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De Amicis e la società siciliana

di - 20 Gennaio 2025
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Con Carlo Lorenzini (Collodi) e Giuseppe Tomasi di Lampedusa Edmondo De Amicis è fra gli scrittori dell’Italia contemporanea più noti e tradotti al mondo. Lo è per il suo capolavoro, Cuore (1886), appena posteriore a Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino (1883), entrambi di molto precedenti Il gattopardo (1958). Solo pochi giorni fa ho scoperto – mia ignoranza! – i suoi “Ricordi d’un viaggio in Sicilia”, scritto nel 1906, due anni prima della morte. Il saggio è magistrale, ovviamente per lo stile, ma anche per la capacità di vedere e sentire i siciliani e la Sicilia: Messina, Palermo, Catania, Siracusa, Taormina, la terra dell’Isola.

Ma il ricco signore ligure e piemontese, popolarissimo e vicino al popolo, socialista dal 1891 e amico del capo del partito Filippo Turati, coglie altresì il contrasto fra le bellezze e le vicende, uniche, millenarie, e almeno tre aspetti gravemente negativi della Sicilia: il vuoto di capitale sociale, il latifondo, l’emigrazione. L’analisi di De Amicis è acuta. Anticipa, scioglie, tre dei principali nodi su cui gli storici e gli economisti tuttora si affannano per capire il Mezzogiorno e, in realtà, l’Italia dopo l’Unità.

Vale riprodurre tre brani dalla ristampa dei “Ricordi” (il Palindromo, Palermo, 2014, 84 pp.).

Sul capitale sociale siciliano: “L’uomo, dotato di facoltà intellettuali e morali ammirabili, è capace di far miracoli, ma gli uomini, renitenti all’associazione e ai sacrifici che la concordia impone, sono collettivamente inetti e infecondi” (pp. 32-33). La Sicilia ha espresso individualità fra le punte della cultura dell’Italia unita: nella filosofia, nel diritto, nella scienza, nella letteratura, nella storiografia, nell’arte, nell’economia. Eppure, l’associazione e la concordia hanno continuato a difettare, pesando sull’intera società italiana.

Sul latifondo siciliano: “Il latifondo, la gran piaga incancrenita dell’isola. Il latifondo, che vuol dire la campagna senza case coloniche e senz’alberi, e i contadini costretti a vivere nei grandi centri, dove son sottoposti a gravami da cui dovrebbero essere esenti, e donde debbono fare ogni giorno un lungo cammino per recarsi al lavoro; il latifondo che favorisce il furto campestre, l’abigeato, il malandrinaggio, il brigantaggio, e crea una catena di parassiti sfruttatori fra il grande proprietario assente e il lavoratore abbandonato a sé stesso (…). E i quarant’anni trascorsi dopo l’unificazione d’Italia non l’hanno punto smosso dalle sue fondamenta secolari. La vendita dei beni ecclesiastici, che pareva gli dovesse dare un crollo, non fece per contro che favorirlo, poiché di quei beni s’impinguarono la borghesia e l’aristocrazia, creando un nuovo feudalismo terriero in aggiunta all’antico, abolito soltanto di nome nel 1812 (…). E le cose non muteranno finchè non siano diventati potenti i deboli, finchè il numero non sia anche la forza. Ma quando sarà mai, se la forza non è possibile senza la concordia, e la concordia è tanto difficile nell’ignoranza, e riesce tanto facile ai padroni seminar la divisione fra i servi?” (pp. 50-51). Tra Otto e Novecento 8/10 delle campagne siciliane erano latifondi.

Sull’emigrazione siciliana: “Vedete lontano, all’orizzonte che chiude la via (Corso Vittorio, a Palermo), la macchietta nera d’uno dei piroscafi che portano via ogni settimana un popolo d’emigranti. Poiché in quella regione dell’isola principalmente l’emigrazione per gli Stati Uniti ha assunto in questi ultimi anni proporzioni spaventevoli (…). Ci son dei piccoli paesi che si vuotano quasi interamente, ci sono città ragguardevoli che hanno perduto quasi un terzo della loro popolazione. E s’ha un bel dire che non la miseria assoluta, ma i cresciuti bisogni e il desiderio d’un benessere prima non conosciuto nè sognato son la vera ragione dell’esodo lamentevole: resta pur sempre che è misera e triste la condizione d’un paese in cui le classi lavoratrici non possono soddisfare i bisogni e le aspirazioni legittime che suscitano in esse la civiltà progredita e la divulgata cultura” (pp. 42-43). Nonostante la sprovincializzazione e le rimesse di chi emigrò il costo umano ed economico per il Paese è stato pesantissimo.

