Ricchi per sempre?
La mia risposta alla domanda se gli italiani possano considerarsi ricchi per sempre era “ni” – o, più banalmente, dipende – quando quindici anni fa pubblicai un libro con questo titolo (Ricchi per sempre? Una storia economica d’Italia (1796-2005), Bollati Boringhieri, Torino, 2007). La risposta sfiora oggi un brutale “no” dopo che tre recessioni e crescita tendente a zero hanno reso l’intero ultimo trentennio il “più nero” nella storia dell’Italia unita.
L’ipotesi semplificante, di estrema sintesi, è che il declino sia dovuto al concorso di due fattori: profitti troppo facili per le imprese e gravi carenze nel governo dell’economia (per argomentazioni specifiche e dettagli descrittivi rinvio alla seconda edizione di Ricchi per sempre?, Bollati Boringhieri,Torino, 2020).
Lo spartiacque è il 1992. L’annus horribilis vide il governo Amato incapace del rigore di bilancio necessario a svalutare il meno possibile e a freddo, non sotto le pressioni della speculazione ribassista. La lira venne difesa per due lunghi mesi dalla sola Banca d’Italia, con ogni mezzo: restrizione monetaria; innalzamento dei tassi a breve; largo uso delle riserve valutarie; pressioni “morali” sulle banche; pubblici annunci. Ma per il ritardo nell’azione di governo la lira a settembre franò. Il disastro causò al Paese la perdita della moneta quale àncora delle aspettative. Segnalò alle imprese che col cambio deprezzato potevano tornare a realizzare comodi profitti, senza investire, senza innovare. Ciò avveniva dopo che dall’estate del 1980, nell’arco di dodici anni, il freno esercitato dalla Banca d’Italia di Ciampi all’inflazione e al deprezzamento della lira aveva invece costretto le imprese a ricercare il profitto attraverso l’efficienza. Intorno al 1990, sebbene l’economia già dagli anni Settanta rallentasse, la produttività italiana ancora si situava sui massimi valori internazionali (R.E. Hall-C.J. Jones, Why Do Some Countries Produce So Much More Output Per Worker Than Others?, in “Quarterly Journal of Economics”, 1999, Fig. 1, p.90 e Table 1, p.91). Dal crollo della moneta nel 1992 l’attrito del cambio è venuto meno e si è avviata la discesa della produttività sino al fondo di quei valori.
L’economia del Paese ha da allora ristagnato, mentre grazie a Cina e India il mondo conosceva ritmi di sviluppo del 4% l’anno fra il 1997 e il 2013 e di oltre il 3% nell’ultimo decennio. Nel biennio 2021-2022, in Italia, l’incremento del Pil del 10% è stato un mero rimbalzo, compensativo della caduta del 9% nell’anno del covid. La previsione per il 2023 è di espansione mediocre. Il CER, che è indipendente, sconta uno 0,8%. Da troppo tempo i motori della crescita – l’accumulazione di capitale e l’innovazione – sono entrambi spenti.
In rapporto al Pil gli investimenti fissi lordi dal picco del 21% toccato nel 2002 sono scesi sino ai minimi del 17% nel 2014-2016 e ancora nel 2019 superavano appena il 18%. Financo più grave è che al netto degli ammortamenti gli investimenti siano crollati dal 6% del Pil nel 2002 quasi a zero nel 2012 per risultare addirittura spesso negativi negli anni che seguirono.
All’erosione dello stock di capitale si è unita l’assenza di progresso tecnico. La produttività totale dei fattori è rimasta invariata dal 1995, se valutata a prezzi costanti nell’intera economia Questa misura della produttività è esposta a dubbi teorici ed empirici. Ma la stessa produttività del lavoro, sempre dal 1995, ha progredito solo dello 0,4% l’anno. L’avanzo della bilancia dei pagamenti di parte corrente emerso nel 2013, crescente fino al 2020, è principalmente dovuto al ristagno della domanda interna rispetto a quella degli altri paesi, essendo rimasta sostanzialmente invariata la competitività di costo e di prezzo delle merci italiane.
