Come nascono le guerre. I casi delle due guerre mondiali e le analogie con l’oggi
CIRCOLO DI STUDI DIPLOMATICI LETTERA DIPLOMATICA
Piazzale della Farnesina, 1 n. 1384 – Anno MMXXIV
00135 Roma Roma, 16 settembre 2024
Come nascono le guerre. I casi delle due guerre mondiali e le analogie con l’oggi
1. Le guerre hanno cause immediate e cause profonde. Non sono inevitabili, tanto è vero che molte guerre sono state evitate. Ciò accade quando le cause profonde sono gestite attraverso un accordo esplicito o tacito sulla base dei rapporti di forza esistenti. Se gli attori principali ritengono che sia più conveniente evitare la guerra, eventi che possono costituirne la causa immediata sono gestiti adeguatamente. La guerra è spesso avvenuta nella storia quando per volontà di uno o più attori vi è la rottura di un equilibrio che garantiva la pace. L’Europa della seconda metà del XIX secolo era retta da un equilibrio determinato da tre maggiori sviluppi: l’arresto da parte di Regno Unito e Francia con l’aggiunta del Piemonte delle velleità di espansione russa nel Mediterraneo orientale e nei Balcani di fronte al progressivo indebolimento dell’Impero Ottomano, l’unificazione tedesca realizzata da Bismarck a scapito di Austria e Francia, e l’unità d’Italia, entrambe consentite dal Regno Unito per bilanciare la Russia da un lato e la stessa Francia dall’altro benché questa avesse contribuito all’unificazione della nostra penisola per allontanare dall’Italia settentrionale lo storico avversario asburgico in un processo andato però oltre le sue intenzioni abilmente architettato da Cavour. Bismarck operò per conservare questo assetto e consolidarlo d’intesa con il Regno Unito, con l’assunto che non avrebbe minacciato il predominio britannico a livello mondiale. Lo fece attraverso patti di non aggressione, come quello dei Tre Imperatori con Austria e Russia, alleanze difensive come quella con l’Austria-Ungheria rassegnata a svolgere un ruolo di junior partner, poi estesa all’Italia, e successivamente l’accordo di controassicurazione con la Russia. E anche favorendo l’espansione della Francia in Africa, distraendola dall’Alsazia e Lorena, e della Russia in Asia per alimentare le loro rivalità con il Regno Unito in quei due continenti. Intanto cresceva l’industria tedesca grazie alle grandi disponibilità di carbone e ferro, ad una solida cultura scientifica e tecnica e ad un forte sistema finanziario, diventando la prima nel continente, seconda nel mondo soltanto a quella del Regno Unito mentre cresceva rapidamente quella americana. Una enfasi particolare era nei settori della meccanica e delle macchine utensili, presupposti per il successivo sviluppo di una forte industria degli armamenti. La svolta si ebbe 1890 quando il nuovo Kaiser Guglielmo II licenziò Bismarck e adottò una politica di affermazione della Germania sul piano mondiale entrando inevitabilmente in rotta di collisione con il Regno Unito. Sviluppò l’espansione coloniale in Africa e in Estremo Oriente e una penetrazione economica e di influenza politica nell’Impero Ottomano e quindi nel Medio Oriente, posto sulla via dell’India e ricco di risorse petrolifere mentre iniziava la seconda fase della rivoluzione industriale basata su tali risorse. Diede impulso all’industria bellica, anche sul piano navale costruendo una consistente flotta vista con sempre maggiore preoccupazione da Gran Bretagna, Francia e Russia. Fallito un tentativo di accordo alla svolta del secolo, e contenuta la Russia in Asia anche grazie all’alleanza con il Giappone, Il Regno Unito concluse una intesa con la Francia sull’Africa e poi con la Russia sull’Asia, sia per l’Estremo