Il primo tentativo di costruzione giuridica di una “nuova” Cina: la costituzione provvisoria del 1912

Per il loro valore simbolico, le costituzioni si prestano a fungere da momenti spartiacque nella storia giuridica e politica di un paese, spesso con qualche semplificazione, ma con indubbia efficacia divulgativa. Generalmente, le costituzioni possono rappresentare o il condensato di una tradizione giuridica già esistente, oppure una proiezione, verso il futuro, di un modello di governo ancora sperimentale, uno sforzo di traduzione della teoria e dell’ideologia nella pratica dei rapporti istituzionali.
In un paese come la Cina, che nel XX secolo ha promulgato ben sei costituzioni diverse, questi due “approcci costitutenti” si sono spesso alternati. Gli studiosi hanno così messo in evidenza non solo la difficoltà di far corrispondere volontà politica dei costituenti e necessità pratiche del governo, ma anche lo sforzo di armonizzare spinte progressiste (democratiche, liberiste o socialiste che fossero) e cultura cinese del potere e dei rapporti fra cittadini ed istituzioni.
In queste brevi righe, vogliamo concentrarci sul primo passaggio del costituzionalismo cinese del novecento, sul primo esempio di costituzione cinese propriamente detta, ovverosia la “Costituzione provvisoria” del 1912, che segna il passaggio dall’impero alla repubblica.
Va subito detto che le vicende storiche di questa costituzione furono così travagliate che, di fatto, essa ebbe un’applicazione pratica, nel tempo e nello spazio, estremamente limitata, a dispetto di una formale abrogazione arrivata solo nel 1946. Essa però, se non altro per il suo valore simbolico, può essere utilizzata come spunto per comprendere, seppur in sintesi, quali forze riformatrici e quali progetti ideologici furono messi in campo all’indomani della caduta dell’impero.

1. La frammentazione del potere nel morente impero Qing
In effetti, l’idea che forse meglio di altre fotografa la Cina “giuridica” a cavallo della fine dell’impero è quella di una frammentazione del potere. Le sconfitte militari – specie quella col Giappone nel 1894-1895 la fallita “Rivolta dei Boxers” nel 1901 – avevano messo a nudo l’arretratezza tecnologica e la debolezza dello status internazionale dell’Impero Qing. Il fallimento dei movimenti di riforma – su tutti i c.d. “cento giorni” del 1898 – avevano palesato l’irrimediabile conservatorismo culturale del governo imperiale. Infine, lo scarso impatto immediato dell’importazione di modelli stranieri di diritto civile e commerciale aveva ulteriormente messo in dubbio la capacità stessa della costruzione imperiale di rinnovarsi anche di fronte ai problemi del nuovo commercio.
Tutta questa serie di avvenimenti, tuttavia, aveva fatto emergere e, se non formalizzato, quantomeno irradiato di luce la crescente lacerazione dei fili amministrativi dell’impero, a partire dalla questione delle nazionalità[1]. In effetti, la contraddizione secolare rappresentata dalla dominazione di un’etnia straniera (i mancesi, etnia della dinastia imperiale) su di un territorio abitato per la stragrande maggioranza da popolazione Han si riproponeva, anche nella logica di potenziali riforme istituzionali. La concezione, consolidatasi nei secoli, di una multietnicità della “comunità” cinese[2], non poteva nascondere, specie negli ultimi anni dell’impero, la crescita di sentimenti “nazionali” fra i gruppi riformisti di etnia Han[3].  Analogamente, riemergeva la questione di regioni periferiche dell’impero, come la Mongolia esterna (l’attuale Mongolia) o il Tibet, abitati da etnie ancora diverse. L’impero Qing, nonostante alcune esperienze di legislazione differenziata (ad esempio nei confronti dei mongoli[4]) non possedeva una struttura amministrativa e legale in grado di gestire, o in senso centralista o decentralista, tale complessità. In un’epoca in cui, peraltro, altri grandi imperi (quello Austro-Ungarico, quello Russo, quello Ottomano) si confrontavano faticosamente con i mosaici di nazionalità al loro interno[5], la coesione amministrativa, perlomeno formale, dell’impero dei Manciù si affidava in via rilevante alla presenza di una classe “unificata” di burocrati e funzionari che circolavano, nell’arco della propria carriera, negli uffici delle varie regioni dell’impero.
Anche questo elemento era però destinato a cadere. L’abolizione degli esami imperiali di accesso alla carriera burocratica (1905) da un lato aveva risposto ai dubbi di chi considerava questi esami antiquati perchè poco focalizzati sia sulle materie più “attuali” dell’amministrazione sia sui metodi più moderni (vale a dire, per quell’epoca, occidentali) dell’amministrare[6].
Dall’altro lato, però, la chiusura di tali esami aveva eliminato d’un colpo quello che per secoli, nonostante le indubbie inefficienze, era stato un formidabile canale non solo di mobilità sociale e territoriale dei funzionari, ma anche di coesione politica e culturale per le elites dell’impero. Dopo l’abolizione, moltissimi giovani ben istruiti che prima avrebbero aspirato a far parte dei “mandarini” di stato, trovarono posto nei ranghi delle amministrazioni locali, rafforzandone la coesione ed un certo qual senso di indipendenza organizzativa[7].

