Dell’Orca orcynusa e del Giorno del giudizio: due ricorrenze da ricordare
- Nel prossimo 2025 cadranno due anniversari, due ricorrenze, delle quali vorrei qui brevemente provare a intrecciare i fili: mezzo secolo dalla morte di Salvatore Satta, mezzo secolo dall’uscita di Horcynus Orca del siciliano Stefano D’Arrigo, dopo un ventennio di faticosa gestazione. Come se a scriverlo fosse stato il Ludovico Sanna del Giorno del giudizio, uscito dalla penna del grande giurista sardo, pubblicato a sua volta (postumo) nel 1977.
Il mezzo secolo che viene sarà pure per chi scrive: altra coincidenza, questa però del tutto infinitesimale e irrilevante[1].
Due romanzi, probabilmente i più importanti e misconosciuti del ‘900 italiano, accomunati da molte cose, su tutte i temi universali della Morte e dell’Isola: dove la Nuoro di Satta di fatto ci conduce e si conclude, col tragico breve ritorno di Peppino Sanna dalla Grande guerra, là lo Scill’e Cariddi di D’Arrigo si apre, con l’altrettanto tragico breve ritorno-nostos di ‘Ndria Cambrìa, nocchiero semplice della Regia marina, dopo la disfatta dell’8 settembre 1943.
È stato George Steiner, in un articolo pubblicato nel novembre del 2003 sulla sezione cultura del Corriere della sera, a cogliere per primo il legame tra i due fondamentali libri, dichiarandosi – da grande flâneur qual era – assieme dispiaciuto e privilegiato (per la scoperta): «per l’indifferenza degli italiani verso due dei loro più grandi maestri moderni» e «perché porto con me un tesoro condiviso solo da pochi».
- Quello che a taluni è apparsa come la Spoon River italiana è un romanzo quindi essenzialmente sulla morte, sul male, sull’odio, sulla famiglia, sugli altissimi spazi sopra Nuoro (le stanze restano chiuse anche per venti anni, fra topi e ragnatele, perché ci è morto Dio assieme al fratello arciprete). Quello di D’Arrigo, invece, si misura sui larghissimi spazi in largo che vanno dalle Isole Eolie a Malta e seguono i movimenti delle fameliche e terribili fere e dell’orcaferone, dalle prime addirittura “scodato” in uno dei passaggi più mitologici e assieme tragici del testo, metafore al quadrato di una società disfatta, decomposta, come l’immensa piaga purulenta dell’orca.
Ma Il Giorno del giudizio è anche l’opera di uno dei più importati processualisti italiani, che, come pochi, si è interrogato sul senso profondo dei rapporti fra azione, processo, giudizio, potere.
Ora, tra giudizio e processo intercorre una sostanziale differenza: mentre il secondo è attraversato da regole formali, il primo, non come processo ma come atto del giudicare, si distacca progressivamente dalla norma. E questo lo si coglie più nell’opera letteraria che in quella più propriamente giuridica (penso agli scritti contenuti nel Mistero del processo), perché è qui che si attenua la dimensione propriamente processuale e la trilateralità del processo diviene bilateralità: Don Sebastiano da una parte e Donna Vincenza dall’altra, i borghesi di Santa Maria da una parte e i derelitti di Sèuna (la Nuoro agricola e arcaica) dall’altra.
E sorge qui pure un discorso sul potere. Il giuspubblicista Filippo Satta, figlio di Salvatore, in un’intervista ricordava l’incomprensione del padre per le propensioni non civiliste del figlio, ma credo di poter dire che è proprio nell’alta letteratura, dove si dischiude il transito dal processo al giudizio/potere, che tale (ri)composizione sia avvenuta.
Perché se il giudice dispone performativamente della realtà, i personaggi del romanzo usano di fatto del potere. Il potere per Satta può trovarsi dovunque perché sta ove vi sia una posizione di forza rispetto a una posizione di debolezza. È questa un’idea – appunto eminentemente letteraria – del potere (ma si pensi anche alla dimensione etnoantropologica di Elias Canetti), che, in quanto tale, ha stentato a trovare spazio nella dogmatica giuridica. E ciò ha determinato una serie di stasi e incomprensioni. Il potere, infatti, non alloggia più adeguatamente nello schema teorico di Benjamin (potere-violenza), ancora presente in molti ragionamenti giuridici. Mi pare piuttosto sempre meno “transitivo” e sempre più “intransitivo”, secondo una linea di ricerca che va da Luhmann a Foucault, la quale consente forse di meglio sistematizzare le sempre più frequenti controversie che vedono contrapporsi il potere amministrativo autoritativo e i soggetti amministrati.
