Quattro brevi note su spazi e tempi della cittadinanza, al di là del sangue e del suolo
1.
La cittadinanza è questione sempre più rilevante per un ordinamento costituzionale che non riduca la democrazia alla sua accezione formale, a una mera procedura di regolazione della contesa per il potere, ma la intenda in una prospettiva sostanziale, in cui la condizione di civis si rivela, a uno sguardo storico, un importantissimo catalizzatore di eguaglianza e il “punto di congiunzione tra soggetto, diritti/doveri e appartenenza” (P. Costa).
Lo strutturarsi di imponenti flussi migratori ha costituito uno dei principali indicatori dell’irrompere delle masse sulla scena politica, economica e sociale d’Europa a cavallo tra Otto e Novecento. A partire da quel momento, nei paesi di partenza e di arrivo, presero forma politiche migratorie finalizzate a una regolazione di quei movimenti di persone funzionale agli interessi dei rispettivi ordinamenti, e quei movimenti di persone acquistarono un crescente rilievo nelle discipline nazionali della cittadinanza, la quale a sua volta si è sempre più chiaramente rivelata un potente strumento di inclusione ed esclusione politica e sociale che opera lungo molteplici linee di faglia: dal censo, al genere, alla razza. Nell’ultimo mezzo secolo, i movimenti migratori si sono venuti caratterizzando per un sempre più accentuato pluralismo di provenienze, culture e credenze e questa inedita varietà ha evidenziato la complessità e insieme l’urgenza di elaborare strategie di riconoscimento dei soggetti e dei loro diritti adeguate alle odierne dinamiche della convivenza.
Nella storia dei moderni stati-nazione europei queste dinamiche di inclusione ed esclusione hanno operato prevalentemente a partire da due paradigmi maggiori: il suolo e il sangue. Si è (o si diventa) cittadini perché si nasce nella civitas o perché si discende da cives. I due criteri rinviano evidentemente a rappresentazioni differenti dell’appartenenza a una comunità e si collegano alle grandi idee di nazione della modernità europea. Da una parte, l’idea francese, rivoluzionaria e volontarista, della nazione come spazio dei diritti universali e di cittadinanza e come comunità che si costruisce a partire da una trama di legami culturali e virtù civiche; dall’altra quella tedesca, romantica e organicista, che in reazione alla nazione-demos dei francesi ripropone aggiornandola una idea di nazione-ethnos: di una comunità di stirpe in cui i diritti spettano, come recitava la costituzione della Paulskirche, al “popolo tedesco”. Nel tempo, le dinamiche migratorie interessanti i diversi paesi hanno sempre più influenzato le scelte tra sangue e suolo e le loro combinazioni, e le due idee di autodefinizione e di incorporazione civica hanno determinato conseguenze molto diverse per gli immigrati intenzionati a stabilirsi nel paese: nel primo caso, infatti, residenza e nascita possono trasformare quegli stranieri in cittadini nell’arco di una o due generazioni; nel secondo, invece, anche se lungo-residenti o addirittura nati nel territorio nazionale, quei soggetti potrebbero rimanere esclusi dalla comunità politica.
Pure, non si deve insistere eccessivamente su questa dicotomia tra sangue e suolo; nelle diverse discipline, infatti, questi canoni di acquisto della cittadinanza non operano ‘in purezza’, ma si mescolano tra loro, incontrano vari temperamenti e vengono integrati da altri criteri, quali ad es. la naturalizzazione, il matrimonio, l’adozione.
2.
Terra di emigranti e di colonizzatori ‘demografici’, la prima organica disciplina italiana della cittadinanza (legge 13 giugno 1912, n. 555) era fondata su uno ius sanguinis funzionale a mantenere nel perimetro della polis le masse di emigranti e i loro discendenti. La vigente normativa della materia (legge 5 febbraio 1992, n. 91) appare ancora fortemente caratterizzata da una circolazione sanguigna dello status di cittadino e da un utilizzo assai residuale dello ius soli, ma oggi che il Paese è terra di immigrazione più che di emigrazione quell’assorbente primato del sangue contribuisce ad alimentare un divario tra l’appartenenza reale e quella legale: favorisce la conservazione e il riacquisto dello status civitatis in capo ai discendenti di un’emigrazione che spesso hanno interrotto ogni rapporto col Paese, mentre lascia fuori dalla comunità politica molti immigrati e i loro discendenti che ormai da tempo risiedono nel Paese e ne condividono le vicende.
Fino ad oggi, la gran parte delle riforme che hanno interessato le discipline della materia hanno rafforzato il criterio dello ius sanguinis, allungato i termini e aumentato i costi e le incertezze delle procedure di acquisto della cittadinanza per gli stranieri extracomunitari. Nel frattempo, sono naufragate le molteplici proposte di riforma tese ad agevolare l’acquisto della cittadinanza da parte degli immigrati e dei loro discendenti, e questa lunga serie di fallimenti costituisce il segno delle difficoltà che incontra il nostro paese, e soprattutto la sua classe politica, a fare i conti con i mutamenti che da più di trent’anni investono la società e l’identità civica. Queste difficoltà a loro volta alimentano un dibattito sempre più populista, sicuritario e utilitario, nel quale i ‘cittadini in potenza’ sono costretti all’interno di una dicotomia capace di percepirli esclusivamente in quanto ‘pericoli’ o ‘risorse’.