Oriente che per l’Asia Centrale. Ne nacque l’Intesa cordiale con la Francia e poi la Triplice intesa con la Russia in base alle quali se attaccate o minacciate le tre potenze avrebbero reagito congiuntamente. Nel frattempo l’Austria-Ungheria manifestava intenzioni espansive nei Balcani annettendo la Bosnia. Irritava in questo modo la Russia, e con la conseguenza di mettere in crisi la Triplice Alleanza l’Italia che poco dopo si scontrava in Libia con Impero Ottomano colpito dai nazionalismi balcanici sostenuti dalla stessa Russia. Di fronte allo sviluppo di cause profonde di un conflitto imminente vi erano stati possibili casus belli, e cioè cause immediate di una guerra, ma la volontà di evitarla aveva prevalso con il raggiungimento di intese specifiche come quelle sul Marocco sottoposto alla pressione tedesca in conflitto con Francia e Regno Unito, o nelle guerre balcaniche. Questa gestione di un casus belli per evitare la guerra non si è avuta invece nell’estate del 2014 dopo l’attentato di Sarajevo. Di fronte all’ultimatum e alla dichiarazione di guerra dell’Austria alla Serbia scattarono gli automatismi delle alleanze ed in particolare delle loro clausole militari facendo prevalere chi per varie ragioni la guerra la voleva trascinando i riluttanti. E il sonnambulismo di chi doveva essere vigile, secondo la suggestiva definizione di Christopher Clark, portò al disastro. La Russia, alleata della Serbia, dichiarò la mobilitazione generale. La Germania e a sua volta la Francia, dopo l’ultimatum tedesco a non schierarsi con la Russia, fecero lo stesso. La Germania dichiarò guerra alla Russia e invase il Lussemburgo. Dichiarò guerra alla Francia e invase il Belgio neutrale. Il Regno Unito, dopo un ultimatum, dichiarò guerra alla Germania. Tutto si svolse in pochissimi giorni. Avrebbe potuto essere gestito diversamente? Probabilmente sì se le pulsioni nazionaliste a vari livelli, interessi industriali alla guerra e la sottovalutazione degli effetti distruttivi di nuovi armamenti non avessero prevalso sulla ragione e travolto chi alla guerra nei due campi si opponeva come i socialisti, i cattolici e statisti liberali che invitavano ad evitare una corsa che andava fuori controllo. Emblematico in questo contesto è il caso dell’Italia nella primavera del 1915. Dichiaratasi neutrale perché la Triplice era un’alleanza difensiva e perché l’Austria non aveva ottemperato alle intese su consultazioni e compensi per le alterazioni dello status quo nei Balcani, aveva avviato trattative con le due parti. Con Germania e Austria centrate sul mantenimento della neutralità in cambio dell’ottenimento delle terre irredente di Trento e Trieste, e con Regno Unito, Francia e Russia sull’intervento al loro fianco in cambio di impegni a sostenere estensioni territoriali fino al Brennero, nelle terre abitate da italiani nella costa orientale dell’Adriatico e nelle colonie. Le rigidità soprattutto austriache nel negoziato con la Duplice, le promesse dell’Intesa, le ragioni, i fattori e le pulsioni che si erano viste nell’avvio del conflitto nel resto dell’Europa hanno alla fine portato l’Italia ad intervenire, con una spinta determinante del Re malgrado la contrarietà o la passività di una grande maggioranza della popolazione e le critiche di autorevoli esponenti politici come Giolitti. La rivoluzione russa, la pace separata, il rafforzamento degli Imperi Centrali che ne derivò, la prospettiva di una conquista tedesca dell’Europa, la rilevanza dei prestiti americani ai paesi dell’Intesa portarono gli Stati Uniti, diventati nel frattempo la prima potenza industriale del mondo, all’intervento e alla sconfitta della Germania.