2. Le posizioni dei riformisti
Di fronte a un quadro tanto complesso e frammentario, il “pensiero” riformista non era, a ben vedere, in grado di offrire un’alternativa unitaria e coerente. Protagonisti del pensiero politico e giuridico cinese come Kang Youwei, Liang Qichai e, forse più famoso degli altri in occidente, Sun Zhongshan (noto “da noi” come Sun Yat-Sen) avevano manifestato, nei loro scritti, un certo tormento nel provare a coniugare da un lato la ricezione di alcune strutture di governo occidentali e dall’altro l’ammodernamento di alcuni paradigmi culturali della tradizione cinese che, nonostante tutto, si era restii ad abbandonare perchè giudicati fondamentalmente validi. Aveva così fatto la sua comparsa in Cina, a cavallo dei due secoli, il concetto di “autocrazia illuminata” – in parte ripreso dal “dispotismo illuminato” del XVIII secolo europeo – proposto quale opportuna fase “intermedia” fra l’autocrazia tradizionalista dei Qing e la costruzione di una forma democratica adattata alle peculiarità cinesi[8].
Ancora, il favore espresso, nel pensiero riformista, verso forme di autogoverno delle comunità locali facevano leva su un’idea di auto-controllo ed auto-elevazione che riecheggiava la concezione confuciana per cui dall’elevazione etica del singolo sarebbe derivata l’elevazione etica del governo delle comunità, via via crescenti, in cui gli uomini si trovavano ad operare[9]. Così, il perfezionamento dei governi locali, a partire dalle unità più piccole e basilari, avrebbe potuto agevolare la “bontà” e la qualità dei governi dei livelli man mano superiori.
Lo stesso Sun-Yat Sen, facendo tesoro dei suoi lunghi periodi di permanenza e studio all’estero, aveva sempre cercato di interpretare il riformismo alla luce di alcune “caratteristiche cinesi”. I suoi tre principi fondamentali del governo – nazionalismo, democrazia, benessere del popolo – erano sì influenzati dal costituzionalismo americano, ma sottolineavano altresì un rapporto tra governanti e governati che si richiamava al binomio obbedienza-benevolenza tipico del pensiero confuciano. Ancora, la sua teoria della separazione dei poteri, come noto, aveva aggiunto ai tre poteri classici (legislativo, esecutivo, giudiziario) un potere di controllo e un potere “di esame”, quest’ultimo chiaramente influenzato dalla tradizione degli esami imperiali. Se quindi da un lato Sun-Yat Sen preconizzava l’esistenza di un organo indipendente deputato al controllo degli altri poteri, dall’altro promuoveva altresì la legittimazione di un ulteriore potere distinto che si sarebbe occupato della selezione dei funzionari pubblici, della classe dirigente, separando quindi quest’ultima funzione dall’apparato direttamente dipendente dal potere esecutivo.
Vi era quindi, tra i riformisti cinesi, una parziale convinzione che fosse impossibile (o comunque inopportuno) trapiantare direttamente in Cina modelli costituzionali e di governo stranieri. Allo stesso tempo, tuttavia, non vi era una teorizzazione compiuta circa una possibile strategia di ricostruzione delle strutture di potere, nè del resto vi era una effettiva coerenza e compattezza del fronte riformista. Esistevano gruppi di maggiore impatto ed influenza, come il Tongmenghui, fondato in Giappone dallo stesso Sun-Yat Sen e da Song Jiaoren a partire dalla fusione di numerosi gruppuscoli precedenti. Esisteva però anche una notevole frammentazione delle forze politiche (clandestine) di opposizione ai Qing e, specie negli ultimissimi anni prima del crollo dell’impero, anche gli spiriti rivoluzionari, in molti casi, tendevano ad avere un forte radicamento locale, nelle varie province, più che un coordinamento veramente “nazionale”.
Su queste premesse, è più facile forse capire come mai, al crollo dell’impero, di fatto nessuna delle concezioni riformiste vide concretamente attuazione.

