Quando la procedura è intralcio al processo: considerazioni minime sul diritto alla sentenza

1.Premessa. -2. L’emersione del diritto alla sentenza nella giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte EDU. -3. Limiti e distorsioni del diritto alla sentenza nella disciplina del processo amministrativo.

1. Il principio di effettività della tutela, che è enunciato all’art. 1 del c.p.a. accanto al principio di pienezza della stessa[1], può essere letto in chiave sostanziale o formale.
Dal punto di vista sostanziale, l’effettività postula un livello della tutela che sia idoneo a soddisfare adeguatamente la situazione giuridica soggettiva fatta valere in giudizio [2]. La tematica è ampiamente studiata proprio con riferimento al processo amministrativo che negli ultimi decenni ha sperimentato un progressivo affinamento delle tecniche di tutela delle situazioni soggettive affidate alla giurisdizione amministrativa nell’ottica di garantire quanto più è possibile al ricorrente un risultato utile concreto che non si risolva nel mero annullamento del provvedimento lesivo.
Alcune recenti pronunce delle giurisdizioni superiori, nazionali ed europee, sollecitano poi l’attenzione sui profili formali della effettività ovvero su quei profili che riguardano più direttamente l’insieme delle regole di procedura ovvero quelle le disposizioni che disciplinano le forme e i tempi degli atti, e anche gli oneri, le facoltà e i poteri dei soggetti del processo. Si tratta di aspetti che risultano meno indagati, ma che sono non meno rilevanti nell’ottica dell’effettività intesa come produzione di un risultato utile nella sfera giuridica del ricorrente [3]. In particolare, la giurisprudenza ha evidenziato alcune ipotesi nelle quali le regole di procedura possono risultare di impedimento al dispiegarsi del processo fino al suo esito fisiologico che è quello di una decisione idonea a fissare tra le parti la regola del caso concreto conforme alla legge ed è giunta ad individuare un vero e proprio diritto alla sentenza.
Le tappe di questo percorso sono segnate da alcune sentenze della nostra Corte costituzionale. A queste possiamo aggiungere una recentissima decisione della Corte EDU, in quanto significativa del medesimo indirizzo.