Il vuoto di accumulazione e di produttività era giustificato agli occhi delle imprese perché veniva compensato dai profitti e dalle rendite derivanti da altre fonti. La lira rientrò nello SME a novembre del 1996 a 990 lire per marco tedesco, da 750 prima della uscita nella crisi del 1992. Era quindi situata nell’euro a un livello di forte sottovalutazione, così favorendo le aziende esportatrici al di là delle oscillazioni della nuova moneta. Il grado di concorrenza era basso in più d’un ramo produttivo, non solo del terziario. Dal lodo Ciampi-Trentin del 1993, dall’indebolirsi dei sindacati, dal neo liberismo che contagiava le stesse sinistre, da un tasso di disoccupazione spesso a due cifre scaturiva una persistente moderazione salariale. Nell’ultimo ventennio in termini reali le paghe dei lavoratori sono rimaste invariate. Lo Stato era invece prodigo di vantaggi per le imprese: una evasione tollerata dal fisco per decine di miliardi; sussidi alla produzione e agli investimenti per altre decine di miliardi (50 nel 2020); forniture, appalti, concessioni (oltre 200 miliardi nel 2020) a condizioni spesso esose per la PA. I profitti non distribuiti e non investiti si traducevano in riduzione dei debiti, con il rapporto di leverage sceso da 0,50 nel 2011 al disotto di 0,40 nel 2017.
A questa neghittosa inefficienza di sistema facevano eccezione singole aziende. Alcune imprese manifatturiere di media dimensione erano più produttive delle rivali europee. Ma anch’esse confermavano la ritrosia a superare la governance familiare, a quotarsi in borsa, a salire nella scala dimensionale. Lo stesso distretto manifatturiero “alla Becattini” perdeva di brillantezza, principalmente a seguito delle delocalizzazioni. Il manipolo dei maggiori gruppi si restringeva ulteriormente, entro le dita di una mano. Si limitava ai cioccolatini, alle montature per occhiali, alla gestione autostradale, alle televisioni, attività redditizie ma non certo alla frontiera di un progresso tecnico capace di ricadute positive per l’intera economia. La pletora del resto delle unità produttive era mera spugna di occupazione. Portava il totale delle aziende a 4,4 milioni, il 95% delle quali con meno di nove addetti e una media generale di 3,8 addetti: “piccole donne”, che non crescono, nel linguaggio di Louisa May Alcott!
In una sorta di oggettiva correità, di perversa interazione, ai limiti dei produttori si sono uniti i limiti di chi ha governato.
Nell’ultimo ventennio gli esecutivi e le maggioranze si sono avvicendati per periodi di tempo complessivamente simili fra centro-sinistra e centro-destra. Le politiche economiche delle due fazioni sono state tuttavia parimenti inconcludenti su almeno sette fronti:
- La finanza pubblica non è stata risanata. La spesa della P.A. nel 2022 è arrivata al 57% del Pil. Il bilancio è risultato in disavanzo senza soluzione di continuità. Ha distrutto risparmio per l’eccedenza delle uscite correnti sulle entrate correnti, nel 2022 ancora pari a 25 miliardi, quasi il 2% del Pil. Il debito è arrivato al 150% del Pil nel 2021 (144% nel 2022). Dal danaro pubblico hanno tratto beneficio i profitti d’impresa, a svantaggio dei contribuenti.
- Ancor più grave per la dinamica dell’economia è che si siano ridotti gli investimenti pubblici, nelle infrastrutture sia fisiche sia immateriali. Ne hanno risentito la messa in sicurezza del territorio, l’ambiente, la sanità, l’istruzione, la ricerca, i trasporti, le comunicazioni, le utilities. In particolare dal 2009 al 2018 gli investimenti pubblici sono stati tagliati di un terzo, sino a risultare pur essi negativi al netto degli ammortamenti. La ripresa nel 2019-2021 non li ha riportati sui livelli del 2009, nemmeno a prezzi correnti. Nel 2022 sono tornati a flettere, lievemente, a 51 miliardi (erano 54 nel 2009), nonostante il regime di PNRR. Sia la domanda effettiva sia la produttività ne hanno sofferto, perché il moltiplicatore degli investimenti pubblici è alto (anche superiore a 2), mentre migliori infrastrutture possono molto contribuire all’efficienza delle produzioni.
- E’ paradossale che il calo degli investimenti pubblici sia stato maggiore nel Mezzogiorno, dove le infrastrutture sono specialmente carenti. Fra il 1996 e il 2019 la latitanza della politica economica per il Meridione ha contribuito alla crescita pressoché nulla del Pil reale del Sud, rispetto a una media nazionale modesta, ma pur sempre del 15%, concentrata nel Centro-Nord. Nel 2020 il reddito medio di chi vive al Sud era di 14mila euri l’anno, il 60% rispetto a quello di chi vive al Centro-Nord (23mila euri). Lo scarto non è compensato dai divari regionali nel costo della vita.
