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L’economia, oggi: cos’è, cosa dice*

di - 1 Ottobre 2024
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La scienza economica, oggi: cos’è, cosa dice*

 

La scienza dell’economia attuale è recente. Coincide con l’analisi del capitalismo, il sistema produttivo in cui viviamo, che negli ultimi due secoli si è affermato ovunque nel mondo, comprese la Russia, la Cina, l’India, l’Africa. Forse manca la Corea del Nord…

Il sistema è imperniato sul profitto ricercato dai capitalisti privati investendo il loro danaro in imprese che producono merci per il mercato. Le imprese pagano un salario ai lavoratori. I lavoratori sono giuridicamente liberi. Ma, non possedendo altro, per vivere devono vendere il loro lavoro. Le imprese lo comprano se prevedono che il ricavato dalle merci prodotte supererà il costo. Se alle imprese non conviene assumere i lavoratori restano disoccupati, con pesanti costi umani.

Vi erano stati precedenti. Sin da Babilonia con Hammurabi nel 1700 avanti Cristo, poi con Senofonte e Aristotele, si era cercato di analizzare i sistemi che nei millenni hanno preceduto il capitalismo, i modi di produzione che si sono avvicendati anche attraverso gli scambi e il mercato: dalla caccia-raccolta all’economia consuetudinaria attraverso la Rivoluzione agricola del neolitico, quindi il latifondo e gli schiavi, il feudalesimo e i servi della gleba, il Mercantilismo dei primi traffici fra paesi, il lavoro salariato a domicilio. Ma l’origine dell’analisi economica moderna è anglosassone e si situa nel cinquantennio a cavallo del 1800. Quel cinquantennio vide, insieme, l’emergere del capitalismo con la Rivoluzione industriale in Inghilterra e la riflessione seguita al capolavoro dello scozzese Adam Smith, apparso nel 1776 con l’ambizioso titolo “Un’indagine sulla natura e sulle cause della ricchezza delle nazioni”. Smith, da filosofo, si situava nel filone individualista e liberale. Il filone era stato aperto nel mondo anglosassone da John Locke nel Seicento, quando si dubitò del pessimismo di Hobbes, col suo Stato-Leviatano. Lo stesso filone venne poi sviluppato nel Settecento dell’Illuminismo, in particolare da David Hume. Hume, anch’egli scozzese, era amico personale di Smith e ne lodò il libro prima di morire.

La battuta, quindi, è che “in economia tutto cominciò con Adamo”, come la Creazione. Il libro di Smith fissa le tematiche del capitalismo che tuttora impegnano gli economisti. Smith constatò che l’individuo, anche il meno altruista, “guidato da una mano invisibile, perseguendo il proprio interesse spesso promuove quello dell’intera società” (Wealth of Nations, Book IV, Chapter II). Con la divisione del lavoro fra i diversi compiti si produce di più. Smith ammetteva sia il mercato sia l’intervento dello Stato. Lo Stato regola il mercato e offre ai cittadini infrastrutture – la pubblica amministrazione, la sicurezza, le vie di comunicazione, la cultura – in cui i privati non ritengono conveniente investire.

Smith attribuì il valore delle cose, che chiama prezzo “naturale”, al lavoro. Il suo libro comincia con queste parole: “Il lavoro è la fonte da cui ogni nazione trae in ultima analisi tutte le cose necessarie e utili della vita”. Sulla scia di Smith ai primi dell’Ottocento fra i grandi classici inglesi (Robert Malthus, David Ricardo, Henry Thorntorn, John Stuart Mill) alcuni, seguiti poi da Karl Marx, cercarono di sviluppare una teoria del valore-lavoro.

I classici dimostrarono che il libero commercio internazionale arricchisce le nazioni, dato che importare un bene da un altro paese può essere più vantaggioso che produrlo in casa. L’autarchia, i dazi doganali, il protezionismo impoveriscono le nazioni. Il commercio con l’estero è il miglior antidoto contro la guerra. Con la guerra il bottino nell’immediato arricchisce la nazione vincitrice. Ma, alla lunga, le guerre rendono le nazioni perdenti sul piano economico. Al di là delle distruzioni e delle vittime le spese militari non soddisfano i veri bisogni dei cittadini. Se si commercia non ci si combatte.

Per i classici la funzione del profitto è cruciale. Il profitto consente ai capitalisti di reinvestire in capitale produttivo: strumenti, macchinario, professionalità di chi produce. Tra profitto e salario, tra capitalisti e lavoratori, v’è tuttavia conflitto: se più prodotto va al lavoro, ne va meno al capitale.

