Augusto Graziani e il Sud*
Almeno fino alle due ultime recessioni internazionali, l’indirizzo neoclassico in economia si è imposto come ortodossia. E’ giunto a ignorare gli altri punti di vista. Il suo Keynes non è il vero Keynes. Paul Samuelson ha espunto Sraffa dal proprio vendutissimo manuale.
La cultura economica italiana, invece, è a mio avviso apprezzabile proprio perché non si è appiattita sul mainstream. E’ aperta ai diversi indirizzi teorici.
Di questa nostra cultura Augusto Graziani è stato esponente illustre. Lo è stato per originalità di pensiero, rigore nella ricerca, limpida scrittura. Ma lo è stato anche per l’equilibrio critico, da Walras a Marx: “Sono un grande ammiratore della teoria economica neoclassica (…), che soffre indubbiamente di difficoltà logiche (…), e sono sempre rimasto un marxista a metà (…)” (pp. 581-582 e 589).
La scelta dei saggi inclusi nel bel volume curato da Adriano Giannola non mira a prospettare l’intera gamma dei contributi di Augusto. Si concentra sul problema primo dell’Italia, dai tempi del brigantaggio post-unitario coi suoi 20mila morti: il Mezzogiorno.
Pochi economisti hanno studiato il Sud con eguale profondità d’analisi e passione civile. Graziani riconosce che le vecchie politiche – dalla Cassa per il Mezzogiorno all’IRI, all’ENI – avevano promosso la fuoruscita dei meridionali dalla terribile miseria del fascismo e della guerra. Nella seconda metà del Novecento il Pil del Sud è sempre cresciuto, a ritmi anche sostenuti e solo di poco inferiori a quelli del resto del Paese. E’poi seguito il ristagno, con tre acute crisi, dell’ultimo ventennio[1].
Calcolato alla parità dei poteri d’acquisto il divario del prodotto pro-capite del Sud rispetto al Centro-Nord si è attestato su circa un terzo, distaccandosi, grazie alla emigrazione, dallo spaventoso 50% del 1951[2]. Ma Graziani era consapevole che avvicinare il reddito pro-capite dei settentrionali è “una meta (…) praticamente irraggiungibile” (p. 96). Sarebbe stato invece fondamentale – il vero obiettivo – che l’economia meridionale divenisse autonomamente capace di svilupparsi. Questo non è avvenuto.
Nel Servizio Studi della Banca d’Italia fummo critici dell’interpretazione grazianea export led del miracolo post-bellico dell’economia italiana nel suo insieme. Peraltro, Graziani era nel giusto quando affermava che attraverso il commercio con l’estero “il meccanismo di sviluppo trasformava il Mezzogiorno da regione povera e autosufficiente in regione meno povera ma più strettamente dipendente: un’economia sussidiata” (pp. 270 e 275). Nella formulazione più sintetica Graziani descrive così la sequenza: “Gli investimenti produttivi eseguiti nelle regioni meridionali creano nuova domanda monetaria; ma l’ampliarsi del mercato, attirando nuove importazioni, distrugge capacità produttiva preesistente nei settori tradizionali. Le regioni meridionali divengono così sempre più bisognose di sussidi esterni” (p. 270).
I trasferimenti pubblici hanno coperto l’enorme disavanzo commerciale del Sud (Tab. 14, p. 262). Hanno così consentito al Meridione di vivere senza debito netto verso l’esterno, ma ben al di sopra delle risorse espresse da una forza lavoro a bassa produttività e con una disoccupazione che in alcune fasi e in alcune regioni toccava punte del 20-25%.
E una nuova politica per il Sud latita da decenni, una latitanza che Augusto avrebbe certo continuato a denunciare.
Sul “che fare?” – un “che fare?” più alla Tolstoi che alla Lenin – si può provare a fissare i punti fermi della proposta di Graziani movendo dalla sua fondamentale premessa: la questione meridionale è una permanenza che il mercato, da solo, non risolve.
I punti fermi della proposta di Augusto sono almeno cinque:
1. La “ventata legalizzatrice e moralizzatrice” contro criminalità e corruzione, è urgente, ma non rilancia, di per sé, l’economia (p. 313).
2. Nelle infrastrutture e “nei servizi pubblici permangono lacune vistose (…)”, ma neanche questi preziosissimi investimenti possono bastare (p. 345).
3. Va spezzato il blocco storico, politico, che l’assistenzialismo pubblico alimenta (pp. 362, 375) e che impedisce lo sviluppo (p. 383).
4. Seppure in un mondo di terziario, tocca all’industria “ricostruire un tessuto sociale organizzato, capace di opporre una barriera alle degenerazioni del clientelismo e della criminalità” (p. 331). Al Mezzogiorno occorrono industrie, “industrie complete” (p. 424).
5.Perché un’industria sia completa, oltre alle risorse e agli incentivi, è essenziale una “assistenza tecnica diretta”. “E’ probabile che su questo terreno la collaborazione della grande industria sia necessaria, a patto che questa voglia agire nel Mezzogiorno allo stesso modo in cui ha agito nel Nord e cioè svolgendo un’azione di coltivazione dell’ambiente circostante” (p. 424).
Che dire, anni dopo la scomparsa di Augusto? Tutto ciò accadrà? La classe politica, se ha accesso ai danari europei, non ha rivelato un’idea forte per il Sud. I grandi gruppi privati sono ridotti a due: uno produce cioccolatini e si compiace di aver arricchito la cittadina di Alba, l’altro produce montature per occhiali e compra banche e assicurazioni. Nessuno dei due gruppi investe in altri settori produttivi, di frontiera nella innovazione e nel progresso tecnico, di cui l’economia tutta possa beneficiare.
I meridionali, temo, dovranno fare conto su se stessi ben più che in passato. Rileggere Graziani conserva intera la sua utilità.
Pierluigi Ciocca
Accademia dei Lincei
14 Gennaio 2022
* A. Graziani, Mercato, struttura, conflitto. Scritti su economia italiana e Mezzogiorno, Selezione a cura di Adriano Giannola, il Mulino, Bologna, 2020.
Note
1. SVIMEZ, 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud, 1861-2011, il Mulino, Bologna, 2011, VI A, Tab. 2, p. 414. ↑
2. G. Vecchi (a cura di), In ricchezza e in povertà. Il benessere degli italiani dall’Unità a oggi, il Mulino, Bologna, 2011, Tab. S. 16, p.429. ↑