3. Rivoluzione e costituzione. L’influenza del modello statunitense
Le sommosse del 1911, specie nel Sichuan e poi, come noto, a Wuchang in ottobre, portarono con molta rapidità a trattative fra forze imperiali e rivoluzionari (già dal novembre 1911) e poi all’abdicazione dell’imperatore Puyi (febbraio 1912)[10]. Dietro questa formidabile velocità si nascondevano però equilibri fragilissimi. In primo luogo, l’insieme delle rivolte che compongono la c.d. Rivoluzione Xinhai si appoggiarono soprattutto su iniziative locali, cementando ulteriormente il localismo anche nel governo della fase rivoluzionaria. Inoltre, queste prime rivolte avevano un carattere spiccatamente nazionalista, direttamente riferibile all’identità etnica degli Han. Le spinte centrifughe contro l’entità politica multinazionale dei Qing furono abbastanza forti da favorire, a cavallo tra il 1911 e il 1912, il distacco della Mongolia esterna e del Tibet dalla Cina, con il beneplacito e la protezione, rispettivamente, di Russia e Gran Bretagna[11].
In secondo luogo, la gestione fondamentalmente locale e non unitaria dei vari momenti rivoluzionari favoriva il raggiungimento di soluzioni di compromesso basati sui rapporti di forza nelle varie province. Del resto, molti funzionari e ufficiali militari, ben consci dell’irreversibile decadenza dell’istituzione imperiale, fecero in fretta a schierarsi dalla parte della rivoluzione, spesso assumendone di fatto il controllo. A riprova di quanto detto, basta pensare che all’inizio del 1912, sebbene nella maggior parte delle province fossero stati già stabiliti governi “rivoluzionari”, solo tre di essi (nel Guangdong, Jiangsu e Anhui) potevano dirsi effettivamente controllati dai rivoluzionari stessi[12].
In questo contesto, un’analoga soluzione di compromesso fu raggiunta a livello nazionale. Yuan Shikai, ufficiale dell’esercito Qing e all’epoca primo ministro del governo imperiale, accettò di negoziare l’abdicazione dell’imperatore in cambio della sua nomina a primo presidente della nuova repubblica. Si evitava una guerra civile, ma al tempo stesso si incorporava nel nuovo ordine costituente non solo una figura di continuità con il passato come Yuan, ma anche la sua maggiore base di potere, ossia l’armata Beiyang, forze egemone nel nord della Cina e soprattutto attorno alla capitale Pechino.
Sotto il profilo militare, di fatto, la nuova repubblica era già sfuggita, se mai lo fosse stata, dal controllo delle forze propriamente rivoluzionarie.
Lo stesso non si poteva dire, tuttavia, dell’attività giuridico-istituzionale e, soprattutto, dello sforzo di costruire, per la nuova repubblica, un modello costituzionale moderno. Sotto questo aspetto, il compromesso fra le forze in campo fu più sottile. L’aderenza al nuovo corso di buona parte del vecchio establishment imperiale impediva una connotazione pienamente etnica della rivoluzione. Dal punto di vista territoriale, la nuova Cina voleva e doveva porsi in piena continuità con quella vecchia. Ciò comportava l’affermazione (o meglio, la conferma) di una statualità multietnica, come ribadito anche dalla bandiera della repubblica a cinque colori, in rappresentanza delle cinque etnie della nuova Cina[13].
Fu quindi in queste circostanze che si fece strada l’idea di adattare alla Cina il modello costituzionale americano. Il concetto di una “unione” di stati parve utile per tenere unito un territorio che, a pochi mesi dall’inizio della rivoluzione, era divenuto, di fatto, un mosaico di province largamente autonome. Al tempo stesso, quello americano poteva essere un esempio utile per impiantare una decisa separazione dei poteri e avvicinarsi al costituzionalismo liberale[14].
Questa intenzione, tuttavia, si tradusse, nei primi e concitati momenti di vita della repubblica, in un testo costituzionale che, a guardarlo oggi, appare abbastanza disordinato, chiaramente concepito come di transizione e, in definitiva, afflitto da debolezze strutturali: si tratta della “Costituzione Provvisoria” (临时约法 – linshi yuefa).
La costituzione contava 56 articoli. Anche nella sua struttura, appariva legata all’esempio statunitense. Dopo poche disposizioni di apertura, il Capitolo II consisteva in un vero e proprio breve bill of rights, che enunciava i fondamentali diritti civili e politici dei cittadini e prevedeva la possibilità di limitarli (mediante legge) per motivi di benessero pubblico, di ordine pubblico o per esigenze straordinarie[15].
I successivi capitoli, sempre sull’onda della costituzione americana, disciplinavano in sequenza i tre poteri dello stato: quello legislativo (Capitolo III: Il Consiglio Consultivo), quello esecutivo (Capitolo IV: il Presidente Provvisorio e il Vice-Presidente e Capitolo V: I membri del governo) e quello giudiziario (Capitolo VI: la giustizia).