Il conflitto – la lotta di classe secondo Marx- venne rimosso dagli economisti successivi, detti non a caso neo-classici. Negli ultimi decenni dell’Ottocento essi ricondussero il valore delle merci, non al lavoro necessario a produrle, bensì alla loro scarsità e utilità, misurate nel mercato dai rispettivi prezzi. L’aria è indispensabile, ma è alla portata di tutti. Quindi il suo prezzo è zero. Il diamante è inutile, ma piace alle signore ed è rarissimo. Quindi il suo prezzo è alto. Analogamente, se il lavoro abbonda rispetto al capitale e la produttività del lavoro è bassa, il mercato comprime il prezzo del lavoro – il salario – a favore del profitto.

I massimi economisti neo-classici – il francese Leon Walras e l’italiano Vilfredo Pareto – per via matematica argomentarono che il sistema basato sul mercato non solo funziona, ma è armonico. Il coordinamento delle scelte soggettive di milioni di individui è affidato ai segnali espressi dai prezzi che si formano sui mercati. L’acquisto di un bene o di un servizio è sconsigliato se il prezzo è alto o sale, è incentivato se il prezzo è basso o scende. Soprattutto, non vi sarebbe conflitto di classe. Ciascuno otterrebbe ciò che preferisce come consumatore e quanto gli spetta in base al suo contributo alla produzione. Il sistema, infine, tenderebbe a un equilibrio ottimale, raggiunto il quale nessuno può ulteriormente avvantaggiarsi se non a danno di qualcun altro. Con buona pace di Marx, che antevedeva e auspicava la fine del capitalismo, non vi sarebbe motivo di cambiare il sistema.

In effetti è il capitalismo che ha cambiato il mondo, economicamente in meglio. Prima del capitalismo, per millenni, il benessere materiale dell’umanità era progredito molto poco. Malthus capì e verificò che la crescita della popolazione tendeva a superare la crescita della produzione, inchiodando i redditi al minimo per sopravvivere. Ancora nel 1820, per un miliardo di abitanti della terra, il reddito medio era meno di 2 euri al giorno, nemmeno un panino di oggi. Pochi ricchi fondavano sul potere politico, militare, religioso i loro enormi patrimoni. La massa era povera. Attualmente, invece, il reddito pro capite degli otto miliardi di esseri umani sfiora i 30 euri al giorno, con un aumento di 15 volte rispetto a due secoli prima. L’analfabetismo è stato quasi ovunque debellato. Grazie all’alimentazione, all’igiene e alle cure mediche la vita media è balzata da 35 anni nel 1820 a oltre 70 anni (83 anni per gli italiani, fra i più longevi al mondo).

Questo formidabile progresso è dovuto all’investimento massiccio di capitale negli strumenti produttivi e nelle persone, ed è dovuto ancor più alle innovazioni: nuove idee, nuovi prodotti, nuovi sbocchi di mercato, nuove tecniche. Grazie alle innovazioni con le stesse risorse si è ottenuto un prodotto maggiore. Il meccanismo è stato teorizzato nel 1911 dal grande economista austriaco Joseph Schumpeter. Alcuni capitalisti concepiscono innovazioni, da applicare con profitto alla produzione. Se non dispongono di mezzi sufficienti li chiedono alle banche. Le banche – e le Borse – finanziano le imprese innovative di cui si fidano Per poterlo fare tagliano i prestiti in precedenza accordati alle aziende divenute meno competitive rispetto a quelle innovative. Una tale “distruzione creatrice” schumpeteriana è alla base dello slancio produttivo capitalistico.

Tutto bene, dunque? Assolutamente no.

Accanto al pregio inestimabile dell’accresciuta produzione il capitalismo si è storicamente dimostrato instabile, iniquo, inquinante. I primi due difetti vennero denunciati con particolare forza dall’economista inglese John Maynard Keynes fra le due guerre mondiali. Keynes era un genio, un misto di Cartesio per il rigore logico e di Freud per la visione delle umane motivazioni. Fu critico della teoria classica e ancor più di quella neo-classica.

Tuttavia, l’analisi neo-classica è sopravvissuta alle critiche di Keynes come pure a quelle ancor più radicali dell’italiano Piero Sraffa, il cui libro del 1960 era vicino agli antichi classici. In specie nel mondo accademico permane il convincimento neo-classico secondo cui l’efficienza dei mercati avrebbe la capacità di limitare al massimo i difetti del sistema.

Ma questo limitare al massimo non è risultato, nei fatti, accettabile.

Nell’economia mondiale – il primo problema – si sono sperimentati gravissimi episodi di instabilità: inflazione e deflazione dei prezzi; fallimenti a catena di banche e imprese; crolli di borsa; alta disoccupazione.