2. Nel 2007, con la nota sentenza n. 77 sulla translatio iudicii la Corte[4] censurò l’art. 30 della legge Tar nella parte in cui non prevedeva che gli effetti, sostanziali e processuali, prodotti dalla domanda proposta al giudice privo di giurisdizione (e dunque in primo luogo l’effetto impeditivo della decadenza) si conservino nel processo proseguito davanti al giudice munito di giurisdizione e dunque nella parte in cui, in caso di errore sulla giurisdizione, non prevedeva una disciplina analoga a quella sancita dall’art. 50 c.p.c.. in caso di errore nella individuazione del giudice competente.
La Corte in quel caso osservò che la pluralità di giurisdizioni è prevista nel nostro ordinamento processuale proprio al fine di fornire la risposta più adeguata alla domanda di giustizia e non può diventare invece l’occasione per sentenze che nella sostanza assolvono il giudice dall’obbligo di pronunciare nel merito sulla domanda. Così avviene quando l’errore sulla giurisdizione diviene causa efficiente della perdita del diritto medesimo per essere nelle more decorso il termine di decadenza per proporre la domanda. In quella occasione, la Corte ha pertanto concluso che un sistema come quello all’epoca in vigore comporta una inammissibile compromissione del diritto alla sentenza.
La decisione 132 del 2018[5] ha fatto giustizia dell’art. 44, comma 3 del c.p.a.. L’art. 44, comma 3, nella formulazione fatta propria dal d.lgs. 2 luglio 2021, n. 104 (codice del processo amministrativo), prevedeva che la costituzione della amministrazione intimata “sana la nullità della notificazione del ricorso, salvi i diritti acquisiti anteriormente alla comparizione”. La norma riprendeva la formulazione di una risalente disposizione del regolamento di procedura dinanzi al Consiglio di Stato del 1907[6] e le ragioni per le quali il codice l’aveva riproposta sono poco comprensibili. Difatti nel vigore del testo del 1907 la giurisprudenza aveva adottato un’interpretazione adeguatrice della regola ivi sancita alla luce del principio generale del processo[7] per il quale il raggiungimento dello scopo della norma processuale (nella specie la costituzione dell’intimato) ne sana la mancata osservanza[8]. La riproposizione di quella antica formula aveva però aperto la strada ad un ripiegamento formalistico della stessa giurisprudenza e dunque alla lettura per la quale la salvezza degli effetti avrebbe coperto l’inoppugnabilità degli effetti del provvedimento intervenuta in caso di costituzione dell’amministrazione successiva alla scadenza del termine per proporre il ricorso [9].
La dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 44, comma 3 assume a parametro il principio generale della sanatoria ex tunc della nullità degli atti processuali per raggiungimento dello scopo, sancito dall’art. 156, comma 3, c.p.c., sia pure intermediato dal vizio di eccesso di delega per contrasto della norma censurata con il criterio direttivo prescritto dalla l. 69/2009 che imponeva il coordinamento della disciplina del processo amministrativo con le norme del codice di procedura civile, enunciative di princìpi generali.
La motivazione della sentenza si appella ancora al diritto alla decisione nel merito del ricorso e afferma che la sanatoria per raggiungimento dello scopo della norma processuale e la sua applicabilità alla notificazione degli atti introduttivi sono “princìpi introdotti nel sistema processuale generale attraverso ampia elaborazione che ha ne posto in evidenza la funzione ai fini dello svolgimento e della giusta definizione del processo”.
La terza sentenza significativa dell’avvenuto riconoscimento del diritto alla decisione nel merito del ricorso è la recente pronuncia n. 148 del 2021[10]. La norma censurata è il comma 4° dell’art. 44 c.p.a. che disciplina l’ipotesi in cui alla nullità della notifica non faccia seguito la costituzione del destinatario. La disposizione del codice del processo amministrativo subordinava il dovere del giudice di disporre la rinnovazione della notifica alla non imputabilità al notificante del cattivo esito della stessa. In altre parole, il codice aveva apposto alla sanatoria una condizione non prevista dalla disciplina dell’art. 291 c.p.c. e fortemente limitativa del suo ambito di operatività.
La Corte ribadisce che l’effettività della tutela è compromessa dalla norma che limita la possibilità di rinnovazione della notifica nulla. Difatti, ogni volta che l’accertamento della nullità della notifica interviene dopo lo spirare del termine per proporre il ricorso – il che in genere avviene nell’azione di annullamento sottoposta al noto termine di decadenza – la non rinnovabilità comporta l’inesorabile perdita della possibilità di ottenere una pronuncia giurisdizionale di merito, con una grave compromissione del diritto di agire in giudizio.
Accanto a queste decisioni possiamo collocare quella, recentissima, con la quale la Corte europea dei diritti dell’uomo[11] si è pronunciata sul c.d. “principio di autosufficienza” del ricorso per cassazione sancito dall’art. 366, comma 1, n. 6) del c.p.c. in applicazione del quale, nel caso di specie, il ricorso era stato dichiarato inammissibile.
La Corte Edu ha valutato che, nel caso deciso, l’oggetto del ricorso e la vicenda processuale erano perfettamente comprensibili ad una semplice lettura così come risultavano chiari i motivi di impugnazione, sia nella loro base giuridica che nel loro contenuto. Pertanto ha concluso che la disposizione che prescrive l’autosufficienza del ricorso o, quanto meno, l’interpretazione eccessivamente formalistica di quella regola fatta propria dalla pronuncia di inammissibilità dell’impugnazione, avevano violato “la sostanza del diritto del ricorrente ad un tribunale”[12].
Un preliminare e fondamentale aspetto della dimensione formale della effettività coincide dunque con il diritto della parte ricorrente (o forse più in generale delle parti del processo) a che il giudizio si concluda con una sentenza che decida sulla domanda, senza subire intralci ingiustificati per effetto delle regole di procedura.
I precedenti esaminati hanno un filo conduttore comune: le norme processuali sono scrutinate alla stregua di un criterio di “giustizia”[13]. Il criterio di giustizia delle regole processuali rinviene poi contenuto e sostanza in alcune norme processuali generali, come tali applicabili al processo amministrativo: nell’art. 112 che enuncia il dovere del giudice di pronunciarsi sulla domanda (su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa); nell’art. 121 c.p.c. che enuncia i principi di libertà e di strumentalità delle forme (gli atti del processo, per i quali la legge non richiede forme determinate, possono essere compiuti nella forma più idonea al raggiungimento dello scopo); nell’art. 156 c.p.c. che enuncia il principio del raggiungimento dello scopo (la nullità non può mai essere pronunciata, se l’atto ha raggiunto lo scopo cui è destinato).
Se il percorso attraverso il quale il diritto in esame è venuto ad emergere è essenzialmente giurisprudenziale, di esso è possibile rinvenire un fondamento normativo negli artt. 24 e 111 Cost.. Esplicito è poi, nella sentenza della Corte EDU, il riferimento all’art. 6, § 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo nella parte in cui statuisce “1. Toute personne a droit à ce que sa cause soit entendue équitablement (…) par un tribunal (…)”.