2. Il Trattato di Versailles, che regolò l’assetto post-bellico, pose nei fatti le basi per la seconda guerra mondiale. Diversamente dal Congresso di Vienna oltre cento anni prima che aveva recuperato per gli equilibri europei la restaurata Francia sconfitta, quanto deciso a Versailles fu caratterizzato da una punizione eccessiva della Germania in termini di riparazioni insostenibili, voluta soprattutto da Parigi, che colpiva pesantemente la popolazione tedesca, malgrado le diverse posizioni di Keynes, allora consigliere economico della delegazione britannica, e del Presidente Wilson. Ne derivò una grave crisi economica in Germania, profondamente scossa da tentativi rivoluzionari comunisti e nazisti. La repubblica di Weimar nacque pertanto estremamente fragile. E ciò mentre gli Stati Uniti che erano stati determinanti per la vittoria dell’Intesa, e il cui Congresso negò la ratifica del Trattato istitutivo della Società delle Nazioni voluta da Wilson quale strumento per garantire la pace e la cooperazione internazionale, si ritirarono dal continente riabbracciando una politica isolazionista e rinunciando quindi a svolgere un ruolo di garanzia negli equilibri europei. Dopo una breve fase di allentamento della crisi dovuto in buona parte ad investimenti americani che in una fase espansiva dell’economia statunitense affluivano anche in Germania, parallelamente ad un relativo miglioramento dei rapporti franco-tedeschi condotto dal Primo Ministro Briand e dal Cancelliere Streseman con una diluizione delle riparazioni che la Francia aveva cercato di acquisire con prelievi diretti sulle produzioni tedesche, la situazione si aggravò a causa degli effetti della grande depressione nata negli Stati Uniti, con un ulteriore peggioramento determinato dalla politica di austerità praticata dal Cancelliere Bruning per fare fronte alla crisi. Ne derivarono rinnovate tensioni sociali e politiche con scontri anche armati tra comunisti e nazisti e la marginalizzazione dei socialdemocratici e dei cristiano-democratici, con elezioni che si susseguivano il cui esito fu l’avvento al potere di Hitler, agevolato dalla destra conservatrice e da un establishment industriale che non si rese conto delle conseguenze che si sarebbero prodotte, in un contesto caratterizzato da una attribuzione della sconfitta e della crisi a forze interne ed internazionali asseritamente dominate dagli ebrei considerati al tempo stesso come inferiori inquinatori della razza e come manipolatori degli eventi nel mondo. A questo si accompagnavano una radicale contestazione del Trattato di Versailles ed una volontà attiva di disapplicarne tutte le clausole assieme a quella di annettere alla Germania tutte le popolazioni di lingua tedesca e all’aspirazione ad acquisire uno “spazio vitale” ad est. In Italia, ove con dinamiche sociali e politiche per vari versi analoghe e la complicità del Re i fascisti avevano assunto il potere un decennio prima, si manifestavano sentimenti di insofferenza per una “vittoria mutilata” che non vedeva pienamente realizzate le promesse che nell’Adriatico e in Africa avevano determinato l’intervento a fianco dell’Intesa. In questo contesto maturò l’invasione dell’Etiopia e l’intervento con la Germania a sostegno di Franco contro la Repubblica spagnola. Intanto in Estremo Oriente il Giappone manifestava una volontà di dominio dell’Asia, occupava la Manciuria, attaccava la Cina, minacciava le colonie britanniche, francesi e olandesi e preoccupava gli Stati Uniti. Si determinava quindi una convergenza fra tre potenze revisioniste degli assetti post bellici, anche se due di loro erano tra le vincitrici che ritenevano tuttavia non soddisfatte le loro ambizioni. Di fronte al riarmo tedesco, alle reiterate violazioni del Trattato di Versailles, all’annessione dell’Austria e poi dei Sudeti, avallata da Francia e Regno Unito a Monaco, e successivamente dell’intera Cecoslovacchia in violazione dell’accordo appena concluso, gli occidentali si mostrarono sostanzialmente acquiescenti fornendo all’URSS la dimostrazione della loro debolezza. Da qui derivò la decisione del patto Ribbentrop- Molotov che consentì una nuova spartizione della Polonia e diede una sostanziale mano libera alla Germania a prepararsi ad espandersi ad Ovest. L’attacco tedesco alla Polonia, con un casus belli artificiosamente costruito, svegliò gli occidentali che finalmente reagirono ma senza avere una adeguata capacità militare trascurata negli anni precedenti per difendere la Polonia e difendersi dalla conseguente offensiva tedesca. La Francia, inutilmente trincerata dietro la linea Maginot, fu costretta a capitolare e la Germania invase gran parte dell’Europa Occidentale. L’inizio della fine per le potenze dell’Asse fu determinato dall’inaspettato attacco tedesco all’Unione Sovietica e da quello giapponese agli Stati Uniti, frutto di clamorosi errori di valutazione sui seguiti di tali attacchi. Cause della seconda guerra mondiale e dei suoi sviluppi furono quindi la punizione eccessiva e non sostenibile della Germania la cui profonda crisi portò all’avvento di Hitler, il disimpegno americano dall’Europa, il revanchismo tedesco, la sottovalutazione occidentale delle intenzioni e delle ricostruite capacità militari tedesche unita all’impreparazione a farvi fronte, e poi la sottovalutazione tedesca e giapponese della potenza congiunta degli Stati Uniti, dell’Unione Sovietica e delle forze britanniche e della Francia Libera che impedivano una problematica invasione del Regno Unito e resistevano in Africa.
