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La Consob, ieri e oggi

di - 14 Novembre 2024
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La Consob, ieri e oggi*

 

La crisi di Borsa del 1907 e la fuga dei capitalisti privati negli anni Trenta avevano costretto Donato Menichella a puntare sulle banche pubbliche e non sui mercati. La finanza da lui costruita alimentò il miracolo economico trasferendo all’investimento una enorme mole di risparmio. Tuttavia era costosa. Inoltre gli shocks che poi sopravvennero – salari, petrolio, disavanzi pubblici – richiedevano alla finanza più alta capacità selettiva, oltre a minori costi.

A differenza della infelice battuta di Giuliano Amato, già nel 1988 la finanza italiana era tutt’altro che pietrificata, non solo nelle falde sotterranee meno visibili a un occhio inesperto. La riforma – una “difficile metamorfosi” – si articolò lungo il ventennio 1980-2000: concorrenza; mercati, oltre alle banche; da pubblico a privato; più operatori, più modalità organizzative, più strumenti; apertura internazionale; sistema dei pagamenti; risparmio delegato. In breve, si ebbero maggiori volumi intermediati e migliore allocazione di fondi e rischi. Il TUB e il TUF sancirono la riforma. Nonostante le limitate risorse di cui ancora oggi dispone, la Consob ha ben presidiato la metamorfosi nella componente dei mercati, la meno avanzata. Nella Consob devo ricordare Puccio Zadra che tanto fece per l’istituzione, da Via Nazionale considerata, se non sorella, cugina della Banca d’Italia, anch’essa impegnata in prima linea nel disegno complessivo della riforma oltre che nella sua attuazione.

Mie stime in Banca d’Italia riscontrarono che il superamento del sistema menichelliano aveva contribuito per lo 0,3% l’anno a un Pil pro-capite che fra il 1985 e il 1998, pur rallentando, ancora cresceva. Dati i ritardi con cui le nuove strutture dispiegano i loro effetti, per il nuovo secolo ci si poteva attendere un esito finanche più lusinghiero. Ma dal 2000 la nostra economia è ferma. Il Pil pro capite s’è bloccato, sebbene grazie anche alla Consob la finanza si sia consolidata.

V’è da chiedersi perché una finanza progredita e in ulteriore progresso abbia coinciso col ventennio economico più deludente dal tempo di Cavour. La risposta assolve la finanza e stigmatizza le responsabilità di governi e imprese. I governi di ogni colore, politici e “tecnici”,

non hanno risanato il bilancio

non hanno investito in infrastrutture, tagliandole

non hanno corretto la distribuzione del reddito

non hanno attuato una politica per il Sud

non hanno imposto alle imprese la concorrenza

non hanno espresso né un diritto dell’economia organico e moderno né una   pubblica amministrazione funzionante

non hanno respinto l’assurda equiparazione di Bruxelles fra la spesa pubblica          corrente e quella in conto capitale: “a silly thing” avrebbe detto Keynes.

Le imprese, al di là delle recessioni, hanno realizzato utili. Sono stati alimentati da cambio sottovalutato sin dal 1992, stasi salariale sin dal 1993, concorrenza sempre limitata. Sono altresì derivati, per centinaia di miliardi all’anno, da sussidi statali, negozi giuridici favorevoli a fornitori, appaltatori, concessionari e svantaggiosi per lo Stato, tollerata evasione, economia in nero per oltre il 10% del Pil. Con profitti “facili” le imprese hanno potuto scegliere di investire meno che in passato e di non innovare. Gli utili si sono spesso tradotti in dividendi, alleggerimento del leverage, acquisizione di attività finanziarie.

Stock di capitale eroso al netto degli ammortamenti e vuoto di progresso tecnico si sono incistati sulle disarmonie del sistema produttivo. La sterminata palude delle unità con pochi dipendenti è mera spugna di occupazione. I grandi gruppi si contano ormai sulle dita di una mano. Le medie aziende competitive si autofinanziano, stentano ad ampliarsi, temono per il controllo, si affidano agli eredi dei proprietari. Esitano quindi a quotarsi sebbene, sollecitata dalla Consob, la Borsa abbia innalzato ai livelli internazionali la sua efficienza, tanto operativa quanto informativa.