La persistente prevalenza del sangue caratterizzante la normativa italiana se per un verso è il riflesso di politiche migratorie che negli ultimi lustri si sono sempre più indirizzate alla chiusura degli ingressi e alla precarizzazione della condizione giuridica degli stranieri già presenti, per altro verso contrasta con le tendenze in atto nello spazio europeo, in cui diversi paesi tradizionalmente di ius sanguinis hanno introdotto nelle discipline nazionali della cittadinanza dei meccanismi più o meno temperati di ius soli e/o di ius domicilii per rispondere alle esigenze dei giovani di origine straniera e rendere meno discrezionale ed eccezionale la naturalizzazione degli stranieri maggiorenni.
Negli ultimi mesi, si è tornato a discutere attorno a possibili riforme della vigente normativa in materia di cittadinanza che agevolino l’accesso allo status civitatis per quegli stranieri che da molti anni risiedono regolarmente in Italia e, soprattutto, per i figli e le figlie dell’immigrazione nati in Italia o arrivati in giovane età. Al riaccendersi della discussione hanno contribuito alcune proposte venute da esponenti del campo centrista di introdurre meccanismi di ius scholae che riconoscano la cittadinanza ai discendenti di immigrati che abbiano completato due cicli scolastici o, secondo altre ipotesi, la scuola dell’obbligo. A queste proposte si è inoltre aggiunto il deposito di una richiesta di referendum che mira a riportare a cinque anni il termine di soggiorno legale ininterrotto ai fini della presentazione della domanda di concessione della cittadinanza da parte degli stranieri maggiorenni. L’iniziativa referendaria ha raccolto le sottoscrizioni necessarie, prevalentemente in via digitale, e mentre si scrivono queste righe la richiesta è al vaglio dell’Ufficio centrale per il referendum.
3.
Si sono già richiamati altrove, di recente, i nodi maggiormente problematici della vigente disciplina della cittadinanza, quelli più bisognosi di una riforma, così come si è rimarcata l’esigenza, se davvero si vuole investire sull’istruzione quale spazio e tempo di educazione alla convivenza, di ripensare la scuola rispetto alle odierne letture produttiviste e sempre più disciplinanti, e la necessità che attorno all’appartenenza e ai parametri del suo riconoscimento si sviluppi un dibattito meno strumentalizzato e polarizzato, che vada oltre il dualismo tra sangue e suolo e le altre dicotomie che caratterizzano i temi della cittadinanza e dell’immigrazione.
Qui, vorrei riportare l’attenzione sul ruolo che gioca il tempo negli odierni meccanismi di regolazione della cittadinanza in Italia (su cui v. ad es. A. Ciervo ed E. Gargiulo). Intesi in senso assoluto, sangue e suolo sono insensibili al tempo concepito come durata; in entrambi i casi, l’appartenenza si accende istantaneamente alla nascita, a seconda della famiglia di provenienza o del territorio in cui si viene generati. Tuttavia, in concreto, il tempo gioca un ruolo di rilievo nelle combinazioni di ius soli e ius sanguinis che caratterizzano le diverse discipline nazionali e negli altri criteri di attribuzione della cittadinanza (ad es. nel caso di acquisto dello status civitatis per naturalizzazione, per matrimonio o, come nelle più recenti proposte, iure scholae).
Traguardata da una prospettiva ‘temporale’, la vigente disciplina italiana della cittadinanza si caratterizza, da una parte, per il suo distendersi su tempi lunghi e, dall’altra, perché prende in considerazione questi tempi esclusivamente al passato. Si conserva a lungo in capo ai discendenti di un’emigrazione risalente e che spesso non hanno conservato alcun legame con l’Italia, e impone tempi lunghi per il suo acquisto da parte di cittadini stranieri.
Questa ‘lunga durata’ e il suo proiettarsi nel passato riproducono la stessa logica organicista tipica dello ius soli e accrescono lo scarto tra cittadinanza ‘formale’ e cittadinanza ‘sostanziale’, mentre appare sempre più evidente l’esigenza di una messa a valore nelle dinamiche della cittadinanza di una idea di residenza capace di riconsiderare spazi e tempi della cittadinanza. Di ripensare il territorio quale generatore di appartenenza senza tuttavia ridurlo a uno spazio ‘chiuso’, collegato a pulsioni isolazioniste e xenofobe, ma concependolo piuttosto quale ambito di svolgimento della personalità e della dignità dei singoli e, insieme, di formazione della società e della convivenza: esito dinamico di un complesso di relazioni politiche, sociali e culturali tra individui, comunità e ambiente. Per altro verso, si tratta invece di accelerare i tempi dei procedimenti e di ridurre i termini oggi necessari per l’acquisto della cittadinanza, e di valutare il fattore tempo non solo riguardo al passato, ma anche rispetto a un possibile futuro, in modo da prestare una maggior attenzione anche alle scelte e alla volontà degli interessati. Una qualche sollecitazione in tal senso potrebbe venire anche dalla giurisprudenza costituzionale intervenuta negli ultimi anni sulla configurazione della residenza come condizione per l’accesso ai servizi abitativi pubblici. In più di un’occasione, infatti, i giudici della Consulta hanno rimarcato come il criterio della residenza protratta possa tradursi in fattore di discriminazione se non correlato agli effettivi bisogni dell’interessato e, al contempo, come, dato il “carattere continuativo del beneficio” (e cosa c’è di più continuativo dello status di cittadino?), si debba guardare non solo a una “condizione del passato” quale la residenza pregressa, ma attribuire rilevanza a possibili “indici di probabilità di permanenza per il futuro”: ad “altri elementi sui quali si può ragionevolmente fondare una prognosi di stanzialità” (Così C. cost. sent. n. 44 del 2020, ma v. anche, ad es. sentt. n. 77 del 2023 e 67 del 2024).
