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Herman Daly (1938-2022): l’economista che ha sfidato il mito della crescita infinita

di - 5 Dicembre 2022
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Lo scorso 28 ottobre è deceduto, all’età di 84 anni, Herman Edward Daly, economista statunitense. Nonostante Daly non sia particolarmente noto né presso il grande pubblico né negli ambienti economici, la notizia ha avuto un certo risalto sulla stampa oltre oceano[1], mentre in Italia, al di fuori di una cerchia relativamente ristretta di economisti ambientalisti e di ecologisti, è passata pressoché inosservata. Eppure Herman Daly è stato uno studioso di grande importanza, tanto da essere definito qualche anno fa “il più importante economista di cui probabilmente non avete mai sentito parlare”. L’importanza di Daly sta nei suoi fondamentali contributi scientifici, nelle sue intuizioni pionieristiche, nelle sue molteplici rilevanti iniziative. Egli è considerato il fondatore dell’“Economia ecologica” (da non confondere con l’”Economia dell’ambiente” di impostazione neoclassica, basata sul concetto di esternalità).

 

Daly nacque a Houston, in Texas, nel 1938; dopo aver intrapreso gli studi economici, conseguì il Ph.D. alla Vanderbilt University di Nashville (Tennessee) ed insegnò per circa venti anni alla Louisiana State University di Baton Rouge (Louisiana), che lasciò nel 1988 per assumere un impiego da senior economist in Banca Mondiale. Lasciata l’istituzione di Washington D.C. nel 1994, fu docente alla School of Public Policy della University of Maryland – College Park fino al pensionamento avvenuto nel 2010. Da quel momento ha continuato da Emeritus la sua infaticabile attività di saggista[2].

 

Sulla formazione di Daly hanno inciso profondamente la lettura delle opere di due economisti classici, Thomas R. Malthus e John Stuart Mill, e gli insegnamenti che Nicholas Georgescu-Roegen aveva impartito alla Vanderbilt. In particolare, Daly ha tratto dall’economista di origine romena l’idea che il processo economico ha una natura entropica, cioè consiste in ultima analisi nel trasformare risorse naturali a bassa entropia, dotate di valore, in scarti ad alta entropia; e poiché il Pianeta ha dei limiti fisici, le sue risorse sono disponibili in quantità finita (a parte l’energia solare che si può assumere infinita). Pertanto lo sfruttamento della materia e dell’energia e l’uso del Pianeta come pattumiera, che sono correlati al volume della produzione e del consumo ed all’entità della popolazione mondiale, non potranno andare avanti per sempre. La crescita economica non fa che accelerare il “punto di non ritorno”.

Kenneth Boulding, altro grande economista eterodosso, affermò così che «chiunque creda che la crescita esponenziale possa continuare per sempre in un mondo finito o è un pazzo o è un economista». L’accostamento ai pazzi non provocò reazioni degli economisti (non saprei dire se l’accostamento agli economisti abbia provocato reazioni dei pazzi), i quali continuarono (e continuano) a propugnare la crescita del PIL come una panacea, la soluzione possibile e desiderabile di qualsiasi problema economico e sociale. Daly, invece, dal riconoscimento dell’impossibilità della crescita materiale infinita in un ambiente finito ha tratto le logiche conseguenze, cioè ha messo in discussione la crescita economica come obiettivo dell’economia. Egli, oltre a sottolineare che la disponibilità delle risorse incontrerà presto o tardi dei limiti rendendo impossibile un’ulteriore crescita economica, ha notato che già prima di quel punto critico la crescita non sarà desiderabile, poiché si verificherà scarsità di risorse, guerre fra gli Stati e conflitti tra gli individui per l’utilizzo delle risorse residue, nonché crescente inquinamento dell’acqua e dell’aria.

Secondo Daly la crescita non sfugge ad una legge fondamentale della microeconomia: all’aumento della produzione e del consumo l’utilità marginale dei beni prodotti e consumati diminuisce, mentre cresce la loro disutilità marginale; oltre un certo punto la disutilità diventa maggiore dell’utilità e la crescita diventa “anti-economica”. Non è facile individuare quel punto, ma per Daly nei paesi avanzati è già stato superato da alcuni anni.