Una prima, evidente lacuna del testo riguardava proprio l’assenza di una compiuta disciplina dei rapporti tra governo centrale e governi locali, così importante nel contesto che abbiamo descritto. La costituzione affermava che il territorio della repubblica fosse costituito da 22 province e dai territori della Mongolia esterna, della Mongolia interna, del Tibet e del Qinghai[16]. Un’interpretazione “egualitaria” e “confederale” dei rapporti fra unità amministrative locali era suggerita anche dal metodo di elezione del Consiglio Consultivo (tutte le province e i territori eleggevano cinque deputati ciascuno, tranne il Qinghai che ne eleggeva uno solo[17]) e dalla libertà, lasciata ai governi locali, di disciplinare le modalità di svolgimento delle elezioni[18].
Oltre a queste disposizioni, tuttavia, la Costituzione non chiariva i confini tra le competenze delle province e quelle del governo centrale. Essa si limitava a riprendere lo schema della Sez. 8 dell’Art. 1 della costituzione statunitense, elencando alcune delle competenze del Consiglio Consultivo, le quali pertanto avrebbero dovuto intendersi come competenze del governo centrale. Si trattava comunque di una lista ancora più scarna e ambigua di quella predisposta dai costituenti americani, che pure, come noto, avrebbe dato (e dà ancora adito) a numerose incertezze. L’Art. 19 della Costituzione Provvisoria disponeva che il Consiglio Consultivo fosse competente per l’approvazione delle leggi (in generale), per l’approvazione del budget, per la disciplina delle tasse, della moneta, dei pesi e delle misure, per la sottoscrizione di pubblici prestiti e la stipula di contratti che avrebbero inciso sul tesoro nazionale. Il resto delle competenze riguardava la prestazione del consenso per la nomina presidenziale di alcune cariche, la ricezione di petizioni, la formulazione di suggerimento al governo nonchè l’esercizio di una serie di poteri di supervisione e di impeachement nei confronti dell’esecutivo, disposizioni peraltro particolarmente favorevoli nei confronti dell’esecutivo stesso dal momento che per l’impeachement di un membro dell’esecutivo erano necessari due terzi dei votanti, i quali dovevano però rappresentare non meno dei tre quarti dell’intera assemblea. Soglie ancora più alte (rispettivamente, tre quarti dei votanti e quattro quinti dei membri) servivano per l’impeachement del Presidente, peraltro possibile solo in caso di alto tradimento. Queste disposizioni rendono l’idea di una costituzione sbilanciata a favore del Presidente il quale, in linea con il modello americano, era il capo del governo e, in ultima analisi, vertice del potere esecutivo[19]. Egli deteneva, sempre ricalcando il solco statunitense, diritto di veto sulle leggi, superabile solo da un voto a maggioranza dei due terzi del Consiglio Consultivo.
Molto scarne erano anche le disposizioni sul potere giudiziario. I giudici erano nominati dal Presidente e dal Ministro della Giustizia, ma l’organizzazione dei tribunali e la qualificazione dei giudici erano demandati ad una futura disciplina legislativa[20]. Vi era una generica affermazione di indipendenza degli organi giudiziari[21].
Ora, anche in considerazione del fatto che questa costituzione fosse sin da subito pensata come provvisoria, è facile capire come le sue prospettive di successo fossero tutt’altro che rosee. L’impianto istituzionale era debolmente regolato, i nodi critici della macchina statale non erano adeguatamente disciplinati. Poi, l’aderenza al modello americano, oltre a non tenere conto delle specificità del contesto cinese e della sua cultura istituzionale, nemmeno si realizzava accuratamente, in quanto permanevano alcune significative differenze fra cui, la più importante, l’elezione del Presidente, che non era diretta, ma riservata al Consiglio Consultivo. Un tale approccio certamente legittimava le circostanze contingenti, per le quali i i rivoluzionari avevano nominato Yuan Shikai alla presidenza, ma dall’altro lato creava le condizioni per corto-circuiti istituzionali e per un progressivo eclissarsi tanto del parlamento quanto della pressione popolare sull’esecutivo.
Mancava, in altre parole, qualsiasi meccanismo adeguato che potesse garantire l’effettività di quanto previsto dalla costituzione, non solo sul piano prettamente giuridico (come un sistema giudiziario indipendente o la previsione di un qualche controllo di costituzionalità), ma anche sul piano politico dei rapporti di forza e di reciproco controllo tra le istituzioni[22].