- La distribuzione degli averi è divenuta più sperequata. L’indice di Gini sui redditi è salito a 0,33 ed è fra i più elevati in Europa, anche se nettamente inferiore allo 0,40 degli Stati Uniti. L’indice di Gini sulla ricchezza è pari a 0,65. Specialmente preoccupante è l’impennata del numero delle persone in povertà assoluta: sono passate da circa due milioni nel 2005 a 5,6 milioni nel 2021. Il 10% della popolazione è una percentuale di poveri fra le più alte nel novero delle economie avanzate. L’impossibilità per questa ampia parte dei cittadini di investire su sè stessi per carenza di mezzi priva il Paese di capitale umano altrimenti prezioso per la crescita. Lo Stato non ha contrastato con successo la sperequazione distributiva né tanto meno la povertà assoluta.
- L’esperienza giuridica – norme, giurisdizione, dottrina, secondo la definizione di Capograssi e Orestano – è fra le determinanti decisive della ricchezza delle nazioni. Nonostante progressi compiuti negli ultimi anni in alcuni comparti dell’ordinamento, l’Italia non brilla nel confronto internazionale in materia di diritto dell’economia: societario, fallimentare, processuale, amministrativo, tributario. Lo svantaggio per chi produce è pesante.
- Al di là dei rapporti impropri, anticoncorrenziali, con lo Stato e con le pubbliche amministrazioni, gli stimoli all’efficienza esercitati sulle imprese sono stati deboli anche perché l’antitrust non ha impedito che in diversi mercati il grado di concorrenza restasse insufficiente o diminuisse. Le incrostazioni oligopolistiche hanno contrastato l’avvicinamento dei prezzi ai costi di produzione, a scapito dei consumatori. Soprattutto hanno frenato la ricerca della produttività. Per entrambe le vie si è appesantita la competitività.
- Infine, i governi italiani non hanno saputo incidere sulle regole di bilancio fissate in Europa né opporsi al neomercantilismo della Germania. L’Europa post Maastricht ha violentato Keynes, in un duplice senso. Keynes aveva proposto il pareggio fra le entrate correnti e le uscite correnti: un rigore di bilancio volto a prevenire il risparmio negativo delle pubbliche amministrazioni e il dilatarsi del debito pubblico. Keynes considerava il risparmio essenziale e aborriva il debito, fattore di instabilità. Aveva al tempo stesso sollecitato libertà e larghezza negli investimenti pubblici. Essendo ad alto moltiplicatore della domanda e della produttività gli investimenti sono capaci di autofinanziare nel medio periodo la spesa iniziale, senza aumento di debito. Le regole europee hanno invece affidato il rigore di bilancio al contenimento del saldo negativo fra le uscite e le entrate complessive. La spesa per investimenti è stata equiparata alle spese correnti. Un ponte sarebbe eguale alla carta igienica: un assurdo. La Germania ha imposto tali regole ai paesi membri e a sé stessa, sacrificando la crescita di tutti. La domanda interna tedesca è aumentata tanto poco da generare avanzi di bilancia dei pagamenti che si sono risolti in una posizione creditoria netta della Germania verso l’estero giunta al 70% del Pil. Queste ingenti risorse reali non sono state utilizzate per il popolo tedesco all’interno, ma cedute al resto del mondo: un altro assurdo.
Nell’insieme, imprese e governi non hanno evitato che il Pil pro capite degli italiani restasse per un intero ventennio invariato, scendendo del 15% al disotto della media europea. Le famiglie possono fare affidamento solo sul patrimonio accumulato. Al netto dei debiti esso supera i 10 trilioni di euro, otto volte il reddito familiare disponibile, tre volte il debito della Repubblica. Ma l’imposta patrimoniale sarebbe comunque respinta, un suicidio politico.
La via d’uscita è implicita nell’analisi. La politica economica deve cambiare radicalmente almeno nelle sette direttrici seguite sinora (P. Ciocca, Tornare alla crescita. Perché l’economia italiana è in crisi e cosa fare per rifondarla, Donzelli, Roma, 2018). Segnatamente, sono cruciali la selezione e l’entità degli investimenti pubblici. Se questi investimenti si autofinanziano, il PNRR non è importante per le risorse promesse da Bruxelles quanto per lo stimolo alla tempestiva ed efficiente attuazione di pochi, grandi progetti, gestiti dal centro.
Ma l’economia italiana non ritroverà la crescita se le imprese – per scelta consapevole o per costrizione concorrenziale – non rinunceranno al profitto “facile”, piuttosto affidando la ricerca dell’utile all’accumulazione di capitale, al progresso tecnico, alla produttività. Lo fecero nell’età giolittiana, perché sollecitate dallo statista di Dronero. Lo fecero al tempo del miracolo economico, perché sollecitate dalla riapertura dell’economia e dalla temuta prospettiva del Mercato Comune. Dovrebbero tornare a farlo. Sulla base dell’evidenza attuale è improbabile che lo facciano.
Casa della cultura, Milano, 13 aprile 2023