Qui si tocca pure il tema, tutto kafkiano, dell’essere “senza scopo” del processo. Emblematico lo spirito burocratico di cui è pervaso l’avvocato Ludovico Sanna, che in lui era «un modo di sfuggire all’azione», e poi alla vita, come nel lungo tragitto dal matrimonio al fidanzamento con donna Celestina.
Nella misura in cui il sentimento giuridico in Satta si coglie nella sua dimensione ultima, religiosa, l’elemento diabolico si manifesta nel senso dell’utile e dell’inutile. Si pensi allo splendido quadretto di Donna Vincenza che custodisce per l’ultimo nato di lei e Don Sebastiano (Sebastiano, come Salvatore da Salvatore) i fiammiferi spenti che Maestro Ferdinando usava per accendere i fanali a petrolio che avevano iniziato a illuminare le strade di Nuoro. Al contrario Don Sebastiano è uomo pervaso di scopi, ma che per questa ragione non ha senso. Inutile invece Dio e inutili i bambini, precisamente nel senso che danno Deleuze e Guattari alla filosofia, cioè di un’inutilità che serve a creare concetti.
La Nuoro del romanzo è una fitta microfisica del potere, non a caso proprio in quegli anni la traiettoria della concezione foucaultiana del potere si sposta dall’accezione conflittualista e ultraradicale della prima metà degli anni ’70, in cui si approfondisce soprattutto il disciplinamento, a quella neutrale e pragmatica della fine degli anni ’70 e dei primi anni ’80, in cui si esplora invece il potere governamentale, più pervasivo e multiforme. Di fronte a un potere così pervasivo, pervasivo perché non gerarchico, si coglie pure il profondo antiformalismo di Satta, che si incunea tra le pareti, le corti, le tanche della sua Isola, alla disperata ricerca di un senso.
Il tramonto del giuspositivismo nel Giorno del giudizio si misura con un’idea rinnovata di scienza del diritto, che viene dalla letteratura ma va a impattare nuovamente sulla scienza giuridica stessa. L’idea, presente pure nel pensiero di Carnelutti e Capograssi, di un’interpretazione giuridica non finalizzata tanto a cogliere la realtà oggettiva della norma, quanto quella soggettiva, all’interno della quale l’azione umana viene ad operare. Se l’interpretazione giuridica consiste nel mostrare che c’è nella norma di più di quello che appare, e dunque invece del processo c’è il giudizio e c’è il potere, allora si può dire che la letteratura e il diritto trovano nel capolavoro del 1977 una sintesi formidabile, forse unica.
- In modo più velato ma altrettanto magnifico, e titanico, l’opera-mondo di D’Arrigo fa emergere un altro aspetto della mancanza di senso che segue la Guerra mondiale, questa volta il secondo conflitto. Qui il potere è imploso, le istituzioni cancellate, tutto è devastazione e potere all’incontrario: dalle femminote calabresi che contrabbandano il sale e umiliano gli uomini, allo Stretto in cui non si consuma più la secolare lotta tra pellisquadre e fere, perché queste ultime governano incontrastate tra la Sicilia e la Calabria in un mare ribollente di sangue, carcasse e detriti.
Non è questa la sede per parlare dell’importantissimo esperimento linguistico (non da scrittore sperimentale: D’Arrigio si offenderebbe) cosmopolita, molteplice, polifonico (“vis à vis”, “pour parler”, “ferribò”); quello che interessa è, piuttosto, mettere in luce come la fame e la disperazione lasciate dalla guerra abbiano nel romanzo fatto perdere ai pescatori la loro antica dignità, come si mostra nelle tante scene di accaparramento e cucina del disgustoso delfino (appunto, la fera) e delle sue interiora. Né è importante riproporre le infinite connessioni che sono state fatte con Omero, Melville, Joyce, e aggiungerei per parte mia Malaparte, pensando alla fantasmagorica collocazione della Sirena (qui calabro-sicula, là partenopea), in uno scenario di degrado di valori post-bellico.
