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Il primo tentativo di costruzione giuridica di una “nuova” Cina: la costituzione provvisoria del 1912

di - 22 Giugno 2022
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Per il loro valore simbolico, le costituzioni si prestano a fungere da momenti spartiacque nella storia giuridica e politica di un paese, spesso con qualche semplificazione, ma con indubbia efficacia divulgativa. Generalmente, le costituzioni possono rappresentare o il condensato di una tradizione giuridica già esistente, oppure una proiezione, verso il futuro, di un modello di governo ancora sperimentale, uno sforzo di traduzione della teoria e dell’ideologia nella pratica dei rapporti istituzionali.
In un paese come la Cina, che nel XX secolo ha promulgato ben sei costituzioni diverse, questi due “approcci costitutenti” si sono spesso alternati. Gli studiosi hanno così messo in evidenza non solo la difficoltà di far corrispondere volontà politica dei costituenti e necessità pratiche del governo, ma anche lo sforzo di armonizzare spinte progressiste (democratiche, liberiste o socialiste che fossero) e cultura cinese del potere e dei rapporti fra cittadini ed istituzioni.
In queste brevi righe, vogliamo concentrarci sul primo passaggio del costituzionalismo cinese del novecento, sul primo esempio di costituzione cinese propriamente detta, ovverosia la “Costituzione provvisoria” del 1912, che segna il passaggio dall’impero alla repubblica.
Va subito detto che le vicende storiche di questa costituzione furono così travagliate che, di fatto, essa ebbe un’applicazione pratica, nel tempo e nello spazio, estremamente limitata, a dispetto di una formale abrogazione arrivata solo nel 1946. Essa però, se non altro per il suo valore simbolico, può essere utilizzata come spunto per comprendere, seppur in sintesi, quali forze riformatrici e quali progetti ideologici furono messi in campo all’indomani della caduta dell’impero.

1. La frammentazione del potere nel morente impero Qing
In effetti, l’idea che forse meglio di altre fotografa la Cina “giuridica” a cavallo della fine dell’impero è quella di una frammentazione del potere. Le sconfitte militari – specie quella col Giappone nel 1894-1895 la fallita “Rivolta dei Boxers” nel 1901 – avevano messo a nudo l’arretratezza tecnologica e la debolezza dello status internazionale dell’Impero Qing. Il fallimento dei movimenti di riforma – su tutti i c.d. “cento giorni” del 1898 – avevano palesato l’irrimediabile conservatorismo culturale del governo imperiale. Infine, lo scarso impatto immediato dell’importazione di modelli stranieri di diritto civile e commerciale aveva ulteriormente messo in dubbio la capacità stessa della costruzione imperiale di rinnovarsi anche di fronte ai problemi del nuovo commercio.
Tutta questa serie di avvenimenti, tuttavia, aveva fatto emergere e, se non formalizzato, quantomeno irradiato di luce la crescente lacerazione dei fili amministrativi dell’impero, a partire dalla questione delle nazionalità[1]. In effetti, la contraddizione secolare rappresentata dalla dominazione di un’etnia straniera (i mancesi, etnia della dinastia imperiale) su di un territorio abitato per la stragrande maggioranza da popolazione Han si riproponeva, anche nella logica di potenziali riforme istituzionali. La concezione, consolidatasi nei secoli, di una multietnicità della “comunità” cinese[2], non poteva nascondere, specie negli ultimi anni dell’impero, la crescita di sentimenti “nazionali” fra i gruppi riformisti di etnia Han[3].  Analogamente, riemergeva la questione di regioni periferiche dell’impero, come la Mongolia esterna (l’attuale Mongolia) o il Tibet, abitati da etnie ancora diverse. L’impero Qing, nonostante alcune esperienze di legislazione differenziata (ad esempio nei confronti dei mongoli[4]) non possedeva una struttura amministrativa e legale in grado di gestire, o in senso centralista o decentralista, tale complessità. In un’epoca in cui, peraltro, altri grandi imperi (quello Austro-Ungarico, quello Russo, quello Ottomano) si confrontavano faticosamente con i mosaici di nazionalità al loro interno[5], la coesione amministrativa, perlomeno formale, dell’impero dei Manciù si affidava in via rilevante alla presenza di una classe “unificata” di burocrati e funzionari che circolavano, nell’arco della propria carriera, negli uffici delle varie regioni dell’impero.
Anche questo elemento era però destinato a cadere. L’abolizione degli esami imperiali di accesso alla carriera burocratica (1905) da un lato aveva risposto ai dubbi di chi considerava questi esami antiquati perchè poco focalizzati sia sulle materie più “attuali” dell’amministrazione sia sui metodi più moderni (vale a dire, per quell’epoca, occidentali) dell’amministrare[6].
Dall’altro lato, però, la chiusura di tali esami aveva eliminato d’un colpo quello che per secoli, nonostante le indubbie inefficienze, era stato un formidabile canale non solo di mobilità sociale e territoriale dei funzionari, ma anche di coesione politica e culturale per le elites dell’impero. Dopo l’abolizione, moltissimi giovani ben istruiti che prima avrebbero aspirato a far parte dei “mandarini” di stato, trovarono posto nei ranghi delle amministrazioni locali, rafforzandone la coesione ed un certo qual senso di indipendenza organizzativa[7].

