La Cina nella geopolitica dell’energia

La Cina nella geopolitica dell’energia: i combustibili fossili
La Cina è ormai la seconda economia del mondo dopo gli Stati Uniti in termini di Prodotto Lordo Interno, e addirittura la prima se i confronti vengono fatti tenendo conto della diversità dei poteri d’acquisto.
I dati recenti della Banca Mondiale, che prevede per il 2022 una crescita del 2,8 per cento, contro l’8,1 per cento del 2021, a causa delle modalità per la lotta contro le varianti Covid e la crisi del più grande mercato immobiliare del mondo che conta per il 30 per cento dell’attività economica, non cambiano la situazione della Cina come ormai consolidata grande potenza economica.
La Cina svolge un ruolo cruciale nella geopolitica dell’energia sia nel campo dei combustibili fossili (carbone, petrolio e gas naturale) che sono ancora egemoni nel sistema energetico mondiale, sia nel campo delle energie rinnovabili necessarie per affrontare la sfida del cambiamento climatico.
Il sistema energetico della Cina, come del resto quello dell’intero sistema energetico mondiale, è ancora basato in prevalenza sui combustibili fossili.
La Cina è il più grande produttore e consumatore di carbone del mondo; circa la metà di tutto il carbone estratto nel mondo viene dalla Cina; il carbone conta per circa il 60% dell’energia utilizzata in Cina, anche se la percentuale si è ridotta rispetto alla media del 75% del periodo 1990-2010.
L’importanza della Cina nella geopolitica dell’energia nel campo dei combustibili fossili è legata all’aumento delle importazioni di tutti e tre i tipi di combustibili fossili: carbone, petrolio, e soprattutto gas naturale.
Fattore cruciale per l’approvvigionamento energetico della Cina attraverso l’importazione dei combustibili fossili è la Belt and Road Initiative (BRI), lanciata da Xi Jinping ormai quasi dieci anni orsono riprendendo la storica via della Seta che ha legato l’Occidente alla Cina fino all’avvento dell’Impero Ottomano nel 1453.
Belt è l’insieme delle vie di terra che connettono la Cina all’Occidente attraverso i paesi dell’Asia Centrale, attraverso il Pakistan, attraverso la Mongolia e la Russia; Road è l’insieme di vie marittime con le quali la Cina è connessa alla Russia attraverso il Mare del Nord, all’Arabia e alla costa orientale dell’Africa attraverso l’Oceano Indiano, al sud-est asiatico attraverso il Mar Cinese Meridionale.
Elemento contrale della Belt (l’insieme delle vie di terra) in quanto fonte di energia per la Cina è l’Asia Centrale.
L’oleodotto di 2500 km dalla costa orientale del Mar Caspio nel Kazakistan occidentale alla provincia cinese dello Xinjiang (con una portata di 20 milioni di tonnellate/anno) è cruciale per importazione di petrolio in Cina.
Il Turkmenistan, con il gasdotto di 3600 km che lo congiunge alla Cina nello Xinjiang attraverso l’Uzbekistan (con una portata di 25 miliardi di metri cubi/anno), è divenuto il più importante esportatore di gas naturale in Cina.
Il ruolo della Cina nella geopolitica dell’energia nella Belt è stato di recente accresciuto dalla intensificazione della cooperazione con la Russia in seguito alla guerra scoppiata con l’invasione russa dell’Ucraina.
La Russia, infatti, avrà sempre più bisogno della Cina in alternativa alle esportazioni di combustibili fossili verso l’Europa.
L’oleodotto Eastern Siberian-Pacific Ocean (ESPO) che unisce la Russia al nord-est della Cina (15 milioni di tonnellate /anno) ha permesso alla Russia di superare l’Arabia Saudita come principale fornitore di petrolio della Cina.
Il gasdotto Power of Siberia (38 miliardi di metri cubi/anno) porta il gas naturale dalla Russia alla Cina e a altri paesi dell’Asia Orientale.
Power of Siberia 2, entro il 2030, (attesi 50 miliardi di metri cubi/anno) porterà il gas dal giacimento russo di Yamal sul Mare del Nord al nord della Cina via Mongolia.
Nella Road (la via marittima della Belt and Road), è importante il percorso nel Mare del Nord per il trasporto di LNG (gas naturale liquefatto) dal deposito di gas di Yamal in Russia verso la Cina, percorso che, paradossalmente, beneficia dello scioglimento dei ghiacci determinato dal riscaldamento globale.
Nella Road svolgono un ruolo cruciale gli acquisti da parte della Cina di petrolio dal Golfo Persico e dallo Stretto di Hormuz.
Il Medio Oriente rappresenta il 47 per cento del petrolio importato dalla Cina e il 12 per cento del suo fabbisogno di gas naturale.
La protezione del trasporto di petrolio via mare dal Medio Oriente è la giustificazione data dalla Cina per l’apertura della sua base militare a Gibuti.