4. Il rapido declino del costituzionalismo liberale
La frattura tra presidenza e parlamento, e tra presidenza e movimenti rivoluzionari, in primo luogo il Guomindang, si radicalizzò velocemente. Yuan Shikai perseguiva il disegno di una ricentralizzazione amministrativa e, pur non disdegnando compromessi, credeva che l’impeto riformista fosse così rapido da favorire una disgregazione delle strutture portanti dello stato. La campagna elettorale per le elezioni parlamentari del 1913 vide rapidamente affermarsi il consenso del Guomindang e del suo principale volto, Song Jiaoren, i cui discorsi si fecero sempre più decisi contro Yuan ed il suo atteggiamento giudicato arbitrario. Le elezioni si svolsero a suffragio ristretto e con metodo indiretto. Il Guomindang ne uscì vincitore e di fatto si trovò nella posizione, teorica, di poter imporre un proprio primo ministro e, nelle idee di Song, di rafforzare il ruolo del parlamento contro alla presidenza.
Il 20 marzo 1913, poco dopo le elezioni, emissari di Yuan Shikai assassinarono Song Jiaoren. Come è stato rilevato, non si trattò solo dell’eliminazione di un avversario politico, ma dell’affermazione di una insormontabile inconciliabilità tra due diverse visioni del paese[23].
Si trattò anche del definitivo tramonto della Costituzione Provvisoria come progetto politico sostanziale. Nei tumulti che seguirono l’assassinio di Song sino alla “seconda rivoluzione” dell’estate 1913, poi schiacciata da Yuan Shikai, quest’ultimo rafforzò il proprio potere guardando con sempre maggiore forza alla saldatura tra l’istituzione presidenziale e l’apparato burocratico-amministrativo, e quello militare. Nel 1914 Yuan fece rapidamente sciogliere il parlamento nazionale e le assemblee locali. Il primo maggio fu emanato il “contratto costituzionale” che riformò la Costituzione Provvisoria creando una repubblica “superpresidenziale”. Il presidente (i.e. Yuan Shikai) deteneva un generale potere di governo del paese (统治权 – tongzhi quan)[24], era responsabile solo nei confronti della nazione[25], posedeva l’iniziativa legislativa (compresa quella per le leggi di bilancio)[26], convocava e scioglieva il parlamento[27]. Si ribadiva una prevalenza, sul piano della gerarchia delle fonti, della legge del parlamento sugli ordini imperiali, dato che i secondi non potevano modificare la prima[28], ma si trattava, evidentemente, di una petizione di principio. Il potere di Yuan era ai massimi livelli e tra il 1913 e il 1915 lo sforzo governativo fu tutto teso al rafforzamento dell’autocrazia, mediante la progressiva repressione di tutte quelle libertà che pure la costituzione (sia quella del 1912 sia quella riformata del 1914) riconoscevano.