2. Le posizioni dei riformisti
Di fronte a un quadro tanto complesso e frammentario, il “pensiero” riformista non era, a ben vedere, in grado di offrire un’alternativa unitaria e coerente. Protagonisti del pensiero politico e giuridico cinese come Kang Youwei, Liang Qichai e, forse più famoso degli altri in occidente, Sun Zhongshan (noto “da noi” come Sun Yat-Sen) avevano manifestato, nei loro scritti, un certo tormento nel provare a coniugare da un lato la ricezione di alcune strutture di governo occidentali e dall’altro l’ammodernamento di alcuni paradigmi culturali della tradizione cinese che, nonostante tutto, si era restii ad abbandonare perchè giudicati fondamentalmente validi. Aveva così fatto la sua comparsa in Cina, a cavallo dei due secoli, il concetto di “autocrazia illuminata” – in parte ripreso dal “dispotismo illuminato” del XVIII secolo europeo – proposto quale opportuna fase “intermedia” fra l’autocrazia tradizionalista dei Qing e la costruzione di una forma democratica adattata alle peculiarità cinesi[8].
Ancora, il favore espresso, nel pensiero riformista, verso forme di autogoverno delle comunità locali facevano leva su un’idea di auto-controllo ed auto-elevazione che riecheggiava la concezione confuciana per cui dall’elevazione etica del singolo sarebbe derivata l’elevazione etica del governo delle comunità, via via crescenti, in cui gli uomini si trovavano ad operare[9]. Così, il perfezionamento dei governi locali, a partire dalle unità più piccole e basilari, avrebbe potuto agevolare la “bontà” e la qualità dei governi dei livelli man mano superiori.
Lo stesso Sun-Yat Sen, facendo tesoro dei suoi lunghi periodi di permanenza e studio all’estero, aveva sempre cercato di interpretare il riformismo alla luce di alcune “caratteristiche cinesi”. I suoi tre principi fondamentali del governo – nazionalismo, democrazia, benessere del popolo – erano sì influenzati dal costituzionalismo americano, ma sottolineavano altresì un rapporto tra governanti e governati che si richiamava al binomio obbedienza-benevolenza tipico del pensiero confuciano. Ancora, la sua teoria della separazione dei poteri, come noto, aveva aggiunto ai tre poteri classici (legislativo, esecutivo, giudiziario) un potere di controllo e un potere “di esame”, quest’ultimo chiaramente influenzato dalla tradizione degli esami imperiali. Se quindi da un lato Sun-Yat Sen preconizzava l’esistenza di un organo indipendente deputato al controllo degli altri poteri, dall’altro promuoveva altresì la legittimazione di un ulteriore potere distinto che si sarebbe occupato della selezione dei funzionari pubblici, della classe dirigente, separando quindi quest’ultima funzione dall’apparato direttamente dipendente dal potere esecutivo.
Vi era quindi, tra i riformisti cinesi, una parziale convinzione che fosse impossibile (o comunque inopportuno) trapiantare direttamente in Cina modelli costituzionali e di governo stranieri. Allo stesso tempo, tuttavia, non vi era una teorizzazione compiuta circa una possibile strategia di ricostruzione delle strutture di potere, nè del resto vi era una effettiva coerenza e compattezza del fronte riformista. Esistevano gruppi di maggiore impatto ed influenza, come il Tongmenghui, fondato in Giappone dallo stesso Sun-Yat Sen e da Song Jiaoren a partire dalla fusione di numerosi gruppuscoli precedenti. Esisteva però anche una notevole frammentazione delle forze politiche (clandestine) di opposizione ai Qing e, specie negli ultimissimi anni prima del crollo dell’impero, anche gli spiriti rivoluzionari, in molti casi, tendevano ad avere un forte radicamento locale, nelle varie province, più che un coordinamento veramente “nazionale”.
Su queste premesse, è più facile forse capire come mai, al crollo dell’impero, di fatto nessuna delle concezioni riformiste vide concretamente attuazione.

Note

1.  Zhang Yongle (章永乐), 旧邦新造 (La ricostruzione di un vecchio Stato), Peking University Press, Pechino, 2011, pp. 16 ss.

2.  G. Zhao, Reinventing China: Imperial Qing Ideology and the Rise of Modern Chinese National Identity in the Early Twentieth Century, in Modern China, Vol. 32(1), 2006, pp. 3-30.

3.  Zhang Yongle, La ricostruzione di un vecchio Stato, pp. 16 ss.

4.  D. Heuschert, Legal Pluralism in the Qing Empire: Manchu Legislation for the Mongols, in The International History Review, Vol. 20(2), 1998, pp. 310-324.

5.  Zhang Yongle, La ricostruzione di un vecchio Stato, pp. 16 ss.

6.  B.A. Elman, Political, Social, and Cultural Reproduction via Civil Service Examinations in Late Imperial China, in The Journal of Asian Studies, Vol. 50(1), 1991, pp. 7-28; H. De Weerdt, Changing Minds through Examinations: Examination Critics in Late Imperial China, in Journal of the American Oriental Society, Vol. 126(3), 2006, pp. 367-377.

7.  Zhang Yongle, La ricostruzione di un vecchio Stato, pp. 44 ss.

8.  S. Cai-Z. Wang , 梁启超《开明专制》之学理辨析 (Analisi della teoria dell’autocrazia illuminata in Liang Qichao), in Jiangsu shehui kexue, 2017, pp. 223-229; Yu Ronggen, 超越儒法之争 (Oltre la controversia tra confucianesimo e legismo), in fazhi yanjiu, 2018, pp. 3-13.

9.  T. Man Ling Lee, Local Self-Government in Late Qing: Political Discourse and Moral Reform, The Review of Politics, 60(1), 1998, pp. 31-53.

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