3. Il diritto alla decisione ed una rilettura delle regole procedurali alla luce dei principi del raggiungimento dello scopo e della strumentalità delle forme hanno notevole possibilità di espandersi all’interno della disciplina del processo amministrativo. Questa prevede numerosissime ipotesi di irricevibilità, inammissibilità del ricorso e non tutte sono provviste di una plausibile giustificazione.

Senza allargare troppo il discorso e per rimanere in tema di notifica, il processo amministrativo è informato alla regola per la quale il ricorso introduttivo deve essere notificato entro il termine di decadenza all’amministrazione e almeno ad uno dei controinteressati. L’obbligo di notifica ad “almeno uno dei controinteressati” è sancito dall’art. 41 comma 2, c.p.a. che riproduce l’art. 2 della l. Tar, a sua volta conforme all’art. 36 del testo unico 1054/1924.
Se consideriamo però che il ricorso e la stessa l’istanza cautelare non possono essere decisi se non a contradittorio pienamente integro (cioè esteso almeno a tutti i controinteressati risultanti dall’atto impugnato), l’obbligo di notifica “almeno ad uno” entro il termine di decadenza e a pena di inammissibilità del ricorso scade ad ingiustificata occasione di pronunce processuali di rito (di irricevibilità del ricorso) che intollerabilmente sacrificano i diritto all’esame nel merito della domanda. Si pensi ai casi incerti e alle oscillazioni giurisprudenziali che hanno investito la posizione processuale di determinati soggetti e se essi debbano considerarsi alla stregua di controinteressati[14]. Il ricorrente rischia gravemente di incappare in una pronuncia di inammissibilità se il dubbio viene sciolto in senso positivo dal giudice quando nessuno di coloro cui poi è stata riconosciuta la veste di controinteressato è stato destinatario della notifica entro il termine.
La soluzione estremamente semplice sarebbe quella di espungere dalla norma il riferimento a “almeno ad uno dei controinteressati”[15]. In tal modo, la notificazione ad una delle controparti sarebbe sufficiente per l’instaurazione del rapporto processuale, salvo il potere dovere del giudice di ordinare l’integrazione del contraddittorio. Questa è del resto la regola accolta dall’art. 102 c.p.c. e, curiosamente, il sistema fatto proprio dal codice del processo amministrativo per il giudizio in appello.
Se poi decliniamo ulteriormente il diritto alla sentenza come diritto ad una buona sentenza ovvero ad una decisione congruamente motivata, non possiamo fare a meno di rilevare come negli interventi più recenti, integrativi o correttivi delle disposizioni del codice del 2010, il legislatore sembri piuttosto propenso a limitare tale diritto sia pure in nome di esigenze, serissime, di speditezza del processo.
Due “correttivi” al codice del processo amministrativo mi sembrano significativi di questo orientamento del legislatore.
L’art. 71 bis, introdotto dalla legge di bilancio 2015[16], assegna un effetto preciso alla istanza di prelievo la quale, ricordo, è l’unico strumento a disposizione della parte che abbia depositato il ricorso presso la segreteria del giudice per sollecitare (magari essendo decorso qualche anno) la fissazione dell’udienza.
Una volta presentata l’istanza di prelievo, il ricorso può essere deciso in camera di consiglio con sentenza in forma semplificata, ovvero con una sentenza che assolve il giudice dall’obbligo di pronunciare su tutti i motivi di ricorso e la cui motivazione può consistere in un sintetico riferimento all’unico punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo. Come a dire, vuoi che il processo si concluda ti devi accontentare di una sentenza dimezzata.
L’art. 72 bis introdotto nel c.p.a. dalla legge del giugno scorso sul “rafforzamento” della amministrazione[17] introduce una sorta di filtro preventivo sui ricorsi che, se risultano suscettibili di “immediata definizione”, sono incanalati in un processo al quale sono impressi i tempi stretti e i termini brevissimi previsti per il ricorso cautelare. In camera di consiglio sono esaminate le ragioni di rito sollevate dalle parti o d’ufficio dal giudice. Se queste sono ritenute fondate la causa è definita per ragioni di rito all’esito della camera di consiglio. In caso contrario viene fissata l’udienza nella quale la decisione è adottata con sentenza in forma semplificata. La norma presenta vari aspetti dubbi: il filtro preventivo è affidato, in buona misura, all’ufficio del processo composto prevalentemente di neolaureati laddove l’espressione di un giudizio primia facie richiede una esperienza ancora maggiore di quella spendibile nel rito ordinario; non è chiaro quali sono i presupposti ricorrendo i quali il rito accelerato è applicabile, essendo la causa reputata di “immediata definibilità”; in ogni caso, il ricorso è deciso con sentenza in forma semplificata e dunque l giudice è assolto dall’obbligo di pronunciare sull’intera domanda e di motivare la decisione in modo esaustivo, ovvero in base alla considerazione di tutti i motivi dedotti dalle parti.
L’uso disinvolto dell’istituto della sentenza semplificata rappresenta anch’essa una ingiustificata limitazione del diritto alla sentenza se, come credo, in tale diritto è implicito quello ad una certa qualità della stessa e in particolare il diritto ad una decisione motivata.
L’obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali è in effetti una conquista di civiltà alla quale non conviene, nemmeno alla nostra epoca, rinunciare poiché il giudice deve “decidere con le ragioni” affinché si abbia vera giustizia[18].