Secondo Daly gli economisti ortodossi non “vedono” i limiti biofisici del Pianeta ed i vincoli che questi ultimi pongono al sistema economico, né “vedono” come la crescita possa apportare danni oltre che benefici. Questa “cecità” dipende dalla loro “visione preanalitica” (per usare la terminologia schumpeteriana), basata su alcuni assunti.

Il primo assunto è la considerazione del sistema economico come un sistema isolato, che non dipende dall’ambiente bio-fisico circostante. È indicativo al riguardo il largo utilizzo della funzione di produzione aggregata, secondo la quale l’aumento del PIL è funzione dei due fattori della produzione, il numero dei lavoratori ed il capitale impiegato, ai quali talvolta viene aggiunto un terzo fattore, la tecnologia (o il progresso tecnologico). Come Daly ha fatto notare (recuperando le idee degli economisti classici e di Alfred Marshall), quella che noi chiamiamo “produzione” è in realtà una trasformazione di materia prelevata dalla Terra, effettuata con l’ausilio di energia. La funzione di produzione considera solo gli agenti di questa trasformazione, ma non ciò che viene trasformato, cioè appunto le risorse naturali, né considera l’energia necessaria a quella trasformazione. «Gli economisti neoclassici» ha scritto Daly, «senza arrossire, scrivono equazioni nelle quali per ottenere flussi di output di materia non sono richiesti flussi di materia come input»[3]. Così, ad esempio, secondo la logica della funzione di produzione per produrre tonno in scatola occorrono solo operai (il fattore lavoro) e macchine inscatolatrici (il fattore capitale), ma non tonni pescati: in tal modo il problema dell’overfishing non si pone per definizione. Inoltre, Daly ha rilevato che la funzione di produzione non contempla gli scarti del processo produttivo, cioè l’inquinamento ambientale: i miliardi di tonnellate di CO2 immessi ogni anno nell’atmosfera che alterano il clima ed i milioni di tonnellate di plastica che arrivano ogni anno negli oceani derivano da processi produttivi, ma per gli economisti standard che utilizzano la funzione di produzione tradizionale non esistono.

Il secondo assunto della visione tradizionale – che secondo Daly impedisce agli economisti di vedere che oltre un certo livello la crescita economica diventa più dannosa che utile – è l’ossessivo riferimento al PIL. Questo indicatore infatti mischia flussi monetari relativi a produzioni che apportano benessere con flussi monetari resi necessari da situazioni di malessere. Come Daly e tanti altri hanno rilevato, i flussi monetari posti in essere per riparare i danni all’ambiente ed alle persone andrebbero sottratti al PIL, non sommati; ma per gli economisti tradizionali ciò che conta è massimizzare il PIL, e se un aumento di questo aggregato è dovuto alle spese per la rimozione dei cadaveri e delle macerie dopo il crollo di un ponte, ben venga.

Per mostrare i limiti del PIL come indicatore del benessere Daly ha elaborato l’Index of Sustainable Economic Welfare (ISEW), che tiene conto di vari fattori, come i costi ambientali e la distribuzione del reddito, non considerati né dal PIL né da indici del benessere alternativi elaborati in precedenza. Daly con l’ISEW ha dato il via ad un fertile campo di ricerca che ha avuto importanti sviluppi negli anni successivi[4].

Il terzo assunto della visione tradizionale contestato da Daly è l’ottimismo tecnologico, secondo il quale la tecnologia eliminerà ogni scarsità facendo trovare risorse oggi inaccessibili (magari su altri pianeti) e consentirà di realizzare il cosiddetto decoupling, cioè il “disaccoppiamento” tra crescita della produzione e consumo di risorse. «Ma», come ha scritto Daly, «la nozione che si possa salvare il paradigma della ‘crescita per sempre’ dematerializzando l’economia, oppure ‘dissociandola’ dall’uso delle risorse, o sostituendo risorse con informazione, è pura fantasia»[5].