3. Memori di quanto accaduto a Versailles, il nuovo assetto post bellico assunse soprattutto su impulso americano un carattere più simile sotto questo aspetto a quello del Congresso di Vienna. E quindi basato sul recupero per gli equilibri in Europa e in Estremo Oriente delle potenze sconfitte, delle quali furono sostenute questa volta anche con notevoli impegni finanziari la ricostruzione e la crescita economica, e vi fu agevolata, quando non imposta come inizialmente in Giappone e quale condizione anche in Europa per gli aiuti statunitensi, l’instaurazione di sistemi liberal-democratici e ad economia di mercato, temperati laddove si affermavano dalla socialdemocrazia e dalla dottrina sociale cristiana. Questo avveniva mentre si rompeva l’alleanza anti-fascista tra occidentali e Unione Sovietica e veniva avvertita una minaccia proveniente da quest’ultima e della sua allora alleata cinese alla quale veniva risposto con la costituzione della NATO e con accordi difensivi di copertura militare in Estremo Oriente. Il concetto era che la rinascita delle potenze sconfitte, diventate democratiche, dovesse avvenire in un quadro di controllo e di inserimento nel sistema di contenimento del comunismo sovietico e cinese. Come si diceva allora la NATO aveva lo scopo di tenere l’America dentro (l’opposto di quanto accaduto dopo Versailles), la Russia fuori e la Germania sotto, cosa accettata dalla nuova dirigenza politica tedesca seppure con qualche riluttanza a destra e a sinistra. Corollario fondamentale di questi sviluppi era la riconciliazione franco-tedesca e l’avvio del processo di integrazione europea di cui fu subito protagonista anche l’Italia con De Gasperi e i suoi successori. Tra i due blocchi, il cui perimetro era stato definito dalle intese di Yalta e Potsdam e dalla linea su cui si erano incontrate le truppe alleate e dell’URSS al culmine del loro schiacciamento da ovest e da est della Germania nazista, si instaurò un sistema di deterrenza reciproca che stabilizzava la situazione nel continente europeo e vi manteneva la pace. L’inevitabile sfaldamento degli imperi coloniali europei, ormai non più sostenibili neppure per le potenze colonizzatrici di fronte alle volontà di indipendenza e autodeterminazione di popoli che avevano oltretutto dato il loro contributo di sangue nelle due guerre mondiali, determinò tuttavia conflitti in aree fuori dall’Europa. Alcuni di anacronistica resistenza ai cambiamenti che si imponevano, come quelli della Francia in Asia e in Nord Africa negli anni ‘50 e quelli del Portogallo sostenuto dal regime bianco sudafricano in Africa Australe negli anni ‘60 e ‘70. Altri, in parte in continuità con quelli, dentro e tra nuovi Stati caratterizzati da fragilità territoriali e istituzionali in conseguenza di come erano avvenute la colonizzazione e la decolonizzazione. Di questi conflitti e aspirazioni cercò di profittare l’URSS che come gli Stati Uniti praticavano una politica di stabilità e contenimento reciproco in Europa e damage control sul piano strategico, concludendo accordi sul controllo degli armamenti e sulla gestione di crisi, sia pure con qualche sbavatura come l’istallazione di missili di crociera in Europa cui gli occidentali risposero prontamente ristabilendo l’equilibrio. Essa riteneva tuttavia di poter avere mano libera nelle aree periferiche nelle quali vi erano molte opportunità sulle quali intervenire. Un notevole e costoso sforzo in questo senso di carattere politico, economico e militare, aspetto navale incluso, motivato anche dalla competizione con la Cina oltre che con i paesi occidentali, fu quindi dispiegato nel Sud Est Asiatico, in Asia Centrale, ove l’intervento in Afghanistan costituì il massimo dell’impegno sovietico, nel Medio Oriente, nel Corno d’Africa, in Africa Australe, in America Latina. Anche se gli Stati Uniti operavano per aumentare il costo di tale impegno vi era comunque una tacita intesa ad evitare che quei conflitti si estendessero al punto di produrre un confronto diretto tra le due superpotenze. I possibili casus belli furono opportunamente gestiti a partire da quello, più pericoloso di tutti, della crisi dei missili a Cuba nel 1962. Sta tuttavia di fatto che quel vasto dispiegamento al di sopra delle sue possibilità, reso ancora più oneroso da azioni di contrasto degli Stati Uniti, furono tra le concause del collasso dell’URSS.
