Commento a G. La Malfa, Keynes l’eretico. Vita e opere del grande economista che ha cambiato l’Occidente”, Mondadori, Milano, 2022

Commento questo bel libro, oltre che da cittadino occidentale…cambiato da Keynes, quale ex banchiere centrale. Mi concentro quindi su Keynes e la politica economica, le cui indicazioni sono ben riflesse nel libro di Giorgio La Malfa, un libro politico, oltre che analitico.

La proposizione fondamentale di Keynes è che l’instabilità è intrinseca al capitalismo. Cito dalla “Teoria Generale”: “L’efficienza marginale del capitale dipende dalle aspettative (…). Ma la base di tali aspettative è molto precaria. Esse sono passibili di mutamenti improvvisi e violenti” dovuti “alla psicologia incontrollabile, riottosa, del mondo degli affari” (G.T., pp. 315 e 317). Di qui, la disoccupazione.

La seconda proposizione è che il sistema dei prezzi relativi non garantisce il pieno impiego delle risorse. Non lo garantisce il prezzo del lavoro, rigido o flessibile che sia. Non lo garantisce il prezzo del danaro, rigido o flessibile che sia. Lo stesso calo del livello medio dei prezzi assoluti non rilancia la domanda: il “real balance effect” di Pigou è debole e in una economia a moneta interna è stato negato sul piano logico da Kalecki già nel 1944.

La politica monetaria, se può molto contro l’inflazione ancorchè a costi che possono risultare elevati, poco può contro la disoccupazione. Il banchiere centrale condivide, in base all’esperienza.

Per Keynes la piena occupazione, la stessa crescita dell’economia, richiedono investimenti pubblici con elevato moltiplicatore e spiccato favor per la produttività del sistema: investimenti con capacità di creare reddito al punto di autofinanziare la spesa iniziale, senza generare il debito pubblico, che Keynes aborriva quale fattore di instabilità.

Il libro è politicamente importante nel ricordare di Keynes tutto ciò. Lo è perché in Occidente Keynes è stato per decenni respinto e ancor oggi avversato dall’individualismo metodologico sul piano teorico e da chi governa sul piano pratico.

Ma Keynes è stato financo frainteso dai “keynesiani” presunti tali (Hansen, Samuelson, Modigliani, Solow) ben diversi dal ristretto nucleo di quelli veri (Sraffa, Kahn, Joan Robinson, Kaldor), con le due Cambridge a dividerli. Giorgio La Malfa ha vissuto entrambe le Cambridge e le pagine del libro su questo punto sono ben più che autobiografiche.

Posso recare due testimonianze personali su quest’ultimo punto. Al di là della questione dei salari, se rigidi o flessibili, Samuelson toglie Sraffa dal capitolo su capitale e interesse del suo manuale dopo le prime edizioni. A mia domanda rispose che egli non riusciva ad apprezzare la rilevanza empirica (!!) del reswitching delle tecniche. Modigliani, con Brumberg (1954), muove dalla teoria del tasso d’interesse a lunga di Irving Fisher e di Umberto Ricci: Produttività e Parsimonia, Investimento e Risparmio, non moneta, aspettative, convenzioni alla Keynes. Modigliani attaccava il rigore monetario della Bundesbank non solo per il suo schematismo, ma come causa degli alti tassi d’interesse a lungo termine che hanno prevalso internazionalmente tra il 1980 e il 1996. In Banca d’Italia gli si faceva notare la contraddizione teorica: se il tasso a lunga è un fenomeno “reale”, come poteva la Bundesbank influenzarlo con poca moneta?

Non sono state diatribe meramente accademiche.

Negli ultimi decenni l’Europa ha agito nella ignoranza o nell’avversione rispetto a Keynes. Non ha saputo prevenire la crisi del 2008: la BCE di Trichet alzava i tassi d’interesse a breve in luglio, nonostante l’avvenuto dissesto di Bear Stearns e poche settimane prima del crollo di Lehman. Il contenimento dei successivi rischi di deflazione-disoccupazione veniva affidato a una politica monetaria espansiva,  cosiddetta quantitative easing. In assenza di una politica di bilancio espansiva il qe era keynesianamente destinato all’inefficacia, come poi avvenne. Fra l’altro, la BCE di Draghi – a differenza delle altre banche centrali maggiori – ha mancato di continuità. Ha ridotto la base monetaria di un terzo fra l’estate del 2012 e l’estate del 2014. Ciò che è più grave, il qe della BCE ha offerto una giustificazione al vuoto di politica fiscale europeo. Ha avvalorato l’errata opinione che la politica monetaria bastasse a reflazionare l’economia. Non a caso la Cancelliera Merkel, mentre rifiutava la politica di bilancio espansiva, appoggiava il qe fino a liberare Draghi dai due severi guardiani tedeschi dell’ortodossia monetaria in BCE, Axel Weber e Jurgen Stark.

La BCE avrebbe piuttosto dovuto opporre Keynes ai governi, a cominciare da quello tedesco: la politica monetaria poteva al massimo affiancare una politica di bilancio espansiva. Sia i disavanzi sia gli investimenti vennero invece tagliati. Fu un errore marchiano: l’economia europea rallentò per carenza di domanda effettiva e di produttività. Lo stesso Pil tedesco fino al covid aumentò solo poco più dell’1% l’anno.

La mia critica alla politica monetaria della BCE si estende al dopo-covid. Il Keynes di How to Pay for the War sarebbe inorridito di fronte all’inflazione da domanda innescata si dagli inizi del 2021 dalla folle spesa pubblica a cui era orientata l’amministrazione americana, di Trump e ancor più di Biden, mentre le economie già rimbalzavano dalla caduta del 2020, anche con strozzature settoriali. Questa inflazione è stata prevista da economisti come Larry Summers. Avrebbe richiesto una risposta monetaria restrittiva d’anticipo: un rialzo secco e cospicuo dei tassi a breve. E’stata poi rinfocolata dalla guerra dopo il febbraio del 2022. Le banche centrali, invece, sono rimaste colpevolmente inerti per un anno e mezzo. Hanno iniziato a rispondere con stolido gradualismo e plurimi annunci più che con atti solo dall’estate dello scorso anno. E l’inflazione continua, rischiando di sfociare in recessione…

Il Next Generation EU ha segnato una svolta, imposta dal covid, rispetto alla linea di bilancio che era stata sino ad allora imposta dal neomercantilismo tedesco. I patti di stabilità fiscale sono in via di ripensamento. Keynes non ha mai proposto un generico G-T, o lo scavare le buche. Keynes – si veda in particolare il Vol. XXVII dei suoi scritti, Activities 1940-1946 – ha proposto pareggio tendenziale fra le entrate e le uscite di parte corrente del bilancio, quindi rigore con zero risparmio negativo della pubblica amministrazione, uniti a investimenti pubblici sciolti da vincoli contabili e ad alto moltiplicatore come pure ad alta produttività.

L’econometria, che Keynes non amava, è dalla sua parte. Può stimarsi un moltiplicatore anche superiore a 2 e un positivo effetto sulla produttività dell’investimento pubblico. Ciò fa sì che l’investimento nel medio termine si autofinanzi, se l’elasticità al Pil del rapporto indebitamento netto/Pil è dell’ordine di 0,5.

Bene ha fatto Giorgio La Malfa a riproporre Keynes con questo libro, scritto sulla scia della edizione italiana della “Teoria Generale” e di altri saggi da lui curati del massimo economista contemporaneo.