La questione economica dell’Europa, e dell’Italia
Una difficoltà dell’Eurozona è nella crescita deludente del reddito e del benessere materiale. Nonostante il successo della moneta unica, dal 2000 la bassa crescita ha allontanato molti cittadini dal sogno di una Europa coesa e democratica. Anche per questo pullulano rigurgiti di nazismo e fascismo, la partecipazione al voto scende e la stessa democrazia è in sofferenza.
Il corposo Rapporto firmato da Mario Draghi denuncia le note debolezze del sistema produttivo europeo. Ma sopravvaluta rispetto a quella europea l’indebitata, surriscaldata, economia americana. Soprattutto, le tante proposte che contiene non sembrano né risolutive né praticabili. Il Rapporto ipotizza per 800 miliardi di euri all’anno il ricorso a un debito europeo centralizzato, che Germania e satelliti non accetteranno mai. Proietta al futuro uno scenario geopolitico conflittuale, se non bellico, che un economista deve respingere. L’antidoto alle guerre è nel commercio fra le nazioni. Oltre che su investimenti infrastrutturali le proposte invece si imperniano su: spese militari, che riducono l’offerta di beni e servizi; autarchia, con i produttori nazionali sussidiati; politiche industriali, che in una economia di mercato capitalistica sono velleitarie e invasive; Chiusura e protezionismo nei confronti delle fonti d’energia e delle merci fornite a costi bassi dalle “nemiche” Russia e Cina.
La cautela deve estendersi alle potenzialità produttive salvifiche attribuite dal Rapporto alle tecnologie informatiche. Dall’ICT all’intelligenza artificiale gli Stati Uniti sono all’avanguardia su questi fronti. Ma, come avvenne con i computers (Solow), l’effetto sull’intera economia è incerto. Negli USA la produttività totale dei fattori è esplosa all’interno del ramo informatico, ma non si è ancora diffusa (Phelps) e nell’intero sistema tende da anni a rallentare (Gordon). Occorrono tempi non brevi e investimenti, privati e pubblici, per recepire le nuove tecnologie e per l’addestramento di chi opera nei settori non informatici.
La realtà è che nei principali aspetti di stretta competenza della mano pubblica l’economia europea è stata per oltre vent’anni mal gestita, frenando la crescita. Lo è stata ancor più l’economia italiana, essendosi sperimentate tutte le maggioranze possibili con gli esecutivi politici e “tecnici”, fino all’attuale governo di destra.
Ciò che per la crescita la mano pubblica dovrebbe fare, e con urgenza, in Europa e in Italia è più semplicemente riducibile a tre obiettivi intermedi:
- Assicurare che la domanda effettiva sia in linea con la capacità produttiva (dal 2000 è stata tendenzialmente inferiore).
- Effettuare massicci investimenti pubblici “buoni”, cioè utili ai cittadini e ad alto moltiplicatore della domanda come pure della produttività del sistema (dal 2000 sono risultati spesso negativi al netto degli ammortamenti).
- Imporre alle imprese la concorrenza (dal 2000 non si è intensificata, in singoli paesi è scemata).
L’errore degli errori imputabile alle raffinate menti di Berlino e di Bruxelles è stato perpetuato pervicacemente fino al pasticciato compromesso “Gentiloni”. L’errore è consistito nell’equiparare le spese pubbliche in conto capitale a quelle in conto corrente. Ne è derivato il taglio degli investimenti pubblici su base lorda e spesso anche su base netta in settori chiave dell’economia e della società civile. Ai fini del rispetto del vincolo di bilancio in termini di perdita di consenso è parso alla classe dei politici e dei burocrati meno rischioso ridurre gli investimenti piuttosto che ridurre le uscite correnti e aumentare le entrate correnti.
Contro il debito pubblico l’Europa ha puntato sul contenimento del flusso dell’indebitamento netto complessivo (G-T). Ha insistito molto meno su una migliore composizione sia della spesa (G) sia della imposizione fiscale (T). Invece, come Keynes ha chiarito, se il conto corrente del bilancio non crea nuovo debito perchè è con rigore tenuto in equilibrio, ovvero in surplus, i buoni investimenti della PA al di là del medio periodo possono anch’essi non generare nuovo debito. Ciò avviene se quegli investimenti accrescono reddito e quindi gettito fiscale così da autofinanziarsi. Il duplice assunto – non irrealistico – affinchè ciò si verifichi è che l’effetto moltiplicativo degli investimenti pubblici sul Pil sia nell’ordine di 2 e l’elasticità al Pil del rapporto fra disavanzo e Pil sia nell’ordine di 0,5. In questo caso 1 di maggiore investimento pubblico accresce il Pil di 2 e il maggior Pil riduce di 1 il disavanzo in rapporto al Pil, coprendo nel medio periodo la spesa per l’investimento iniziale. Allora, rispetto al Pil in aumento si ridurrà gradualmente un debito pubblico che in valore assoluto non nasce più né dal conto corrente né dal conto capitale del bilancio. I mercati apprezzeranno e pretenderanno minori premi al rischio, con riduzione degli spreads e della spesa per interessi.
Insieme con la politica monetaria la manovra degli investimenti pubblici è in grado di curare l’equilibrio ciclico fra domanda e offerta globali, così come di potenziare lo sviluppo dell’economia nel tempo. Sul fronte monetario la condizione è che, a differenza di quanto richiede l’attuale statuto, la BCE sia chiamata al “doppio mandato”: stabilizzare non solo i prezzi ma altresì l’occupazione.
