Distribuzione e occupazione

Nelle società complesse, gerarchicamente organizzate, anche con scambi e mercati ma pre-capitalistiche per millenni la fonte della ricchezza di pochi e quindi della povertà dei più è stato il potere: militare, religioso, politico, amministrativo. Contro il potere i lavoratori si ribellavano, ma le rivolte venivano represse. Gli averi – la terra in particolare, il bene più prezioso – erano altamente concentrati.
Tutto cambia negli ultimi due secoli, col capitalismo post-Rivoluzione Industriale. La fonte prima dell’arricchimento diventa il profitto. Ma a differenza del potere il profitto è contendibile. Si apre una partita distributiva fra il Mercato e le Istituzioni sorte a fine Ottocento: sindacati dei lavoratori, loro partiti politici, fisco e spesa pubblica ispirati a progressività, poi welfare state.
Alla dialettica fra Mercato e Istituzioni corrispondono negli ultimi due secoli tre grandi fasi nella distribuzione degli averi fra i cittadini di Europa e Stati Uniti, i paesi per cui si dispone di dati meno inattendibili:

1. Dagli inizi dell’Ottocento alla prima grande guerra le Istituzioni sono ancora deboli e prevale il Mercato. Dagli altissimi livelli del passato la concentrazione sale ancora. Tocca i massimi nel 1915, quando l’1% detiene il 20% dei redditi e il 50% dei patrimoni in Europa, il 20% dei redditi e il 25% dei patrimoni negli USA.

2. Dal 1915 al 1980 circa – seconda fase – la concentrazione crolla. Due guerre mondiali, la crisi del 1929, l’instabilità che vi si associa colpiscono soprattutto i più abbienti. Dal 1950 agli anni Settanta alla eccezionale crescita economica e soprattutto alla piena occupazione si unisce l’azione redistributiva efficace delle Istituzioni. Nel 1980 l’1% più dovizioso detiene l’8% dei redditi e il 20/25% dei patrimoni, meno della metà del 1915. Contenere la sperequazione, quindi, si può. E’storicamente provato.

3. La terza fase è quella attuale. Negli ultimi quarant’anni la concentrazione è risalita. La crescita ha rallentato, le Istituzioni sono state intaccate dal neoliberismo inaugurato da Regan e Thatcher suffragato dal marginalismo in economia. Negli Stati Uniti la concentrazione ha raggiunto e anche superato i livelli del 1915: l’1% detiene il 20 % dei redditi e il 35% dei patrimoni. In Europa la concentrazione resta al disotto del 1915, ma l’1% detiene pur sempre il 10/15% dei redditi e fino al 25% dei patrimoni.

Al di là dell’aspetto morale, le analisi più aggiornate denunciano che la sperequazione distributiva frena la crescita e minaccia la democrazia. Frena la crescita perché i meno abbienti non dispongono delle risorse proprie e non hanno accesso al credito bancario per potenziare la loro professionalità, quindi non possono pienamente contribuire alla produttività dell’intera economia. Minaccia la democrazia perché le fasce di popolazione che sono, o si sentono, escluse dal benessere materiale altrui cessano di riconoscersi nel sistema democratico. In America la piccola borghesia frustrata dei bianchi non laureati ha assalito il Parlamento. Da un sondaggio recente in diversi paesi occidentali (Connaughton) circa metà degli intervistati ha dichiarato sfiducia negli assetti democratici.
Che fare? La risposta assolutamente prioritaria è la piena occupazione. Chi non ha un lavoro cade in povertà, in depressione, nel rifiuto degli assetti democratici. L’occupazione dipende dalla crescita della produzione, questa dall’accumulazione di capitale, dalla produttività e dalla domanda globale. In Occidente negli anni Duemila tutti e tre i motori della crescita hanno operato a più bassi regimi e in alcuni casi, come in Italia, si sono addirittura spenti. La crescita, del prodotto e dell’occupazione, va rilanciata. Negli Stati Uniti il rilancio post-pandemia è stato affidato a una spinta forsennata, eccessiva, della spesa pubblica, che ha generato inflazione nel paese e nel mondo, a cominciare dai prezzi del gas e del petrolio. In Europa il Recovery and Resiliency Plan è tutto da realizzare. Nel frattempo la risposta occidentale alla guerra fra Russia e Ucraina è miope. Genera inefficienza perché si incentra su autarchia, protezionismi, sanzioni, spese militari, aiuti a pioggia ai produttori. Il tutto mentre la speculazione impazza, alimentata da politiche monetarie sbagliate, da troppo tempo inutilmente espansive, con tassi d’interesse a breve pazzamente negativi in termini reali.
In aggiunta alla piena occupazione gli economisti hanno divisato una panoplia di ragionevoli interventi volti ad agire a monte e a valle sui meccanismi della diseguaglianza. La lista meglio motivata – almeno quindici strumenti – è stata fornita da Anthony Atkinson, in un libro tradotto in italiano col titolo “Disuguaglianza. Che cosa si può fare?”. Va rimarcato che senza occupazione gli altri interventi non possono bastare. Naturalmente la redistribuzione incontra uno sconosciuto limite, oltre il quale il capitalismo s’inceppa. Vale citare Keynes: “Una giustificazione può darsi per diseguaglianze nei redditi e nei patrimoni, ma non per disparità ampie come quelle odierne” (General Theory, p. 428).
Va sottolineato l’aspetto più scandaloso ed estremo della sperequazione distributiva: la cosiddetta povertà assoluta, la miseria nel mezzo dell’opulenza. Se Bill Gates guadagna tanto può dare fastidio, o suscitare invidia, ma la povertà estrema deve turbare, profondamente. Nel mondo quasi un miliardo di persone sopravvive con meno di 2 dollari (PPP) al giorno: mezzo panino di McDonald’s. Grazie allo sviluppo economico di India e Cina dal 1990 il numero dei poverissimi si è dimezzato. Ma resta pur sempre spaventoso. E i poverissimi sono il 10% della popolazione persino in paesi ricchi come gli Stati Uniti e l’Italia.
In Italia in povertà assoluta versano, nel 2020 secondo l’ISTAT, 2 milioni di famiglie e 5,6 milioni di persone. Di queste persone, 1,3 milioni hanno meno di 18 anni e altre 740 mila più di 65 anni. I poverissimi in età intermedia sono 3,5milioni. Le convenzionali soglie ISTAT di povertà variano fra gli 840 e i 570 euri al mese per individuo e per famiglia in media approssimativamente ammontano a 1200 euri al mese, ovvero meno di 15 mila euri all’anno. Ma l’ISTAT stima altresì che i loro redditi siano del 20% al disotto delle soglie. Oltre ai 2milioni non in età di lavoro, è escluso che tutti i 3,5milioni in età intermedia lo trovino, sempre ammesso che il mercato domandi piena occupazione (cosa che in Italia non è da anni e non sarà per anni). Molti di costoro semplicemente non sono nella condizione professionale, fisica, psicologica per lavorare. Quindi sono necessari sussidi. Affinchè la soglia totale annua della povertà assoluta, prossima ai 30 miliardi, venga varcata con certezza (diciamo del 10%) il loro reddito dovrebbe salire dagli attuali circa 24 a circa 33 miliardi l’anno. I 9 miliardi di trasferimenti pubblici occorrenti nel caso estremo in cui nessuno trovi lavoro sono pari allo 0,5% del Pil del 2021. L’evasione fiscale è ufficialmente valutata (81 miliardi nel 2019) nove volte tanto. Gli inutili sussidi alla produzione e agli investimenti, cioè sussidi ai profitti, ammontano (2020) a 50 miliardi.