La strada era spianata per il tentativo di restaurazione imperiale, con a capo lo stesso Yuan Shikai, che prese vita nel 1915. Allo stesso tempo, tuttavia, vale la pena di notare che, pure nel progetto autoritario di Yuan, la fonte della sovranità era, in ultima istanza, comunque riconosciuta alla nazione e al suo popolo. Anche quando nel tardo 1915 si concretizzò la restaurazione imperiale (ufficialmente il nuovo impero ebbe inizio dal 1 gennaio 1916), la sua legittimazione fu derivata direttamente dalla dichiarazione di abdicazione dell’imperatore Qing del 1912: quel movimento che dalla dichiarazione di abdicazione passava la sovranità dall’imperatore alla nazione veniva ora ripreso nel senso inverso, per cui la nazione rimetteva la sovranità nelle mani di Yuan Shikai[29]. Se da un lato, quindi, si bypassava la Costituzione, di fatto nullificandola, dall’altro si recepiva un concetto di sovranità “popolare” funzionale alla costruzione dell’autocrazia. È questo un profilo che avvicina il governo di Yuan Shikai ai totalitarismi novecenteschi.
L’esperimento imperiale ebbe brevissima vita. Ancora una volta, lo scontento partì dalle province che, in alcuni casi, si ribellarono apertamente a Yuan e, ad esempio nel Guangxi, addirittura dichiarono l’indipendenza. Il 22 marzo 1916, dopo neanche tre mesi di regno, Yuan Shikai abbandonò il titolo imperiale. Ritornò alla repubblica ed alla sua presidenza, ma in giugno morì di malattia.
Con la sua morte, la disgregazione territoriale della Cina ebbe compimento. Le basi di potere locali, spesso coese attorno a capi militari, presero definitivamente il sopravvento, raggruppandosi attorno alle famose “cricche” che nel decennio successivo si sarebbero spartiti la Cina. Era iniziata l’epoca dei “signori della guerra” (军阀 – junfa). Nè lo spirito costituente dei rivoluzionari nè il tentativo autocratico di Yuan Shikai avevano potuto rimediare alle fratture che il declino e poi il crollo dell’istituzione imperiale avevano provocato[30].
Il Guomindang, dopo il ritorno dal Giappone di Sun-Yat Sen, consolidò il proprio potere nel sud della Cina, nel Guangdong. Da lì, nel 1917, fu lanciato il “Movimento per la Protezione della Costituzione” (护法运动 – hu fa yundong). La Costituzione che si voleva proteggere era quella provvisoria del 1912, e l’attacco era diretto contro il governo di Pechino, centro di potere dell’armata Beiyang e dei successori di Yuan Shikai. Quella che per il Guomindang doveva essere la “terza rivoluzione” divenne, a ben vedere, un teatro di scontri fra i signori della guerra, a sostegno dell’una, dell’altra o di terze posizioni.
La Costituzione divenne ben presto meno che un simbolo. Le sue capacità di coesione ideale sfumarono ben presto nel rafforzamento del ruolo del Guomindang come vettore della riunificazione nazionale, ben più che di una rivoluzione liberal-democratica.