Ma il fatto che la Cina debba contare sull’Oceano Indiano per gran parte delle sue importazioni di energia fossile per via marittima è la ragione per la quale l’Esercito di Liberazione Popolare sta sviluppando sulle coste di quell’oceano una serie di porti, in collegamento con i porti commerciali, per sostenere il potere militare navale cinese nel lungo periodo.
Al momento ci sono porti o progetti di porti di grandi dimensioni a Koh Kong in Cambogia, a Cittagong in Bangladesh, a Hambantota in Sri Lanka (del quale Pechino si è assicurata la proprietà in caso di non pagamento dell’enorme debito necessario), a Kyaukpyu in Myanmar, collegato a un oleodotto diretto alla provincia dello Yunnan in Cina (anche se i rapporti tra i due paesi sono oggi caratterizzati da tensioni e difficoltà crescenti).
Altri porti sono in progetto in Pakistan, e la Cina sta anche sostenendo la costruzione di porti in Tanzania sulla costa orientale dell’Africa.
Le opportunità commerciali da sole non giustificano gli investimenti fatti dalla Cina in campo portuale nell’Oceano Indiano; l’importanza sembra essere soprattutto strategica, in collegamento con vicini aeroporti, per un futuro possibile uso militare per lo sviluppo di una potenza missilistica nelle regioni interessate.
La Road interessa il Mar Cinese Meridionale sul quale si affacciano Indonesia, Malaysia, Singapore, Brunei, le Filippine, il Vietnam, la Cina e Taiwan, e che è collegato all’Oceano Indiano dallo Stretto di Malacca, sul quale si affaccia Singapore
Nel Mar Cinese Meridionale passa un terzo del commercio mondiale via mare, 15 milioni di barili di petrolio al giorno e un terzo del LNG Mondiale; vi passano due terzi del commercio marittimo della Cina e l’80% delle importazioni di petrolio della Cina.
Nel Mar Cinese Meridionale ci sono i rischi maggiori di conflitto, e non solo perché c’è Taiwan e nord-est di Taiwan le piccole isole Diaoyu, contese perché incorporate dal Giappone alla fine della Seconda guerra mondiale; c’è contrasto tra chi, in quel mare, abbia il diritto di controllare le isole Spratly che occupano un’ampia e cruciale area tra il Vietnam e le Filippine, o le isole Paracelso, un gruppo di scogli e atolli tra la Cina e il Vietnam.
Le pretese della Cina sono basate su mappe degli anni 1930 che certificherebbero la sovranità cinese; le pretese degli altri paesi si basano sulla Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto marittimo entrata in vigore nel novembre 1994, che considera come “acque territoriali” di una nazione quelle costiere non più profonde di 200 metri e come “zone economiche esclusive”, che conferiscono diritti su petrolio, gas naturale e minerali sotto la superficie del mare, quelle distanti fino a 200 miglia dalla costa.
Il problema con la Convenzione è rappresentato dal fatto che sia le acque territoriali sia le zone economiche esclusive dei vari paesi pretendenti si intersecano.
Anche gli Stati Uniti fanno riferimento a quella Convenzione nel sostenere la propria affermazione dell’illegalità delle pretese della Repubblica Popolare Cinese sul Mar Cinese Meridionale; ma gli Stati Uniti non hanno mai ratificato la Convenzione stessa sostenendo che essa va contro gli interessi economici e di sicurezza americani.
Le pretese degli altri paesi che si affacciano sul Mar Cinese Meridionale non sono comunque per ora riuscite a impedire che la Cina scavasse milioni di tonnellate di rocce e sabbia per costruire isole artificiali sulle quali collocare le sue basi militari e intraprendesse iniziative di ricerca di risorse di petrolio e gas naturale.
Le iniziative della Cina in campo energetico nel Mar Cinese Meridionale hanno creato problemi in particolare con il Vietnam e anche con la Russia.
Nel 2014 la protesta del Vietnam contro l’uso di impianti cinesi per cercare petrolio in acque a est della sua costa, che il Vietnam reclamava come sue, ha costretto la Cina a ritirare gli impianti.
Nel 2019 la russa Rosneft, in partnership con la società petrolifera di stato del Vietnam, ha cominciato l’esplorazione di petrolio in acque vietnamite; la Cina ha inviato sul posto navi militari costringendo la Rosneft a rinunciare al progetto.

La Cina nella geopolitica dell’energia: la lotta al cambiamento climatico.
Il ruolo della Cina nella geopolitica dell’energia non riguarda soltanto i combustibili fossili, ma anche il suo impegno nella transizione energetica necessaria per affrontare il problema del cambiamento climatico.
Nonostante la Cina sia il più grande produttore del mondo di energia solare e eolica, ha continuato a aumentare le emissioni annue di CO2, fino a superare, dal 2006, quelle degli Stati Uniti diventando il più importante paese emittente di gas serra.
Nel 2019 le emissioni della Cina hanno superato quelle di tutti i paesi del mondo sviluppato messi assieme.