4.
La decisa connotazione sanguigna della cittadinanza italiana necessita evidentemente di essere temperata mediante un ricorso meno marginale al parametro del territorio, ma al di là della dicotomia tra sangue e suolo, mi sembra che a dover essere ripensato sia innanzitutto “il tempo che ci vuole” a diventare cittadino, la prospettiva da cui lo si considera e i modi in cui lo si misura.
Il termine dei dieci anni di regolare e continuata residenza necessari agli stranieri maggiorenni per poter richiedere la cittadinanza appare decisamente più lungo dei cinque anni richiesti in media dagli altri paesi europei; l’iter di richiesta della cittadinanza è tra i più lunghi procedimenti amministrativi contemplati dal nostro ordinamento; le ipotesi di ius scholae avanzate questa estate allungano i tempi rispetto alle proposte di ius culturae già in discussione in Parlamento, e quelle che fanno riferimento alla scuola dell’obbligo avvicinano molto il termine a quella maggior età in cui già oggi è previsto che lo straniero possa richiedere la cittadinanza (art. 4, co. 2 l. n. 91 del 1992).
La recente iniziativa referendaria riguarda una platea assai più ampia di quella interessata dalle proposte di ius scholae e va nella direzione di una riduzione del termine di soggiorno pregresso necessario per richiedere la concessione della cittadinanza, riportandolo ai cinque anni già previsti dalla l. n. 555 del 1912 (art. 4, co. 2). Tuttavia, è prematuro parlare di un referendum che quando si scrivono queste righe non ha ancora esaurito la fase dei controlli preventivi, ed è lecito interrogarsi sulla opportunità di ricorrere allo strumento referendario in questa materia. Da una parte, infatti, in un giudizio di ammissibilità sempre più imprevedibile e oscillante, non si può escludere che la manipolazione operata dal quesito sia ritenuta inammissibile in quanto eccessivamente “creativa”. D’altra parte, non si dovrebbero trascurare gli infelici esiti che da tempo caratterizzano tali consultazioni; negli ultimi trent’anni, infatti, si è raggiunto il necessario quorum di partecipazione una sola volta, nel 2011, quando attorno ai temi oggetto della tornata referendaria (nucleare e acqua pubblica) si sviluppò un dibattito ben più ampio di quello che sta accompagnando l’odierno referendum sulla cittadinanza.
Oltre ad allungare ulteriormente i tempi, le recenti proposte di riforma iure scholae rischiano di allontanare ulteriormente la previsione di un sia pur temperato meccanismo di ius soli che riconosca fin dalla giovane età la cittadinanza ai giovani di origine straniera. Simili ipotesi, inoltre, investono l’istituzione scolastica di una funzione di pedagogia politica, di avviamento alla cittadinanza tipicamente assimilazionista (esemplare al riguardo l’esperienza francese del Novecento), e ripropongono una idea di “integrazione” sempre più unidirezionale e ‘premiale’, che richiede non solo la dimostrazione di un certo livello di conoscenza della lingua, ma anche l’accettazione della cultura, dei valori civici e dei modi di vita del paese ‘ospitante’, e la disponibilità ad un’attivazione tipica dei meccanismi di condizionalità già da tempo operanti in materia di accesso al lavoro e di ammortizzatori sociali.
Una riforma dei modi d’acquisto dello status civitatis dovrebbe adeguare il dato normativo ai mutamenti sociali nella consapevolezza che l’individuazione del chi siamo e delle condizioni dell’appartenenza è in stretto rapporto con l’effettività del principio di eguaglianza e con la vitalità dei princìpi e dei diritti/doveri costituzionali. La vigente normativa della cittadinanza italiana presenta limiti sempre più evidenti, soprattutto per quanto riguarda le seconde generazioni dell’immigrazione. Al di là dei tradizionali canoni del sangue e del suolo, il criterio della residenza potrebbe costituire uno strumento di misura dell’appartenenza più attento alla volontà degli interessati ed agli effettivi tempi e spazi di costruzione della cittadinanza, più rispondente alle dinamiche dell’odierno pluralismo sociale e più capace di disegnare una comunità politica proporzionata alla effettiva partecipazione dei singoli alle vicende della collettività.