Sono, queste righe, non solo per la qualità della scrittura, ottimo preludio alla lettura di saggi scientifici successivi, anche recenti.

Sul vuoto di capitale umano – la carenza di concordia e di associazione denunciata da De Amicis – molto è stato detto, e viene detto, sulla scia del “familismo amorale” documentato nel Meridione da E.C. Banfield, (The Moral Basis of a Backward Society, The Free Press of Glencoe, Illinois, 1958) e dei limiti secolari di ”impegno civico” in Italia riscontrati da R. Putnam (La tradizione civica nelle regioni italiane, Mondadori, Milano, 1993). Secondo Carlo Cipolla nell’Italia meridionale l’accentramento regio e burocratico si è unito da secoli all’arretratezza economica legata alla scelta di puntare sull’agricoltura piuttosto che sulla manifattura (Il caso Mezzogiorno?Colpa dei normanni, il Sole 24 ore, 1°maggio 1996).

Sul latifondo, le negatività censite dai basilari contributi alla conoscenza dell’agricoltura italiana dovuti a Rossi Doria, Sereni, Silone, Zangheri, fino a Piero Bevilacqua, sono state temperate ma anche confermate per differenza dagli studi di Marta Petrusewicz attorno alla cospicua proprietà dei Barracco in Calabria (Latifondo. Economia morale e vita materiale in una periferia dell’Ottocento, Marsilio, Venezia 1989) e di Carlo Fumian attorno alla enorme proprietà dei Camerini in Veneto (La città del lavoro. Un’utopia agroindustriale nel Veneto contemporaneo, Marsilio, Venezia, 1990).

Sull’emigrazione, accanto a ricostruzioni come quella, fondamentale, di Uccio Sori (L’emigrazione italiana dall’Unità alla seconda guerra mondiale, il Mulino, Bologna, 1979) vanno segnalate le verifiche econometriche di Riccardo Faini con Alessandra Venturini (Italian Emigration in the Prewar Period, in T.J. Hatton-J.G. Williamson (eds.), Migration and the International Labor Market, 1850-1939, Routledge, London, 1994) e di Pier Giorgio Ardeni con Andrea Gentili  (Revisiting Italian Emigration Before the Great War: A Test of the Standard Economic Model, Working Paper DSE N° 907, Oct. 2013).

Per venire alla storiografia più alta e generale può utilmente compiersi il passaggio da De Amicis allo splendido libro (Il Risorgimento in Sicilia, Laterza, Bari, 1950) del massimo studioso della Sicilia in età contemporanea, Rosario Romeo, siciliano di Giarre. Il libro si conclude con parole che, per il Sud, suonano omaggio alla tesi di Gramsci-Sereni della rivoluzione agraria mancata.  Romeo respingeva la tesi per le regioni del Centro e del Nord del Paese. Lì una borghesia agraria s’era formata e la rivoluzione in agricoltura non avrebbe innalzato l’efficienza, avrebbe abbattuto il risparmio, l’investimento e la produttività nell’intera economia: “Ma nel Mezzogiorno, dove la rivoluzione antifeudale non aveva raggiunto quasi nessuno dei suoi obiettivi fondamentali, la rivoluzione contadina poteva essere un fatto storico di grande contenuto rinnovatore, dato l’irriducibile conservatorismo della classe dominante (…). Il ceto dirigente dell’Italia unitaria nella sua ala meridionale, e in Sicilia in particolare, avrà in genere un carattere meno schiettamente liberale, più fiacca coscienza politica, minore attitudine e preparazione alla vita moderna” (p. 348).

Il reddito reale pro capite dei siciliani vissuti al tempo di De Amicis è stimato pari all’85% di quello del Nord-Ovest nel 1871 e solo al 70% nel 1911. Il reddito reale pro capite dei cinque milioni di siciliani di oggi (9% della popolazione d’Italia) è cresciuto di oltre dieci volte dal 1871 ma supera appena la metà del livello del Nord-Ovest.


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