Un altro vantaggio della Cina nel campo delle energie rinnovabili è costituito dal fatto di essere diventata il più grande produttore al mondo di batterie necessarie per i veicoli elettrici e per affrontare il problema dell’intermittenza dell’energia solare e eolica.
La Cina controlla circa il 90 per cento dell’offerta mondiale di materie rare, come litio, cobalto e nickel, richieste per la produzione delle batterie con lo sfruttamento di miniere soprattutto nella Repubblica Democratica del Congo e nello Zimbabwe, e anche in Cile, in Argentina e in Australia.
Quando Barack Obama era presidente degli Stati Uniti, il presidente della Repubblica Popolare Cinese Xi Jinping si è impegnato con lui per il successo degli accordi di Parigi del 2015.
Xi Jinping ha però poi allentato gli impegni della Cina nella lotta al cambiamento climatico dopo la decisione del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump di uscire dall’accordo di Parigi; ma ha ripreso il suo impegno con la presidenza Biden.
La Cina ha recentemente annunciato che non finanzierà più la costruzione di nuovi impianti a carbone in altri paesi, fatto importante visto che metà degli impianti a carbone nel mondo sono di costruzione cinese.
Nell’autunno del 2020 Xi Jinping ha annunciato un sentiero di neutralità climatica per la Cina caratterizzato dall’obiettivo di arrivare al massimo delle emissioni di CO2 nel 2030 e all’annullamento delle emissioni nette entro il 2060.
Questo obiettivo è più gradualista di quello affermato ad esempio dall’Unione Europea di azzerare le emissioni nette di CO2 nel 2050 come condizione perché si raggiunga l’obiettivo dell’accordo di Parigi di evitare che il riscaldamento globale superi 1,5° C rispetto al livello pre-industriale.
Questo atteggiamento più gradualista dimostrato non solo dalla Cina, ma anche da paesi in via di sviluppo e emergenti, cominciando dall’India, in occasione della riunione della COP 26 a Glasgow, è stato criticato in Occidente; ma, almeno per quanto riguarda la Cina, ritengo si sia piuttosto trattato di realismo.
Recentemente il governo cinese ha richiesto all’International Energy Agency un rapporto che descrive lo scenario secondo il quale la Cina può raggiungere l’obiettivo di neutralità climatica annunciato da Xi Jinping.
Lo sforzo richiesto dalla Cina per la transizione energetica necessaria per il raggiungimento della neutralità climatica nei tempi indicati è enorme.
La quota delle energie a basso contenuto di carbonio (solare, eolica, bioenergia, nucleare e idroelettrica) dovrebbe salire dall’attuale 15% al 75% nel 2060, con il solare e l’eolico che dovrebbero diventare le più importanti fonti di energia rinnovabile.
Al 2060 la domanda di carbone dovrebbe essere caduta dell’80 per cento, quella di petrolio del 60 per cento e quella di gas naturale del 45 per cento.
La quota combustibili basati su idrogeno verde, ottenuto con elettrolisi a basso contenuto di carbonio, dovrebbe salire al 10% nel 2060.
Investimenti rilevanti dovrebbero andare a strutture per la cattura, l’accumulazione e l’utilizzo del carbonio (CCUS) che dovrebbero entrare in funzione soprattutto tra il 2030 e il 2060.
Per arrivare a questi risultati le esigenze di investimenti per riorganizzare radicalmente l’economia sono enormi: la Cina dovrebbe investire più di $5 trilioni entro il 2060;; ma secondo alcune stime si andrebbe oltre i $10 trilioni; e questo senza tener conto del necessario ridisegno in senso “low carbon” degli investimenti progettati nella Belt and Road Initiative.
Non si può dire se la Cina riuscirà effettivamente ad implementare queste politiche; il 25 ottobre 2021 il Consiglio di Stato della Cina ha comunque rilasciato un suo piano per il raggiungimento della neutralità climatica, che specifica ulteriormente il piano proposto nel rapporto dell’IEA.
Le recenti tensioni tra Stati Uniti e Cina, sia con riferimento alle modalità con cui la Cina si è posta di fronte all’invasione russa dell’Ucraina, sia con riferimento al problema di Taiwan, hanno già rimesso in discussione precedenti dichiarazioni bilaterali di cooperazione sul tema della lotta al cambiamento climatico.
Le possibilità che le tensioni geopolitiche, soprattutto tra Stati Uniti e Cina, che vanno ormai al di là di quelle riguardanti l’energia, pur ricomprendendole, non sfocino in uno scontro militare globale stanno nella ripresa di un minimo di realismo necessario a non chiudere le porte a possibili nuovi livelli di fiducia reciproca.
Vedremo cosa uscirà dal vicino prossimo Ventesimo Congresso del Partito Comunista Cinese; quello che comunque possiamo dire è che, data la situazione attuale, più che sulle previsioni si deve contare sulla speranza.