Il punto centrale che interessa è piuttosto quello di evidenziare una, eguale e contraria, speculare rispetto al Giorno del giudizio, figura di carenza di potere. Dall’ormai deposto M. (il Duciamaro delle femminote), trasformato in latrina che percorre una Cariddi stremata e selvaggia, alla centralità dell’Am-lira messa in circolazione dall’Amgot, svuotamento del potere di battere moneta, fino alla ambigua figura del Maltese, toponimo (come molti nel libro) di un anarchismo anomico, di un’utopia rovesciata. A ‘Ndria preme soprattutto colmare, nominando, questo vuoto di senso, che gli viene sin dall’infanzia, da quando nelle notti di carestia i genitori diventavano l’Acitana e il Granvisire. Poi, nei rari momenti del “presente” del libro, torna l’esigenza di nominare: si pensi alla lunga scena in cui si passa in modo allucinato e onirico dalla “varca” alla “vara” fino all’ “arca” nel dialogo con uno spaesato e quasi afasico Luigi Orioles, altro modello di potere e di istituzione perduta, sul fronte degli antichi pellisquadra, ormai irrimediabilmente corrotti dalla catastrofe bellica.
Non che la scelta linguistica non c’entri, beninteso, nella misura in cui non tanto l’uso del dialetto, quanto l’uso del non-italiano, entra in collisione con l’uso dell’italiano, impiegato negli anni ’50 come seconda lingua proprio dalla burocrazia ministeriale o da parte dell’intellettuale (come dimostra la polemica con Vittorini, che voleva sostenere D’Arrigo, ma dentro la politica culturale della sua rivista, il Menabò).
Anche qui, dunque, una disperata ricerca di senso, simbolicamente incarnata dalla mostruosità dell’orcaferone, e dal dilemma che riguarda la bestia immortale (ma sempre morente): spiaggiare o non spiaggiare, fra definitiva abiezione e rilancio dei valori di una comunità.
- È stato ricordato in un pregevole recente lavoro di Alessandro Cioffi pubblicato sulla rivista Diritto amministrativo che nel 1946, qualche anno dopo “i fatti della fera”, per dirla col primo nome del romanzo di D’Arrigo, Santi Romano nei suoi Principii, adottando la sua visione della pluralità degli ordinamenti giuridici, formulava la tesi per cui la libertà non è più un’implicazione dell’individualismo, ma riflette la società, il pluralismo, la Costituzione. Non è un caso che il recente doppio lavoro di Vincenzo Caputi Iambrenghi, che dialoga proprio con Capograssi (come ha ricordato anche Giancarlo Montedoro), si intitoli Libertà e Autorità e non con il richiamo alla più convenzionale opposta coppia concettuale gianniniana.
Credo che da qui si possa ripartire per provare a cogliere il senso profondo della solitudine del potere, in Satta, e dell’assenza di Potere, in D’Arrigo. Dal loro essere espressione, magnifica e priva di compromessi, di un “Novecento arcaico” che andava scomparendo ma senza trovare, nei mari aperti e sommozzati o nelle stanze sprangate, ante-visioni di senso, anche giuridico e istituzionale.
In buona sostanza Satta e D’Arrigo mi sembrano riflettere le altrettante speculari visioni di Foucault e Arendt: se il primo critica le istituzioni perché repressive del libero corso della vita, la seconda individua nella vita biologica la forza irresistibile che dissesta le istituzioni, consegnandole alla violenza.
Una via di uscita filosofica da questa impasse, che non a caso si avvale proprio dell’apporto della scienza giuridica, è quella di Roberto Esposito, che ha rielaborato la nozione di “pensiero istituente”, in cui si tenta una ricomposizione tra vita e istituzione, drasticamente separate proprio dalla figura del potere.
Si prospetta qui la possibilità di ripensare la categoria oggi usata e abusata della biopolitica, superando quella divaricazione latente tra quello che ad alcuni appare potere assoluto sulla vita e ad altri una vita libera da ogni potere. Bisogna, quindi, integrare il paradigma istituente e quello biopolitico in modo produttivo per entrambi.