4. Dopo la fine della guerra fredda che con le sue rigidità ne costituiva in qualche modo un freno, i conflitti sono complessivamente aumentati. In alcuni casi la nuova situazione ne ha facilitata la soluzione, come in Africa Australe e, temporaneamente, nel Corno d’Africa, ma in vari altri ha tolto ostacoli a conflitti latenti tra gruppi etnici e religiosi per i quali l’interesse e le capacità al loro controllo all’interno dei blocchi o comunque perché funzionali agli equilibri bipolari erano venuti meno. E’ il caso delle guerre nell’ambito della dissoluzione della Jugoslavia, paese non allineato in Europa, fragilizzato dopo la scomparsa un decennio prima del leader che l’aveva tenuta unita, e non più necessario nella sua unità al mantenimento di quegli equilibri. E poi delle guerre nel Caucaso, in Medio Oriente ove Saddam Hussein aveva ritenuto velleitariamente e irrealisticamente di poter affermare l’egemonia dell’Iraq nel Golfo e nella Penisola Arabica, nonché tra Israele e insurrezione palestinese dopo la parentesi degli accordi di Oslo, e poi ancora in Africa e in Europa Orientale. Tutto si è accentuato in questo secolo perché il mondo multipolare e globalizzato, seguito all’illusione dell’unipolarismo durato un decennio, non ha ancora trovato un sistema sostenibile ed efficace di gestione concordata dei nuovi equilibri e di crisi volute o che potrebbero sfuggire di mano, anche per la presenza di nuovi attori non statali come i movimenti jihadisti, cresciuti peraltro in una fase in cui venivano sostenuti per contrastare l’Unione Sovietica in Afghanistan e precedentemente regimi di tendenza socialista, nazionalista e laica in Medio Oriente. Tali movimenti, come Al Qaeda ed altri sempre più radicali come sarà l’Isis, hanno poi rivolto le loro attività terroristiche anche contro l’Occidente ed altri obbiettivi. Oggi vi sono soprattutto tre situazioni di crisi attuali o potenziali nelle quali cause sottostati e possibili casus belli potrebbero portare a conflagrazioni di assai più ampie dimensioni, come mai si era verificato dalla seconda guerra mondiale. La prima e più immediata e a noi più vicina è quella dell’Europa Orientale. All’allargamento della NATO e dell’UE ad est, con velocità e modalità diverse, voluto sia da paesi dell’ex-Patto di Varsavia, timorosi del revanscismo russo e desiderosi di prosperità, che dagli occidentali, si è contrapposta la volontà di Putin di recuperare il controllo almeno dei paesi dell’ex-Unione Sovietica. In questo ambito si collocano gli interventi in Georgia e in modo molto più massiccio e con effetti più dirompenti in Ucraina in violazione del diritto internazionale. Il sostegno in armi e finanziario alla difesa di quest’ultima da parte occidentale, ora esteso ad azioni in territorio russo, potrebbe dar luogo ad incidenti rispetto ai quali occorrerà verificare la volontà di gestirli senza provocare trascinamenti non voluti in una guerra con un confronto diretto tra NATO e Russia. Occorrerebbe affrontare anche la sostanza del conflitto con una soluzione che eviti di condonare l’aggressione, si basi sul rispetto del diritto internazionale e garantisca la sicurezza dell’Ucraina, cosa che appare al momento estremamente difficile in una situazione che sembra attualmente senza sbocco. La seconda è quella del Medio Oriente centrata oggi sulla questione israelopalestinese che più di ogni altra suscita emozioni e contrapposizioni divisive ben oltre la regione, nonché sull’avvertita minaccia proveniente dall’Iran che secondo una tradizione plurimillenaria della Persia, ora con l’alibi della Palestina e con l’uso della denominazione sciita dell’Islam, tende ad espandersi verso il Mediterraneo. I paesi del 6 Golfo vogliono normalizzare i rapporti con Israele, ma sia quelli che avevano firmato gli accordi di Abramo, sia l’Arabia Saudita, ne sono impediti dai comportamenti dell’attuale Governo israeliano a Gaza e in Cisgiordania, nonché dalla recente decisione della Knesset di precludere la nascita di uno Stato palestinese. Essi temono l’Iran ed in particolare, come Israele, che esso raggiunga la soglia di arricchimento dell’uranio necessaria alla produzione di bombe atomiche. Ma ora si mostrano disponibili ad una normalizzazione dei rapporti con Teheran, con il quale hanno già ristabilito le relazioni diplomatiche. Tale