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Recensione a G. Toniolo, “Storia della Banca d’Italia. Tomo I. Formazione ed evoluzione di una banca centrale, 1893-1943”, il Mulino, Bologna 2022

di - 25 Ottobre 2022
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Questo gran libro costituisce il degno coronamento del progetto avviato quarant’anni fa dalla Banca d’Italia nella previsione del suo centenario. La scelta –avallata da Federico Caffè, il solo economista a cui l’Istituto chiese consiglio – fu di non limitarsi alla monografia autobiografica. Prima e dopo la data del centenario – 1993 – negli anni sono stati prodotti da studiosi e per gli studiosi una cinquantina di volumi di documenti, dati, fonti giuridiche, analisi specifiche. Alla gratitudine di chi è interessato a questi temi vanno quindi additate due figure: il Governatore Ciampi, che quella scelta di metodo fece, e Franco Cotula, economisti fra i migliori della Banca, che l’ha magistralmente realizzata.

Il libro avvalora la scelta. I contributi derivati da quella scelta sono riflessi nel volume di Toniolo con rigore filologico, chiarezza espositiva, padronanza della storiografia economica italiana più aggiornata, abbondanti riferimenti alla dimensione internazionale. Altro che l’incompletezza confessata dall’Autore! Nelle 800 pagine del libro in realtà c’è tutto e la lettura suscita più di un commento.

Il primo rimanda al contributo di Curzio Giannini, uno dei più acuti cultori di teoria e storia del central banking. Ciò che soprattutto interessa è la ragion d’essere permanente delle banche centrali moderne. Giannini valorizzava la loro solidità e la loro azione ai fini dell’affermarsi della moneta fiduciaria rispetto alla circolazione metallica. Quella azione è stata assolutamente cruciale in una prima fase, ottocentesca, come venne chiarito dalla lungimirante Enquiry into the Nature and Effects of the Paper Credit of Great Britain (Hatchard, London, 1802) di Henry Thornton, M.P., opportunamente richiamata nel libro. E’ seguita poi una seconda fase, novecentesca e attuale, che oltre all’aspetto lucidamente teorizzato da Giannini ha visto lo Stato trasferire alla banca centrale il governo della moneta. Lo Stato si è così spogliato della responsabilità diretta in una materia spinosa, orticante, dove l’incidente è sempre dietro l’angolo: meglio cederla ad altri, alla banca centrale! Come Keynes sancì ne “La fine del laissez-faire” tra il 1924 e il 1926, il trasferimento dei poteri monetari implicava per la banca centrale autonomia e quindi discrezionalità.

Le due ragioni dell’esistere delle banche centrali moderne sembrano complementari. Nel caso italiano il libro documenta l’emergere delle due ragioni in una economia pervenuta con pronunciati squilibri e irta di contraddizioni alle istituzioni del capitalismo. Quell’emergere è stato tanto tardivo quanto convulso e concentrato nel tempo. Si situa nei brevi anni compresi tra le crisi bancarie a cavallo del 1890 culminate nel verminaio della Banca Romana, da un lato, e la Banca d’Italia che cominciava a occuparsi dell’intera economia, dall’altro lato. Giolitti fondò la Banca d’Italia nel 1893, all’apice di quella crisi, economica e bancaria, ma anche morale e politica. Poi da statista le lasciò fare politica economica già nello scorcio iniziale del nuovo secolo. Pur dovendo accettare compromessi nel costituirla, l’aveva voluta, idealmente, autonoma dall’esecutivo: “Se il governo dovesse esso mettere a capo di un Istituto d’emissione una persona sua, io credo che sarebbe un inconveniente grave”, diceva. La lezione di Giolitti, altamente civile nella democrazia liberale, è sempre attuale.

Fra il 1914 e il 1920 i prezzi all’ingrosso aumentarono in Italia di sei volte. Il conflitto impegnò oltre il limite l’economia del Paese, che era arretrata. Lo sforzo produttivo e l’arretratezza implicavano inflazione di per sé, qualunque cosa la banca centrale del Direttore Bonaldo Stringher facesse. Nel 1919-1920 la riconversione all’economia di pace fu ardua, il cambio cedette ed esplosero lotta di classe e salari. Tutto ciò solleva più di un dubbio sulle interpretazioni monetarie dell’inflazione di quegli anni.

La politica monetaria nel periodo fascista appare fino al 1935 anticiclica, stabilizzatrice, almeno nel segno: restrittiva nel 1925-1926, gli anni della speculazione di borsa, dell’inflazione, del sostegno alla lira prima debole poi forzata a “quota 90”; espansiva poi, negli anni di recessione. Nel 1932-1933 Duce e Beneduce esclusero la Banca d’Italia dal facimento dell’IRI perché era essa stessa sull’orlo del dissesto. Proprio la larghezza con cui aveva prestato a capitalisti in fuga dalle difficoltà delle loro aziende aveva bruciato quasi metà del suo bilancio. Che altro potevano fare Stringher (Governatore dal 1928) e dopo di lui Vincenzo Azzolini di fronte al crollo di industrie e banche, se non cercare di rinviarlo? Gli errori di politica monetaria colti al microscopio odierno, analiticamente impietoso quello di Cotula e Luigi Spaventa, vanno giudicati con qualche benevolenza. Fra l’altro, non si disponeva né di statistiche tempestive né di modelli econometrici né di plotoni di dottori in matematica economica. Le banche centrali attuali, che pure dispongono di quelle risorse, hanno lasciato colpevolmente trascorrere tutto il 2021 e metà del 2022 senza fare nulla contro un’inflazione montante. L’inflazione era prevedibile e controllabile innalzando tempestivamente, d’anticipo, i tassi a breve. Infatti, era innescata dai sostegni a una domanda globale che, essendo già in ripresa, tendeva a eccedere l’offerta, irrigidita dal covid. Solo dal marzo scorso si sono aggiunte le spinte sui costi derivanti dal conflitto fra Russia e Ucraina.  Quindi le banche centrali sono ora al classico “too strong, too late” con conseguente prossima recessione. Eppure, quasi nessuno le critica…

La larghezza monetaria e i bassi tassi d’interesse della seconda metà degli anni Trenta furono condizionati dalle guerre fasciste: Etiopia, Spagna, conflitto mondiale. La Banca d’Italia venne dimidiata nella sua autonomia dai decreti che nel 1935 le imposero un cosiddetto ”accordo” col  Tesoro per finanziare la spesa pubblica. Le norme imposero l’obbligo di prestare al  Tesoro “quante volte esigenze dello Stato, di carattere straordinario ed eccezionale, (ne) determinassero la necessità”, cioè sempre in quegli anni bellici! Per Azzolini, persino per il suo vice antifascista, Introna, opporsi al regime era impossibile.

Queste considerazioni sono certo viziate dallo spirito di bandiera di chi scrive, ex dirigente della Banca d’Italia. Egli avrebbe ben accolto dal professor Toniolo toni più difensivi, se non un peana, dell’Istituzione. Fare banca centrale in una economia e in una società politica come quella italiana è specialmente difficile, e Via Nazionale vi è riuscita.

Ma il professor Toniolo ha lavorato e scritto con taglio oggettivo e scrupolo scientifico, come doveva.

Miglior riconoscimento alla sua fatica, e alla Banca d’Italia, non può darsi. Si attende il secondo volume!

Link a “Storia della Banca d’Italia Tomo I. Formazione ed evoluzione di una banca centrale, 1893-1943 di Gianni Toniolo”


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