Si prenda ad esempio la categoria dei beni relazionali, in passato indagata da amici di D’Arrigo quali Salvatore Pugliatti e Angelo Falzea e oggi riproposta da Vittoria Berlingò. Si tratta di nuove entità, non strettamente economiche, le cui modalità di godimento possono essere orientate in una direzione non più esclusivista ma plurima e/o solidale. Insomma: quelle risorse immateriali specifiche di un rapporto di reciprocità/prossimità e da questo inscindibili, capaci di rendere più produttivi gli incontri tra soggetti dotati di sensibilità comunicativo-affettive impegnate (e consumate) nel corso dell’interazione stessa.
Non è un caso che esista la Fondazione Horcynus Orca (che vede tra i suoi membri le due Università che si affacciano sullo Stretto), nata anche per elaborare, promuovere e sperimentare nuovi approcci economico-sociali capaci di andare oltre i paradigmi dominanti che guardano all’uomo come macchina relazionale perfettamente egoista, per immaginare visioni e pratiche per oltrepassare il pensiero unico che ha creato una separatezza fra l’economia e le altre dimensioni del sapere e dell’agire umano (sperimentando, ad esempio, modelli di welfare di comunità intrecciati a forme di economia civile e produttiva che generano capitale sociale e libertà strumentali ai più fragili). E gli strumenti oggi senz’altro ci sono: basti pensare al rilancio della coprogrammazione e coprogettazione (artt. 56 e 57 d.lgs. n. 117/2017) impresso, dopo una non collimante giurisprudenza costituzionale e amministrativa, dall’art. 6 del Codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 36/2023), intitolato “Principi di solidarietà e di sussidiarietà orizzontale. Rapporti con gli enti del terzo settore”.
Donna Vincenza con la sua disperata e cieca discesa verso il mare, Ciccina Circè con la sua traversata quasi in trance attraverso il mare nero e con la campanella che avvicina le fere e allontana i morti ammazzati dalla guerra, su tutti il suo Beffettuzzi, ci dicono che l’homo oeconomicus può essere superato, sublimato, che il potere non è necessariamente contro la vita, che esiste una biopolitica affermativa che concilia vita biologica, ambiente e istituzioni. Queste appaiono così lontane, a Messina come a Nuoro, ma possono essere così vicine, se solo ‘Nrdria attraversa lo Stretto e torna a casa con la barca degli inglesi (con il colpo di fucile che non esplode; del resto, ogni finale può essere riscritto, come ci ha magnificamente mostrato Marco Bellocchio con Aldo Moro) e Gonaria apre finalmente quella porta dove Dio si nasconde per farci entrare l’innocente prostituta Giggia.
Femminismo, ecologismo, Donna Vincenza immobile e scheletrica, ‘Ndria Cambrìa sanguinante in fronte nella regata finale di un impossibile ritorno, poco sposta, poco cambia: bisogna avvicinare vita e istituzioni, affinché gli estremi opposti finalmente si tocchino, si parlino, nella lingua di un nuovo diritto ricomposto e consapevole delle profezie dei due nostri bardi. Scrittori, ma anche colti giuristi-cultori delle istituzioni, in modo più o meno consapevole.
Salvatore Satta, Stefano D’Arrigo: un immenso giurista-scrittore, un immenso scrittore-scrittore: così lontani, così vicini, come lo Scill’e Cariddi.
Giuseppe Tropea
[1] L’autobiografia qui vale solo per un piccolo aneddoto. Molto tempo fa incontrai, alla fine di un suo concerto a Bologna, un famoso cantautore siciliano, scomparso di recente, e incautamente per ingraziarmelo gli accostai siciliani e calabresi. Fu un grave errore. Ma forse un calabrese può provare a incrociare Sardegna e Sicilia con maggiore agio, vista l’assonanza di talune questioni e topoi di fondo (e al netto, naturalmente, della pur fondamentale incolmabile isolanità). Del resto, il protagonista di Orcynus Orca trascorre quasi un terzo del libro sulle coste tirreniche della Calabria (e pare pure Ulisse l’abbia fatto).