad, 3 l’umiliante estromissione della Russia e dell’Iran da ogni influenza a Damasco e il conseguente trionfo strategico di Israele, la collimazione degli orientamenti tra il presidente americano e il Primo ministro israeliano nei confronti dell’Iran deve essersi approfondita nella prospettiva di azioni concrete da intraprendersi nei prossimi mesi. La possibilità che l’Iran acquisisca una capacità nucleare è anatema sia a Washington che a Tel Aviv. Quello che si sta consolidando nelle due capitali è l’intendimento che, in assenza di una capitolazione di fatto di Teheran, sia necessario intervenire militarmente per annullare tale incipiente capacità. Gli assetti di attacco e di difesa iraniana sono stati, più di quanto si era stimato subito dopo il secondo intervento israeliano, profondamente ridimensionati, per cui la possibilità che Teheran reagisca efficacemente ad una massiccia incursione missilistica avversaria è ormai tramontata (anche se l’interramento in profondità delle postazioni di lancio iraniane richiederà l’utilizzo di ordigni che sono essenzialmente solo nella disponibilità degli Stati Uniti). Per cui si potrebbe essere alla vigilia di una per quanto dissimulata sottomissione iraniana o, addirittura, ad un cambio di regime se – come lasciato intendere da Netanyahu nel suo non lontano discorso all’Assemblea generale delle Nazioni Unite – la forte opposizione interna non riacquisti fiducia e si mobiliti per una vincente strategia di alterazione istituzionale. Gli eventi siriani e i possibili se non probabili contraccolpi iraniani potrebbero alterare sorprendentemente il quadro strategico del Medio Oriente per i prossimi anni se non addirittura decenni a venire.
D. Rapporti degli Stati Uniti con la Cina
Non vi è dubbio che nella costellazione internazionale il vero antagonista sarà la Cina di Xi Jinping: per le dimensioni della sua popolazione, per la sua capacità economica e commerciale, per le ambizioni planetarie e per l’alterità ideologica del suo regime. A ragione di tale sfida fondamentale il rapporto di Trump sarà ispirato a prudenza, pur nella piena consapevolezza della irrimediabilità del contrasto. La conseguente dialettica dovrà tenere conto della questione di Taiwan che è il settore geografico dove più incombente è la minaccia di una confrontazione militare. Certo l’ambizione cinese è quella di diventare la prima potenza al mondo per imponenza demografica, economico-commerciale e militare, ma questa ambizione può essere gestita con flessibilità dagli Stati Uniti che alla fine cercheranno in ogni caso di mantenere una superiorità in alcuni fondamentali settori del potere globale. Le interconnessioni tra le due potenze sono già tali che non potranno essere facilmente smantellate: basti pensare alle dimensioni dell’interscambio commerciale il cui valore si avvicina annualmente agli 800 miliardi di dollari (con forte scompenso a favore di Pechino), o all’importanza degli aspetti finanziari (in cui risaltano oltre mille miliardi di dollari di detenzione di titoli del debito pubblico americano, sempre a favore di Pechino). Tali interconnessioni sono così imponenti che imporranno presumibilmente sforzi da ambo le parti per trovare una convergenza. Anche le ambizioni geostrategiche globali di Pechino potranno trovare una sia pur non facile composizione in una sorta di duopolio mondiale. Il punto di dissidio più difficilmente gestibile è proprio Taiwan. E’ possibile che la via di uscita transitoria si trovi nel fatto che il periodo della prossima presidenza Trump non sarà sufficiente alla Cina per colmare il divario di potenza militare che ancora la separa dagli Stati Uniti (escludendo sempre “dérapages” improvvisi che inneschino una spirale inarrestabile verso le scontro). Oppure l’altro scenario, che chi scrive trova molto difficilmente realizzabile, è che Trump si impunti nel trovare una formula di compromesso che sacrifichi in sostanza l’avvenire autonomo di Taiwan. Trump certamente ne sarebbe capace, ma quasi sicuramente ne sarebbe impedito dall’establishment politico-militare di Washington. Quindi sarà nel sud-est asiatico che si giocherà l’avvenire del nostro pianeta.
E. La vicinanza geografica con Canada e Messico e l’influenza americana nei Caraibi e in America Latina
I due paesi geograficamente contigui agli Stati Uniti saranno quelli che soffriranno di più per l’intenzione di Trump di rimodellare gli equilibri commerciali a favore di Washington. Non avranno probabilmente altra scelta che accedere in qualche modo alle istanze trumpiane, mentre Città del Messico dovrà anche subire le “intimazioni” in materia di immigrazione irregolare, uno dei capisaldi del programma del neo-eletto presidente. Di tale impostazione USA risentiranno più o meno tutti i paesi dell’America centrale da cui sono partite negli ultimi anni schiere importanti di aspiranti ad un migliore tenore di vita. Quanto all’America latina, il paese che dovrà maggiormente temere le attenzioni di Trump sarà il Venezuela incupito in una spirale non più autoritaria quanto piuttosto letteralmente dittatoriale nonostante gli orpelli di una falsa democrazia inalberati da Nicolás Maduro. Solo una dichiarata e militante protezione da parte di Russia e Cina potrà impedire a Trump di operare per un cambio di regime a Caracas (e ovviamente anche a l’Avana). Il resto dell’America latina risentirà in qualche modo, in forma attenuata comunque, delle idee e delle priorità politico-commerciali della nuova presidenza USA, con i paesi guidati da governi di sinistra oggetto potenziale di uno sguardo non “simpatetico” da parte di Washington, mentre in qualche forma un “modus vivendi” sarà trovato con il Brasile di Lula da Silva, troppo grande ed importante per essere osteggiato in via aperta e dirompente. E il rapporto con l’Argentina di Javier Milei conoscerà un rilancio significativo. ***** Come ha scritto di recente Le Figaro, Trump punterà a conseguire “la pace attraverso la forza” evitando il più possibile di lasciarsi coinvolgere in situazioni belliche e perseguendo una politica estera libera da dogmi. Il suo proposito in politica interna, forte dell’eccezionale controllo di cui gode, quanto meno al momento, nei due rami del Congresso e nella composizione della Corte Suprema, è di puntare ad un rimodellamento delle istituzioni dello Stato federale in senso accentratore e tendenzialmente autoritario. “Vaste programme”. Glielo consentiranno l’opposizione democratica e quella al momento del tutto minoritaria, silente e dispersa, eppur presente nel suo stesso partito? Saranno certamente quattro anni interessanti. Sempre che egli, al termine di questo lasso di tempo, non si ostini ad interpretare la Costituzione americana come autorizzante un altro quadriennio alla presidenza: nel qual caso la situazione diverrebbe drammaticamente tesa e potenzialmente eversiva.
Adriano Benedetti
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