Andreina Scognamiglio
Ordinario di diritto amministrativo
nell’università degli studi del Molise

Note

1.  E che comunque trova un solido fondamento negli artt. 24, 103 e 113 Cost, nonché negli artt. 19 TUE, 263 TFUE e 6 CEDU.

2.  Nella sua dimensione sostanziale l’effettività esige un livello di tutela qualitativamente adeguato rispetto alla situazione soggettiva fatta valere in giudizio. Detto in altre parole e riprendendo la celebre definizione di Chiovenda, esige che il processo dia “praticamente a chi ha un diritto tutto quello e proprio quello che ha il diritto di conseguire alla stregua del diritto sostanziale”, vedi A. Proto Pisani, La tutela giurisdizionale dei diritti nel sistema di Giuseppe Chiovenda, in Foro it., 2002, V, 125 ss.

3.  Per questa definizione vedi R. caponigro, Il principio di effettività della tutela nel codice del processo amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it.

4.  Corte Cost., 12 marzo 2007, n. 77.

5.  Corte Cost., 26 giugno 2018, n. 132.

6.  La regola era enunciata dall’art. 17, ultimo comma, del Regolamento 642 del 1907.

7.  Cfr. art. 156, comma 3, c.p.c.

8.  Cons. Stato, Ad. Plen., 16 dicembre 1980, n. 52.

9.  Per A. Squazzoni, La disciplina “civilizzata” della notificazione nulla del ricorso nel processo amministrativo, in www.giustiziainsieme.it settembre 2021, la regola della salvezza dei diritti acquisiti nelle more della costituzione era al limite del canzonatorio poiché nel processo amministrativo di legittimità la decadenza impera su ogni azione ed è pressoché inimmaginabile che l’amministrazione si costituisca in giudizio prima della scadenza del termine per impugnare.