 

Alla visione tradizionale degli economisti Daly ha opposto un nuovo paradigma, quello dell’economia ecologica, che tiene conto dei vincoli che l’ambiente biofisico pone al sistema economico globale; e per tener conto adeguatamente di quei vincoli Daly ha proposto di realizzare nei paesi avanzati un’economia in stato stazionario, cioè un assetto nel quale gli stock di popolazione e di manufatti (beni di consumo e beni capitali) sono costanti nel tempo. Un sistema del genere, secondo Daly, consentendo di stabilizzare l’input di risorse naturali prelevato dall’ambiente e l’output riversato in esso sotto forma di rifiuti, gas di scarico e calore, rallenterebbe il depauperamento delle risorse terrestri e migliorerebbe la qualità della vita della generazione attuale, e soprattutto consentirebbe una vita migliore alle generazioni future. Daly ha trattato compiutamente il tema nel volume Steady-State Economics[6]. In quest’opera tra l’altro l’economista statunitense ha risposto alle possibili obiezioni al suo modello, in particolare quella secondo la quale lo stato stazionario condannerebbe alla povertà perpetua i paesi poveri; in realtà egli ha precisato che questi ultimi dovrebbero continuare a crescere per un certo periodo, purché il reddito e la ricchezza in quei paesi non siano distribuiti in modo eccessivamente sperequato e purché la popolazione non cresca eccessivamente, cose che neutralizzerebbero i benefici della crescita.

Naturalmente Daly è stato sempre consapevole degli enormi problemi connessi alla realizzazione di questo assetto economico. A quali livelli fermare gli stock? E come? Per quanto tempo?

I livelli secondo l’economista texano andrebbero stabilizzati ad un livello ecologicamente sostenibile per un lungo futuro[7], e questo dovrebbe ovviamente comportare delle restrizioni al livello di vita attuale dei paesi ricchi, livello peraltro che comporta inutili sprechi.

La limitazione del capitale dovrebbe avvenire secondo Daly fissando la quantità dei diritti di sfruttamento delle risorse naturali, che dovrebbero essere venduti in aste gestite dallo Stato. L’utilizzo delle risorse non dovrebbe quindi essere affidato al mercato, che dovrebbe continuare a determinare l’allocazione delle risorse stesse solo all’interno di confini imposti dall’ecologia e dall’etica. Infatti il mercato, ha scritto Daly, non può di per sé stesso mantenere il livello globale di sfruttamento delle risorse al di sotto dei limiti ecologici ed insieme conservare le risorse per le generazioni future ed evitare forti disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza e del reddito, né può impedire la sovrappopolazione.

I livelli ai quali andrebbero mantenuti gli stock di persone e manufatti per Daly non sarebbero congelati per l’eternità: come risultato dell’evoluzione tecnica e morale la collettività potrebbe ritenere possibile e desiderabile farli crescere o declinare, passando così da uno stato stazionario ad un altro.

In un sistema economico in stato stazionario l’attenzione passerebbe dalla crescita del prodotto alla distribuzione della ricchezza: non si punterebbe ad una “torta” sempre più grande, ma ci si dovrebbe accontentare della torta che c’è, facendo “fette” di dimensioni non troppo diverse, poiché una distribuzione troppo diseguale del reddito e della ricchezza spezza i legami che tengono unite le comunità, crea instabilità finanziaria e fomenta la violenza. Queste riflessioni di Daly sulla distribuzione risalgono già agli anni Settanta del secolo scorso e hanno quindi preceduto di decenni quelle, per certi aspetti analoghe e molto celebri, di Stiglitz e Piketty.

Per giungere al nuovo assetto economico Daly ha ritenuto necessario un profondo ripensamento della logica e dello strumentario degli economisti, le cui dottrine, elaborate nel passato, non sono più adeguate a comprendere il “mondo pieno” (di beni e di persone) dei nostri tempi. A questo obiettivo egli ha rivolto la sua opera forse più ambiziosa, For the Common Good, pubblicata nel 1989 insieme al teologo John Cobb Jr.[8] Nella sua recensione il menzionato Kenneth Boulding ha affermato che «se si rendesse obbligatoria la lettura di questo libro per ogni dottorando in economia, questa scienza difficilmente non ne sarebbe molto migliorata. La sua critica alla dottrina economica è traumatica»[9].