5. Il lascito della Costituzione Provvisoria del 1912
Il caos successivo al crollo dell’impero Qing rappresenta la fase finale e forse più dolorosa di quel “secolo delle umiliazioni” terminato solo nel 1949 con la proclamazione della Repubblica Popolare Cinese. Tra il 1912 e il 1949, in effetti, la Cina fu costantemente, seppur in forme diverse, in uno stato di guerra civile, esposta alle influenze e agli attacchi delle potenze straniere, divisa nel suo territorio e preda dei giochi di potere (spesso sanguinosi) tra cricche militari e oligarchie post-feudali e para-feudali. Il tentativo costituzionale del 1912 non ebbe alcun impatto pratico nell’evitare o nel controllare le spinte centrifughe che scossero la Cina in quegli anni e si ridusse ben presto a poco più che un vacuo simbolo. Vi è quindi certamente del vero nella Risoluzione Storica del Partito Comunista Cinese del novembre 2021 quando classifica i movimenti di riforma precedenti a quello dello stesso PCC come tentativi che fallirono nel porre rimedio al semi-feudalesimo e semi-colonialismo che attanagliavano la società cinese[31].
Al contempo, tuttavia, non sarebbe giusto ignorare del tutto il ruolo che la Costituzione del 1912 rivestì per lo sviluppo del pensiero giuridico e costituzionale cinese. Vi sono infatti almeno due profili importanti da sottolineare.
In primo luogo, la Costituzione Provvisoria del 1912 prefigurò una nazione cinese che avrebbe dovuto, pur nella riforma delle istituzioni politiche, raccogliere l’eredità territoriale e spirituale della Cina imperiale. L’anima Han di alcuni movimenti rivoluzionari venne messa da parte in un testo costituzionale che riaffermava la sovranità della nuova Cina su tutto lo spazio del vecchio impero. Seppur le vicende storiche successive avrebbero definitivamente allontanato la Mongolia esterna, la Costituzione del 1912 promuoveva uno spirito repubblicano ampio, un nazionalismo cinese multi-etnico che sarebbe stato perseguito nei decenni successivi sino ad oggi. Combattere per la costituzione diveniva, in effetti, combattere soprattutto per la riaffermazione dell’unità del territorio percepito come di spettanza della Cina stessa.
In secondo luogo, la Costituzione Provvisoria del 1912 affermò definitivamente un principio di sovranità popolare nel costituzionalismo cinese, che non fu rigettato nemmeno dalle successive esperienze autocratiche. Si trattò di un vero punto di non ritorno per la tradizione giuridica cinese, che da quel momento in poi vide il popolo, nel suo complesso, acquisire una soggettività giuridica innegabile, con cui fare i conti.
Questi due profili, seppur non tradotti in cambiamenti pratici apprezzabili, costituivano delle svolte ideologiche non scontate, specie nei confusi anni della transizione, e la loro resilienza nei successivi progetti politici dei protagonisti della storia cinese dà l’idea di un momento significativo di discontinuità tra passato imperiale e modernità repubblicana.
Ancora oggi, tanto nella Cina continentale quanto a Taiwan, la rivoluzione Xinhai e lo sforzo rivoluzionario del Guomindang di Sun-Yat Sen sono accolti e celebrati come momenti fondamentali del processo di costruzione sia identitaria della Cina moderna che istituzionale.
Quello del 1912 fu quindi certamente un tentativo fallito, ma il cui spirito ha lasciato segni importanti nel futuro svilupparsi del pensiero giuridico cinese.