Dopo il rimbalzo post-covid basato sui sostegni pubblici e drogato dal “superbonus” la crescita di trend è quindi ripiombata sullo zero virgola per cento l’anno. La crescente domanda di lavoro riflette sostituzione di investimenti con manodopera e bassi salari. L’occupazione aumenta più del Pil, quindi a scapito della produttività. Il governo in carica non ha una strategia per fuoruscire da una crescita che sfiora il ristagno. Mira a rivedere il TUF, per rafforzare il mercato dei capitali semplificando adempimenti, riducendo oneri, dando trasparenza ai controlli. L’intento è lodevole, purché non si avalli la caccia da parte di gruppi non finanziari ai posti di comando nei consigli d’amministrazione di banche e assicurazioni.

Il Rapporto Draghi denuncia debolezze dell’economia europea, ma avanza per 800 miliardi annui di improbabile debito comune proposte né praticabili né risolutive. L’Europa non deve cedere ad autarchia e protezionismo, né spendere per armamenti e per politiche settoriali che collidono con l’economia di mercato. Deve creare un contesto, promuovere la concorrenza, effettuare investimenti pubblici ad alto moltiplicatore di domanda e di produttività.

Esprimo infine preoccupazione per le pressioni sulle banche centrali affinché abbattano i tassi d’interesse. I tassi a breve di policy sono sul 4,5% negli Stati Uniti e sul 3,25% nell’Eurozona. A fronte dell’inflazione core i tassi reali restano rispettivamente sull’1,2% e sullo 0,25%. L’esperienza del prezzo reale del danaro oltremodo basso, o addirittura negativo, è perniciosa. La domanda globale si sostiene con investimenti pubblici in utili infrastrutture, non con tassi reali dell’interesse negativi.

La politica monetaria deve anticipare, non seguire, l’inflazione. A mio avviso la possibilità che l’inflazione risalga è sottovalutata, persino dal Fondo Monetario. Nell’anno elettorale l’economia degli Stati Uniti è di nuovo surriscaldata. Il tasso di disoccupazione non supera il Nairu ed è pericolosamente vicino al tasso naturale. L’utilizzo della capacità produttiva resta non lontano dall’80%. Rispetto a un Pil di 29 trilioni di dollari il deficit di bilancio va ad attestarsi sui 2 trilioni e il debito pubblico sui 40 trilioni. Nella proiezione decennale la spesa pubblica proposta dai candidati alla Presidenza aggiungerebbe al debito 3,5 trilioni nel caso della Harris e non meno di 7,5 nel caso di Trump: un grave rischio e una follia, rispettivamente. Fino agli anni Trenta del Novecento l’Inghilterra, paese leader, fu in avanzo di bilancia dei pagamenti di parte corrente e finanziò il resto del mondo. Gli Stati Uniti, invece,  continuano a vivere a spese del resto del mondo. La loro bilancia dei pagamenti correnti è da mezzo secolo in disavanzo, nel 2024 prossimo al trilione di dollari. La posizione netta verso l’estero ha cumulato un passivo di 23 trilioni (tre quarti del Pil). La tenuta della valuta di riserva è nelle mani della Cina, la “nemica” creditrice in dollari americani.

Come nel 2021, quando fu contrastata dalla Fed con un anno di ritardo, l’inflazione USA si diffonderebbe da un’economia che per dimensione (15% del Pil mondiale) è seconda solo a quella cinese. Le guerre in atto e le spese militari eccitano la domanda globale e restringono l’offerta. L’offerta è altresì frenata dai rigurgiti di protezionismo – persino europei – e dalle tensioni geopolitiche che frantumano e distorcono la rete degli scambi, oltre a minare la cooperazione internazionale. Si aggiunga che, come diceva Robert Solow per i primi computers, almeno sinora l’intelligenza artificiale appare dappertutto tranne che nella produttività totale dei fattori (cito Phelps). Questa è da anni in rallentamento anche negli Stati Uniti (cito Gordon), sebbene l’intelligenza artificiale lì sia all’avanguardia.

Le banche centrali fronteggiano una “funzione di perdita” asimmetrica. Se sbagliassero tagliando ulteriormente i tassi a breve la loro credibilità sarebbe minata più di quanto accadrebbe se sbagliassero mantenendo i tassi invariati. Occorre prevenire un duplice shock internazionale: domanda aggregata in aumento, offerta aggregata in diminuzione. Se la politica monetaria verrà percepita dai mercati come permissiva l’inflazione tornerà, i tassi a lunga saliranno, la bolla borsistica imploderà, le economie cadranno in recessione.

Confido, naturalmente, di essere smentito dai fatti…

 

                                                          Pierluigi Ciocca, Accademia dei Lincei

 

  • Intervento conclusivo al Convegno sui 50 anni della CONSOB, Università La Sapienza, Roma, 24 Ottobre 2024

 

 

 

 

 

 

 

 


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