 

Anche se forse Herman Daly passerà alla storia come “l’economista dello stato stazionario”, i suoi contributi hanno spaziato in tanti campi economici, politici e sociali, e sono stati sempre contributi originali e talvolta “scomodi”: egli ha infatti trattato aspetti metodologici della scienza economica, affrontato tematiche fiscali, scritto interessanti articoli sul commercio internazionale e sulla globalizzazione, si è occupato di questioni monetarie e di crisi finanziarie, senza dimenticare le sue profonde riflessioni sull’emigrazione di massa e su questioni etiche.

Con la sua eterodossia Herman Daly si è messo in contrasto con il mainstream e per questo ha pagato un prezzo molto alto anche in termini personali. Peraltro, egli ha gettato le basi per la formazione di una scuola di pensiero che negli Stati Uniti è attiva e relativamente numerosa, ed ha ottenuto numerosi premi ed onorificenze: possiamo ricordare l’Heineken Environmental Prize (1996) assegnatogli dalla Royal Netherlands Academy of Arts and Sciences «per aver fornito un contributo di elevata qualità sia al dibattito accademico sull’ambiente sia alle discussioni politiche sul tema»[10]; lo Sweden’s Honorary Right Livelihood Award (1996), noto come “Premio Nobel Alternativo”, conferito a Daly per aver «definito un sentiero di economia ecologica che integri gli elementi chiave dell’etica, della qualità della vita, dell’ambiente e della comunità»[11]; il Sophie Prize per l’ambiente e lo sviluppo (1999); il Leontief Prizefor Advancing the Frontiers of Economic Thought” (2001); la Medaglia d’oro del Presidente della Repubblica Italiana (2002). Ancora, nel 2010 Daly ha ricevuto il Lifetime Achievement Award assegnato dal National Council for Science and the Environment e nel 2014 il Blue Planet Prize assegnato dall’Asahi Glass Foundation di Tokio con la seguente motivazione: «Il prof. Daly ha gettato le basi per l’economia ecologica, che sostiene il principio di sostenibilità incorporando elementi relativi alle risorse naturali, alle comunità locali, alla qualità della vita ed all’etica nell’economia»[12]. Concludiamo questo elenco, non completo, rammentando l’ammissione nel febbraio 2016 di Herman Daly alla Kyoto Earth Hall of Fame, che annovera personalità che hanno contribuito alla preservazione dell’ambiente globale[13].

Nonostante questi riconoscimenti l’opera di Herman Daly ha ricevuto scarsa attenzione dalla grande maggioranza degli economisti, dei politici e degli operatori dell’informazione; tra i suoi colleghi solo in pochi hanno affrontato le tematiche da lui sollevate e in pochissimi si sono confrontati direttamente con lui nel merito di quelle tematiche, in genere muovendo critiche anche aspre. Come ha scritto Daly nel 2007 nell’Introduzione ad una raccolta di suoi scritti, i suoi critici si sono divisi in due categorie: «La prima è composta da coloro che dicono che io semplicemente sbaglio, dovrei ritrattare completamente e d’ora in poi stare zitto (questi sono spesso i miei colleghi economisti). La seconda è composta da coloro che affermano che quello che dico è assolutamente vero, ma anche assolutamente banale, perché nessuna persona sana di mente ha mai sostenuto l’opposto (questi critici sono spesso scienziati)»[14]. Ora, che l’economia sia un sottosistema dell’ecosistema e non possa crescere all’infinito sono cose che per gli scienziati sono banalità, ma, ha scritto Daly, sono banalità che devono essere ripetute perché il mondo dell’economia e quello della politica non le tengono in alcuna considerazione, in quanto «tutte le nazioni sono decise a favorire la crescita delle loro economie», e «la crescita è il summum bonum di economisti e politici»[15]. Gli scienziati sembrano non comprendere che non è affatto banale scalzare dal mondo dell’economia queste convinzioni e «portare le leggi dell’economia ad essere conformi alle leggi biofisiche»[16]. Per quanto concerne invece coloro, cioè la maggior parte degli economisti, che ritengono errate le sue idee, Daly ha chiesto: «In che cosa sbaglia la mia tesi? Quale delle mie assunzioni (considerate banalmente vere dagli scienziati!) sono errate? O dov’è il passo falso logico del ragionamento? È logicamente falso che la crescita di un sottosistema è vincolata dalla non-crescita e finitezza del sistema globale di cui fa parte?»[17] Daly per 15 anni ha atteso invano le risposte a queste domande. Ora ci ha lasciato, la sua attesa è finita. Noi continuiamo ad attendere, anche se, dato il lungo tempo trascorso, abbiamo il dubbio che gli economisti che sono rimasti impassibili di fronte alle sue critiche, nonché quelli che hanno detto che egli ha commesso errori e che avrebbe fatto meglio a tacere, non risponderanno perché non hanno argomenti validi.