Infine è essenziale che le imprese europee operino in concorrenza. Quelle americane sono sempre più oligopoliste, con casi numerosi di posizioni dominanti (Philippon). Ma le imprese europee sono spesso sostenute finanziariamente e protette dagli Stati nazionali, con sussidi e dazi all’importazione. Devono invece essere indotte a ricercare il profitto investendo e innovando per accrescere la produttività, languente. A un antitrust efficace deve unirsi il venir meno delle facilitazioni ai profitti e della protezione dalla concorrenza estera.
Insieme ad altre misure[1] l’economia italiana trarrebbe speciale beneficio dal raggiungimento dei tre obiettivi utili all’intera Europa.
Il bilancio pubblico va a chiudere il 2024 con un indebitamento netto non lontano dagli 85 miliardi (4,4% del Pil) e con un rapporto debito/Pil prossimo al 140%. Secondo la lettura del debito risalente a Evsey Domar, che è prevalsa su quella di Keynes, è confortante che il saldo primario – al netto di una spesa per interessi sul debito dell’ordine di 85 miliardi (4% del Pil) – sia solo lievemente in deficit. Secondo la lettura di Keynes, qui preferita, è ancor più confortante che sia in lieve surplus la parte corrente del bilancio. Il disavanzo è quindi concentrato nella parte in conto capitale. A propria volta nel conto capitale una quota delle uscite ancora ampia è scaturita dai crediti d’imposta relativi al “superbonus 110%” in favore dell’edilizia. Questa follia demagogica nel solo 2023 ha comportato circa 80 miliardi di uscite (poco meno del 4% del Pil). Nel 2024 la spesa per investimenti “veri” in infrastrutture dovrebbe ammontare a circa 75 miliardi (3,4% del Pil), mentre la restante parte del deficit in conto capitale si aggirerebbe sui 40 miliardi.
Il mero venir meno del “superbonus”, di per sé, ridurrebbe l’indebitamento netto verso cifre più ragionevoli. Se gli investimenti pubblici in infrastrutture dessero i frutti sperati in termini di maggior Pil e di maggiore gettito fiscale il debito pubblico si stabilizzerebbe per poi decrescere rispetto al Pil. Ciò avverrebbe tanto più quanto più gli investimenti e le riforme previste dal PNNR – a valere sui 194 miliardi accordati dall’Europa (oltre il 9% del Pil del 2023), da impiegare entro il 2026 – verranno accelerati (annualmente, tra il 2021 e il 2023 non hanno superato l’1% del Pil); si rivolgeranno a sanità, sicurezza dell’ambiente e del territorio, istruzione e ricerca; si concentreranno nel Sud, dove sono più urgenti e produttivi. Sono, queste, le finalità cruciali per l’economia e per la vita degli italiani.
Fra il 2009 e il 2018 gli investimenti pubblici, comprese le infrastrutture, erano stati tagliati dal 3,6% al 2.1% del Pil. Nel 2019-2024 hanno solo riavvicinato il rapporto al Pil del 2009, rapporto che è da superare nel prossimo futuro, sia nel quadro del PNNR sia al di fuori di esso.
Il Pil pro capite dell’Italia versa in una stasi ventennale. Rispetto a un Pil ristagnante gli investimenti lordi in beni strumentali, privati e pubblici, sono scesi dall’11% del 2000 all’8% nel 2013. Ancora nel 2023 superavano appena il 10%. Al netto degli ammortamenti nel 2011-2020 sono risultati spesso negativi, logorando lo stock di capitale, e rispetto al Pil (1,7%) sono tuttora inferiori al valore di vent’anni prima (2,2%). La produttività totale dei fattori, che approssima il progresso tecnico, è ferma al 1995!
Nell’ultimo quarto di secolo le imprese italiane hanno investito molto meno che in passato e non hanno innovato perché realizzavano comunque profitti. Gli utili si sono ampiamente risolti in dividendi, riduzione dei debiti, acquisizione di attività finanziarie. Oltre a un livello del cambio strutturalmente sottovalutato sin dal 1992 e alla “moderazione” salariale sin dal 1993, i profitti sono stati consentiti dalla debolezza della concorrenza e ancor più da un legame malato con la PA: sussidi alla produzione e agli investimenti per decine di miliardi all’anno; forniture, appalti, concessioni per altre decine di miliardi all’anno a condizioni di favore; evasione di imposte per decine di miliardi all’anno; attività produttive consentite “in nero” per il 10% del Pil.
E’essenziale una gestione delle spese e delle entrate statali che non sia corriva con gli interessi del mondo degli affari. Se i sussidi, i contratti di favore, l’evasione, il “nero” si ridurranno si consolideranno le pubbliche finanze e si intensificheranno gli stimoli affinchè le imprese tornino ad affidare la ricerca dell’utile all’accumulazione di capitale e al progresso tecnico. Ulteriori stimoli deriverebbero da una dinamica meno arrendevole dei salari. E’altresì necessaria un’azione antitrust incisiva, in termini economici oltre che giuridici, per alimentare la concorrenza fra le imprese e tutelare i consumatori. Si pensi soltanto ai residenti anziani e ai turisti quotidianamente alle prese nella capitale d’Italia con la lobby monopolistica delle auto pubbliche. Su una popolazione romana di quasi 3 milioni gli ultra cinquantenni sono 1,3 milioni, di cui poco meno di 700mila ultra sessantacinquenni. I turisti che visitano la città eterna superano i 15 milioni, con oltre 35 milioni di presenze all’anno. Non tutti sono in grado di usare autobus e metropolitana, pur essi inadeguati, né tampoco di spostarsi a piedi, in una area urbana con venti chilometri di diametro.
[1] Cfr., in linea con quanto da anni hanno proposto gli economisti più qualificati, P. Ciocca, Tornare alla crescita. Perché l’economia italiana è in crisi e cosa fare per rifondarla, Donzelli, Roma, 2018