10.  Corte Cost., 9 luglio 2021, n. 148.

11.  Corte Edu, 28 ottobre 2021, Succi et autres c. Italie.

12.  “la lecture du pourvoi du requérant permettait de comprendre l’objet et le déroulement du litige devant les juridictions du fond, ainsi que la portée des moyens, tant dans leur fondement juridique (le type de critique au regard des cas prévus à l’article 360 du CPC) que dans leur contenu, à l’aide des renvois aux passages de l’arrêt de la cour d’appel et aux documents pertinents cités dans le pourvoi (….) en conclusion, la Cour estime qu’en l’espèce le rejet du pourvoi du requérant a porté atteinte à la substance de son droit à un tribunal”, Corte Edu, 28 ottobre 2021, cit. § 93 e 94.

13.  La formula del “giusto processo regolato dalla legge”, di cui all’art. 111Cost., stabilisce del resto un nesso indissolubile tra giustizia del processo e giustizia delle regole che lo disciplinano.

14.  Controversa è ad esempio la posizione del beneficiario di un contributo pubblico rispetto al ricorso con il quale chi ne è rimasto escluso impugni l’esito della procedura. Il più risalente indirizzo per il quale il beneficiario non assume la qualifica di controinteressato (cfr. Cons. Stato, sez. V, 8 maggio 2007, n. 2122; id. 17 dicembre 1998, n. 1806) è stato superato dall’opposto orientamento con la conseguenza della dichiarazione di inammissibilità del ricorso non notificato ad alcun soggetto in qualità di controinteressato, da individuarsi in caso di elargizione di finanziamenti pubblici limitati nel loro ammontare, tra coloro che precedono il ricorrente in graduatoria e che verrebbero da lui sopravanzati in caso di accoglimento dell’impugnativa” (cfr. Cons. Stato, sez. II, 8 febbraio 2021, n. 1178; Id. 22 gennaio 2020, n. 543; Id. sez. V, 22 marzo 2016, n. 1184).

15.  In questo senso già G. Verde, Norme processuali ordinarie e processo amministrativo, in Foro it. 1985, V, 158 ss.

16.  L. 28 dicembre 2015, n. 208.

17.  L. 6 agosto 2021, n. 113 di conversione del d.l. 9 giugno 2021, n.80.

18.  Così Bernardo Tanucci, primo ministro di Ferdinando IV ed ispiratore del dispaccio reale (c.d. Prammatica) del 27 settembre 1774 con il quale si impose per la prima volta ai magistrati l’obbligo di motivare le sentenze. La riforma, salutata con entusiasmo da Gaetano Filangieri nelle sue Riflessioni politiche, fu poi abrogata dal nuovo Ministro della giustizia del Regno delle due Sicilie (e di nuovo imposta da Giuseppe Bonaparte nel 1806). Un’analoga riforma, sia pure riferita alle sole sentenze penali, fu adottata nel Granducato di Toscana, c.d. Leopoldina dal nome del sovrano, Pietro Leopoldo, che la promosse. Entrambe le riforme adottate negli stati dell’Italia preunitaria precedono di parecchio quelle francesi. In Francia, ancora nel 1771, il penalista Daniel Jousse affermava con fermezza la primauté del modello di sentenza come decisione non motivata. Il nuovo modello di sentenza, quello della decisione “motivata” sia pure non ancora “necessariamente motivata” è introdotto oltralpe dalla legge rivoluzionaria 16-24 agosto 1790 ed è implementato negli anni successivi con la sua inclusione in testi di rango sempre più elevato. La Costituzione dell’anno III (1795) all’art. 288 consacra l’obbligo di motivazione e il principio si diffonde in tutta la legislazione europea. Sull’esperienza napoletana, v. r. Ajello, Preilluminismo giuridico e tentativi di codificazione nel Regno di Napoli, Napoli, 1968, p. 150 s. e M. Tita, Sentenze senza motivi. Documenti sull’opposizione delle magistrature napoletane ai dispacci del 1774, Jovene, 2000. Sulla “storia” dell’obbligo di motivazione, F. Cordero, Procedura penale, 9a ed., Milano, 2011, p. 1017; ID., Sulla via dei «motivi» delle «sentenze»: lacune e trappole, in Foro italiano, 1980, pp. 201 ss. (e anche in Studi in onore di Salvatore Satta, vol. I, Padova, 1982, pp. 661 ss.) e M. Taruffo, L’obbligo di motivazione della sentenza civile tra diritto comune e illuminismo in Rivista di diritto processuale, 1974.