Note

1.  Zhang Yongle (章永乐), 旧邦新造 (La ricostruzione di un vecchio Stato), Peking University Press, Pechino, 2011, pp. 16 ss.

2.  G. Zhao, Reinventing China: Imperial Qing Ideology and the Rise of Modern Chinese National Identity in the Early Twentieth Century, in Modern China, Vol. 32(1), 2006, pp. 3-30.

3.  Zhang Yongle, La ricostruzione di un vecchio Stato, pp. 16 ss.

4.  D. Heuschert, Legal Pluralism in the Qing Empire: Manchu Legislation for the Mongols, in The International History Review, Vol. 20(2), 1998, pp. 310-324.

5.  Zhang Yongle, La ricostruzione di un vecchio Stato, pp. 16 ss.

6.  B.A. Elman, Political, Social, and Cultural Reproduction via Civil Service Examinations in Late Imperial China, in The Journal of Asian Studies, Vol. 50(1), 1991, pp. 7-28; H. De Weerdt, Changing Minds through Examinations: Examination Critics in Late Imperial China, in Journal of the American Oriental Society, Vol. 126(3), 2006, pp. 367-377.

7.  Zhang Yongle, La ricostruzione di un vecchio Stato, pp. 44 ss.

8.  S. Cai-Z. Wang , 梁启超《开明专制》之学理辨析 (Analisi della teoria dell’autocrazia illuminata in Liang Qichao), in Jiangsu shehui kexue, 2017, pp. 223-229; Yu Ronggen, 超越儒法之争 (Oltre la controversia tra confucianesimo e legismo), in fazhi yanjiu, 2018, pp. 3-13.

9.  T. Man Ling Lee, Local Self-Government in Late Qing: Political Discourse and Moral Reform, The Review of Politics, 60(1), 1998, pp. 31-53.

10.  D. Twitchett, J.K. Fairbank, The Cambridge History of China. Volume 12: Republican China 1912-1949, Part I, Cambridge University Press, Cambridge, 1983, pp. 209 ss.

11.  Zhang Yongle, La ricostruzione di un vecchio Stato; D. Twitchett, J.K. Fairbank, The Cambridge History of China.

12.  D. Twitchett, J.K. Fairbank, The Cambridge History of China, cit., p. 211.

13.  Zhang Yongle, La ricostruzione di un vecchio Stato, cit., pp. 49 ss. La bandiera a cinque colori fu utilizzata come vessillo della repubblica cinese per almeno un quindicennio dopo la rivoluzione Xinhai, fino a che fu gradualmente sostituita e poi ufficialmente rimpiazzata dalla bandiera dei nazionalisti, che ancora oggi è la bandiera di Taiwan. I cinque colori della bandiera rappresentavano rispettivamente le etnie Han (rosso), Manciù (giallo), Mongola (blu), Hui (bianco) e Tibetana (nero). Il riferimento all’etnia Hui, ad ogni modo, finiva per indicare, più ampiamente, tutte le popolazioni di religione musulmana nel territorio cinese.

14.  Zhang Yongle, La ricostruzione di un vecchio Stato, cit., pp. 53 ss.; Qiu Yongsheng, Wang Chu, 对 《中华民国临时约法》 的述评与思考 (Riflessioni e valutazioni in merito alla Costituzione Provvisoria della Repubblica di Cina), in faxue luncong, no. 7, 2017, pp. 73-78.

15.  Art. 15. Vi è, ovviamente, una differenza di posizionamento dell’elenco dei diritti rispetto alla costituzione americana, dove appunto il bill of rights è, come noto, corrispondente ai primi dieci emendamenti alla costituzione e quindi collocato “in calce” alla costituzione stessa.

16.  Art. 3. Ovviamente, nè la Mongolia Esterna nè il Tibet erano allora sotto il controllo del governo repubblicano.

17.  Art. 18.

18.  Art. 18.

19.  Art. 30.

20.  Art. 48.

21.  Art. 51.

22.  Qiu Yongsheng, Wang Chu, Riflessioni, cit.

23.  D. Twitchett, J.K. Fairbank, The Cambridge History of China, cit., pp. 226-227.

24.  Art. 14.

25.  Art. 16.

26.  Art. 18.

27.  Art. 17.

28.  Art. 19.

29.  Zhang Yongle, La ricostruzione di un vecchio Stato, cit., pp. 75 ss.

30.  Inoltre, per quanto riguarda Mongolia Esterna e Tibet, i tentativi di Yuan Shikai di riaffermare il controllo su di essi erano falliti, anche per l’opposizione delle potenze straniere.

31.  Per un’analisi della Risoluzione storica v. G. Santoni, La risoluzione storica del partito comunista cinese, in ApertaContrada, 10 gennaio 2022.