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Rosario Romeo e l’economia: una biografia*

di - 20 Dicembre 2021
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Sul piano empirico, nel primo ventennio il prodotto agricolo crebbe, ma solo dell’1% l’anno. Tra il 1862-1866 e il 1872-1876 il gettito annuo medio delle imposte nei due quinquenni raddoppiò, mentre il Pil nominale aumentò solo del 20%[7]. E tuttavia – secondo le ultime, raffinate stime di Fenoaltea – gli investimenti pubblici in infrastrutture tendenzialmente diminuirono, dal 4% del Pil nel 1861 al 3% nel 1876, per risalire al 4% solo negli anni Ottanta.
Ma il limite principale del modello di Romeo è soprattutto imputabile alla teoria economica alla quale egli dovette riferirsi. Al di là del legame – chiarito da Keynes – che vuole il risparmio dipendente dall’investimento e non il contrario, l’odierna teoria della crescita ha ridimensionato il ruolo del risparmio nazionale; ha sottolineato i rendimenti decrescenti e l’obsolescenza del capitale; ha molto valorizzato, dopo Solow, il progresso tecnico; ha legato l’innovazione anche a fattori metaeconomici come i valori borghesi, l’imprenditorialità, la cultura, le istituzioni, la politica; ha definitivamente abbandonato gli schemi a stadi[8].
L’apprezzamento per Romeo non può indurre a condividere la sua adesione, richiamata da Pescosolido (p. 108), al giudizio negativo di Volpe su Giolitti circa  un supposto cedimento dello statista di Dronero ai socialisti. Giolitti aprì alle masse popolari per estendere le basi democratiche dello Stato liberale. Almeno in parte vi riuscì. Lo stesso Romeo riconosce che si superò il conservatorismo e i conati reazionari del passato. E non vi fu un cedimento alle sinistre. Furono i socialisti a sottrarsi, come poi Sturzo nel 1922. Soprattutto, a Giolitti e alla sua politica economica – equilibrio di bilancio, abbattimento del debito pubblico, stabilità della lira, contrasto ai monopoli, più Stato e più Mercato, Banca d’Italia – si deve in notevole misura la “primavera economica” del 1900-1913. Allora, la crescita del Pil sfiorò il 3% l’anno e quella del Pil pro-capite toccò l’1,7%, dopo che nel primo quarantennio unitario avevano a malapena superato l’1% e lo 0,5%, rispettivamente[9].
Il libro di Pescosolido conferma la posizione di Romeo fra i massimi nostri storici. Si infittisce così il mistero siciliano. Terra di risalente arretratezza, ancor oggi con un reddito pro-capite fra i più bassi, la Sicilia ha espresso punte della cultura italiana contemporanea fra le più alte: oltre che nella storia, nella letteratura, nella fisica, nel diritto, nella filosofia, nella medicina, nell’arte. Esprime, contemporaneamente, una criminalità efferata, che sembra inestirpabile.

Accademia dei Lincei, Roma, 9 Dicembre 2021

Note

7.  G. Marongiu, La politica fiscale dell’Italia liberale dall’Unità alla crisi di fine secolo, Olschki, Firenze, 2010, tabella a p. 154; A. Baffigi, Il Pil per la storia d’Italia. Istruzioni per l’uso, Marsilio, Venezia, 2015, Tav. 5, p. 209. Secondo le originarie ricostruzioni dell’ISTAT, di cui Romeo poteva disporre, la pressione tributaria risultava aumentata dal 6% del 1862 all’11% del 1876 (cfr. ISTAT, Sommario di statistiche storiche italiane, 1861-1955, Roma, 1958, Tav. 108, p. 206 e Tav. 111, p. 212).

8.  Cfr. D.N. McCloskey, Bourgeois Dignity. Why Economics Can’t Explain the Modern World, Chicago University Press, Chicago, 2010; P. Ciocca, Dei fattori non-economici del progresso economico, in Id., Ai confini dell’economia, Aragno, Torino, 2016.

9.  P. Ciocca, Giovanni Giolitti, vittima incolpevole degli economisti, in P. Barucci et al. (a cura di), Gli archivi e la storia del pensiero economico, il Mulino, Bologna, 2008; M.L. Salvadori, Giolitti. Un leader controverso, Donzelli, Roma 2020.

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