normalizzazione, favorita dalla Cina che ha un interesse alla stabilizzazione della regione per l’importanza che essa ha per i suoi approvvigionamenti energetici e per la connessione commerciale con l’Europa, dovrebbe comportare l’arresto controllato dell’arricchimento dell’uranio la cui intensificazione ha avuto luogo dopo l’uscita di Trump dal Joint Cooperation Plan of Action, peraltro allora da essi sollecitata assieme ad Israele, nonché un assetto di sicurezza reciprocamente garantito nella regione ed un aumento di relazioni economiche voluto da entrambe le parti. Le contraddizioni e i conflitti all’interno dell’Iran, nel regime e nella società in cui è in corso una durissima repressione, costituiscono un ulteriore aspetto di una situazione in movimento. Un pericolo che incombe, e che potrebbe costituire un grave casus belli, è l’annunciata risposta dell’Iran, che temporeggia, all’uccisione a Teheran del leader di Hamas Hniyeh, e di converso quello di un attacco preventivo israeliano eventualmente mirato a impianti nucleari, molto difficile da realizzare. E’ da ritenere che paesi della regione e Stati Uniti vogliano prevenire entrambi o quanto meno limitare la reazione iraniana ad un atto simbolico, e che contatti diretti e indiretti siano in corso a questo scopo, messi però ora fortemente in discussione dalla scoperta americana di forniture di missili dall’Iran alla Russia. Altri fattori di estensione del conflitto sarebbero un massiccio attacco israeliano in Libano contro Hezbollah, preceduto o meno da una forte intensificazione del lancio di razzi su Israele, nel quadro della continua corsa di Netanyahu e del cosiddetto opposto fronte della resistenza ad alzare la posta per allontanare il momento delle rese dei conti interne. Per fermare la corsa sarebbe necessario il raggiungimento dell’accordo sul cessate il fuoco a Gaza e la liberazione degli ostaggi da cui dovrebbe poi ripartire il processo verso i due Stati, cosa che sia Netanyahu che Hamas non vogliono. Solo una decisa azione dei mediatori sulle due parti con tutti gli strumenti disponibili, gli Stati Uniti su Israele, ed il Qatar e forse la Turchia su Hamas, potrebbe probabilmente determinare il conseguimento di tali risultati. La terza situazione di grave pericolo, oggi apparentemente meno imminente, ma forse la più rilevante per i rischi di un confronto diretto, è la rivalità sistemica tra Stati Uniti e Cina, tra la potenza egemone e quella emergente, che può ricordare, con tutte le dovute differenze, quella tra Regno Unito e Germania all’inizio del secolo scorso. Il luogo di un possibile casus belli è Taiwan, diventato oltretutto il maggiore produttore al mondo di microchips necessari alle transizioni energetica e digitale. Tutti aderiamo alla one China policy, ma gli Stati Uniti che armano Taiwan per la sua difesa hanno posto la linea rossa del non uso della forza e di garanzie sul principio one China two systems vanificato e non più credibile dopo quanto accaduto ad Hong Kong. Le esercitazioni attorno all’Isola potrebbero essere causa di incidenti che Cina e Stati Uniti dovrebbero cercare di gestire. E poi trattare sulla sostanza, considerate le convergenze che potrebbero realizzarsi su interessi comuni come il damage control, la regolamentazione dell’uso dell’intelligenza artificiale, la gestioni di crisi, il controllo degli armamenti, il contrasto dei cambiamenti climatici e le transizioni necessarie, la mitigazione di guerre commerciali, la salute. Molto difficile oggi, considerate anche le grandi differenze valoriali ed in particolare sui diritti umani, ma forse non impossibile. * * * In conclusione, dall’insieme di questa sommaria analisi delle cause delle guerre 7 nell’ultimo secolo sembra emergere che per evitarle occorre definire equilibri stabili e mutuamente accettabili dagli attori locali, regionali e globali in funzione delle diverse situazioni, ed essere in grado di gestire eventuali incidenti e i loro seguiti, operando in modo diverso dai sonnambuli che oltre un secolo fa furono trascinati nel primo conflitto mondiale pur non volendolo molti di loro, e infine, ma non meno importante, far affermare anche con un multilateralismo rinnovato ed efficacie il rispetto del diritto internazionale.
Maurizio Melani
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