Inoltre – il secondo problema – il capitalismo ha favorito a dismisura gli abili e i fortunati. L’1% più ricco detiene quasi la metà del patrimonio dell’intera umanità. Mentre i miliardari nel mondo sono non più di tremila, ancora oggi circa 800 milioni di esseri umani sopravvivono a stento. Solo perché nata in Norvegia o in Svizzera una persona percepisce un reddito che supera di cento volte quello medio di chi è nato in Africa.

Infine – il terzo problema – l’abuso dei combustibili fossili (carbone, petrolio, gas) crea anidride carbonica, la cappa con effetto serra e quindi l’innalzamento della temperatura del Pianeta verso livelli che minacciano gli esseri viventi. Le imprese capitalistiche eccedono nell’impiegare le fonti d’energia inquinanti. Ciò avviene perché non includono nel calcolo dei propri costi i danni – le “esternalità negative” – che fanno ricadere sull’ambiente circostante. Se una fabbrica scarica le scorie nel lago la morte dei pesci infligge ai pescatori una perdita che non si arresta e non viene risarcita, a meno che non vi sia una norma o una responsabilità contrattuale che lo imponga.

Quindi non esiste una sola, indiscussa teoria economica, ma punti di vista diversi aperti alla critica e alle nuove conoscenze.

Tuttavia disponiamo di un insieme di proposte e di strumenti per governare l’economia e fare fronte ai tre difetti del capitalismo – l’instabilità, l’iniquità, l’inquinamento – salvaguardandone il pregio: la capacità di moltiplicare la “ricchezza delle nazioni”, come diceva Smith.

Compete allo Stato assicurare alle imprese il contesto giuridico e le infrastrutture, fisiche e immateriali, più favorevoli alla crescita dell’economia.

Se c’è inflazione si deve ridurre la spesa pubblica, aumentare le imposte, contenere la dinamica salariale e la quantità di moneta. L’aumento dei prezzi si calmerà se si pongono a freno sia la domanda globale di beni e servizi sia le aspettative di inflazione. Quando all’opposto c’è disoccupazione questa può essere riassorbita, non tagliando i salari, ma sostenendo la domanda di merci e di lavoro con investimenti pubblici, minori imposte, creazione di moneta.

Più tasse sui ricchi e l’istruzione gratuita migliore per i meno abbienti meritevoli renderebbero meno diseguale la distribuzione dei redditi. Agli aiuti pubblici spetta di sradicare la vergogna sociale della povertà estrema, che attualmente persiste persino nei paesi più sviluppati: trenta milioni di persone negli Stati Uniti, sei milioni in Italia!

Il clima va raffreddato ricorrendo a divieti, obblighi, tassazione delle fonti d’energia inquinanti. Chi inquina deve pagare. Con incentivi e disincentivi i combustibili fossili si possono sostituire con energia “verde” (solare, eolica, nucleare se sicura). La tecnologia moderna lo permette.

I movimenti internazionali di merci, capitali, persone hanno reso le economie strettamente integrate fra loro. Gli emigrati dai paesi poveri e turbolenti già superano i 400 milioni, rispetto a un miliardo di abitanti di Nord America, Europa, Giappone, i paesi più ricchi. Quindi le politiche economiche devono essere internazionalmente coordinate. I conflitti militari e le tensioni geopolitiche in corso stanno invece frantumando la cooperazione e i legami fra le nazioni. Si ripropone lo spettro del protezionismo. In particolare l’Occidente sta vietando le importazioni dalla Russia e dalla Cina.

Lo storico Thomas Carlyle, nel riproporre la schiavitù dei neri nelle Indie Occidentali (tra la Florida e il Venezuela), nel 1849 arrivò ad affermare che l’economia è una “scienza triste” perché si occupa dei mali del mondo. Ma l’economia oggi può rimediare a quei mali. Triste è l’incapacità di chi governa di preferire la pace alla guerra e di cogliere le opportunità di “far del bene” all’umanità (diceva Keynes) che la scienza economica offre.

 

Pierluigi Ciocca, Accademia dei Lincei

 

 

 

 

 

 

*Traccia di una introduzione allo studio dell’economia per gli studenti delle scuole superiori (Liceo “G.B. Vico”, Chieti, 20 settembre 2024).

 

Una breve bibliografia per procedere oltre:

 

  • Napoleoni, Elementi di economia politica, La Nuova Italia, Firenze, 1980.
  • Lunghini, Conflitto Crisi Incertezza. La teoria economica dominante e le teorie alternative, Bollati Boringhieri, Torino, 2012.
  • M. Keynes, Prospettive economiche per i nostri nipoti, (1930), in Id., La fine del laissez-faire e altri scritti, Introduzione di Giorgio Lunghini, Bollati Boringhieri, Torino, 1991.
  • Maddison, L’economia mondiale dall’anno 1 al 2030, Pantarei, Milano, 2008.
  • Ciocca, Che fare, dunque? L’economia, in “Italianieuropei”, 2024.

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