[1] Cfr., tra gli altri, gli obituaries comparsi sul New York Times (https://www.nytimes.com/2022/11/08/business/economy/herman-daly-dead.html) e sul Washington Post (https://www.washingtonpost.com/obituaries/2022/11/04/herman-daly-ecological-economist-dead/), nonché l’Obituary scritto da Peter Victor su The Guardian (https://www.theguardian.com/books/2022/nov/11/herman-daly-obituary).

[2] Per un’ampia biografia di Herman Daly e per informazioni sulle principali tematiche da lui trattate si rinvia a P. Victor (2021), Herman Daly’s Economics for a Full World – His Life and Ideas, Routledge.

[3] H. E. Daly (1999), A Note on Neoclassical Theory and Alchemy, in Ecological Economics and the Ecology of

Economics – Essays in Criticism, E. Elgar, p. 91 (trad. mia).

[4] Per una sintesi cfr. L. Fioramonti (2017), Presi per il PIL, L’Asino d’oro edizioni, p. 103ss.

[5] H. E. Daly (1996), Beyond Growth: The Economics of Sustainable Development, Beacon Press; ed. it. Oltre la crescita. L’economia dello sviluppo sostenibile, Edizioni di Comunità, 2001, p. 39.

[6] H. E. Daly (1977), Steady-State Economics: Toward a Political Economy of Biophysical Equilibrium and Moral Growth, W. H. Freeman; ed. it. Lo Stato Stazionario – L’economia dell’equilibrio biofisico e della crescita morale, Sansoni, 1981. Di recente è apparsa una nuova edizione del volume per LuCe Edizioni.

[7] Sulla capacità di un’economia in stato stazionario di garantire a lungo un futuro all’Umanità, Daly ha avuto una lunga diatriba col suo maestro, Georgescu-Roegen.

[8] H. E. Daly, J. Cobb Jr. (1989), For the Common Good. Redirecting the Economy Toward Community, the Environment and a Sustainable Future, Beacon Press: ed. it. Un’economia per il bene comune, Red Edizioni, 1994.

[9] Cit. in https://www.ecobooks.com/books/comgood.htm (trad. mia).

[10] Cfr. https://www.heinekenprizes.org/portfolio-items/herman-e-daly/?portfolioCats=12%2C13%2C14%2C15%2C16%2C17 (trad. mia).

[11] Cfr. https://rightlivelihood.org/the-change-makers/find-a-laureate/herman-daly/.

[12] Cfr. http://www.blueplanetprize.org/en/projects/projects.html (trad. mia).

[13] Cfr. http://www.pref.kyoto.jp/earth-kyoto/en/inductees/index.html.

[14] H. E. Daly (2007), Ecological Economics and Sustainable Development, E. Elgar, p. 2 (trad. mia).

[15] Ib. p. 3 (trad. mia).

[16] Ib. (trad. mia).

[17] Ib. (trad. mia).


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