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Quando la procedura è intralcio al processo: considerazioni minime sul diritto alla sentenza

di - 20 Dicembre 2021
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Senza allargare troppo il discorso e per rimanere in tema di notifica, il processo amministrativo è informato alla regola per la quale il ricorso introduttivo deve essere notificato entro il termine di decadenza all’amministrazione e almeno ad uno dei controinteressati. L’obbligo di notifica ad “almeno uno dei controinteressati” è sancito dall’art. 41 comma 2, c.p.a. che riproduce l’art. 2 della l. Tar, a sua volta conforme all’art. 36 del testo unico 1054/1924.
Se consideriamo però che il ricorso e la stessa l’istanza cautelare non possono essere decisi se non a contradittorio pienamente integro (cioè esteso almeno a tutti i controinteressati risultanti dall’atto impugnato), l’obbligo di notifica “almeno ad uno” entro il termine di decadenza e a pena di inammissibilità del ricorso scade ad ingiustificata occasione di pronunce processuali di rito (di irricevibilità del ricorso) che intollerabilmente sacrificano i diritto all’esame nel merito della domanda. Si pensi ai casi incerti e alle oscillazioni giurisprudenziali che hanno investito la posizione processuale di determinati soggetti e se essi debbano considerarsi alla stregua di controinteressati[14]. Il ricorrente rischia gravemente di incappare in una pronuncia di inammissibilità se il dubbio viene sciolto in senso positivo dal giudice quando nessuno di coloro cui poi è stata riconosciuta la veste di controinteressato è stato destinatario della notifica entro il termine.
La soluzione estremamente semplice sarebbe quella di espungere dalla norma il riferimento a “almeno ad uno dei controinteressati”[15]. In tal modo, la notificazione ad una delle controparti sarebbe sufficiente per l’instaurazione del rapporto processuale, salvo il potere dovere del giudice di ordinare l’integrazione del contraddittorio. Questa è del resto la regola accolta dall’art. 102 c.p.c. e, curiosamente, il sistema fatto proprio dal codice del processo amministrativo per il giudizio in appello.
Se poi decliniamo ulteriormente il diritto alla sentenza come diritto ad una buona sentenza ovvero ad una decisione congruamente motivata, non possiamo fare a meno di rilevare come negli interventi più recenti, integrativi o correttivi delle disposizioni del codice del 2010, il legislatore sembri piuttosto propenso a limitare tale diritto sia pure in nome di esigenze, serissime, di speditezza del processo.
Due “correttivi” al codice del processo amministrativo mi sembrano significativi di questo orientamento del legislatore.
L’art. 71 bis, introdotto dalla legge di bilancio 2015[16], assegna un effetto preciso alla istanza di prelievo la quale, ricordo, è l’unico strumento a disposizione della parte che abbia depositato il ricorso presso la segreteria del giudice per sollecitare (magari essendo decorso qualche anno) la fissazione dell’udienza.
Una volta presentata l’istanza di prelievo, il ricorso può essere deciso in camera di consiglio con sentenza in forma semplificata, ovvero con una sentenza che assolve il giudice dall’obbligo di pronunciare su tutti i motivi di ricorso e la cui motivazione può consistere in un sintetico riferimento all’unico punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo. Come a dire, vuoi che il processo si concluda ti devi accontentare di una sentenza dimezzata.
L’art. 72 bis introdotto nel c.p.a. dalla legge del giugno scorso sul “rafforzamento” della amministrazione[17] introduce una sorta di filtro preventivo sui ricorsi che, se risultano suscettibili di “immediata definizione”, sono incanalati in un processo al quale sono impressi i tempi stretti e i termini brevissimi previsti per il ricorso cautelare. In camera di consiglio sono esaminate le ragioni di rito sollevate dalle parti o d’ufficio dal giudice. Se queste sono ritenute fondate la causa è definita per ragioni di rito all’esito della camera di consiglio. In caso contrario viene fissata l’udienza nella quale la decisione è adottata con sentenza in forma semplificata. La norma presenta vari aspetti dubbi: il filtro preventivo è affidato, in buona misura, all’ufficio del processo composto prevalentemente di neolaureati laddove l’espressione di un giudizio primia facie richiede una esperienza ancora maggiore di quella spendibile nel rito ordinario; non è chiaro quali sono i presupposti ricorrendo i quali il rito accelerato è applicabile, essendo la causa reputata di “immediata definibilità”; in ogni caso, il ricorso è deciso con sentenza in forma semplificata e dunque l giudice è assolto dall’obbligo di pronunciare sull’intera domanda e di motivare la decisione in modo esaustivo, ovvero in base alla considerazione di tutti i motivi dedotti dalle parti.
L’uso disinvolto dell’istituto della sentenza semplificata rappresenta anch’essa una ingiustificata limitazione del diritto alla sentenza se, come credo, in tale diritto è implicito quello ad una certa qualità della stessa e in particolare il diritto ad una decisione motivata.
L’obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali è in effetti una conquista di civiltà alla quale non conviene, nemmeno alla nostra epoca, rinunciare poiché il giudice deve “decidere con le ragioni” affinché si abbia vera giustizia[18].

Andreina Scognamiglio
Ordinario di diritto amministrativo
nell’università degli studi del Molise

Note

14.  Controversa è ad esempio la posizione del beneficiario di un contributo pubblico rispetto al ricorso con il quale chi ne è rimasto escluso impugni l’esito della procedura. Il più risalente indirizzo per il quale il beneficiario non assume la qualifica di controinteressato (cfr. Cons. Stato, sez. V, 8 maggio 2007, n. 2122; id. 17 dicembre 1998, n. 1806) è stato superato dall’opposto orientamento con la conseguenza della dichiarazione di inammissibilità del ricorso non notificato ad alcun soggetto in qualità di controinteressato, da individuarsi in caso di elargizione di finanziamenti pubblici limitati nel loro ammontare, tra coloro che precedono il ricorrente in graduatoria e che verrebbero da lui sopravanzati in caso di accoglimento dell’impugnativa” (cfr. Cons. Stato, sez. II, 8 febbraio 2021, n. 1178; Id. 22 gennaio 2020, n. 543; Id. sez. V, 22 marzo 2016, n. 1184).

15.  In questo senso già G. Verde, Norme processuali ordinarie e processo amministrativo, in Foro it. 1985, V, 158 ss.

16.  L. 28 dicembre 2015, n. 208.

17.  L. 6 agosto 2021, n. 113 di conversione del d.l. 9 giugno 2021, n.80.

18.  Così Bernardo Tanucci, primo ministro di Ferdinando IV ed ispiratore del dispaccio reale (c.d. Prammatica) del 27 settembre 1774 con il quale si impose per la prima volta ai magistrati l’obbligo di motivare le sentenze. La riforma, salutata con entusiasmo da Gaetano Filangieri nelle sue Riflessioni politiche, fu poi abrogata dal nuovo Ministro della giustizia del Regno delle due Sicilie (e di nuovo imposta da Giuseppe Bonaparte nel 1806). Un’analoga riforma, sia pure riferita alle sole sentenze penali, fu adottata nel Granducato di Toscana, c.d. Leopoldina dal nome del sovrano, Pietro Leopoldo, che la promosse. Entrambe le riforme adottate negli stati dell’Italia preunitaria precedono di parecchio quelle francesi. In Francia, ancora nel 1771, il penalista Daniel Jousse affermava con fermezza la primauté del modello di sentenza come decisione non motivata. Il nuovo modello di sentenza, quello della decisione “motivata” sia pure non ancora “necessariamente motivata” è introdotto oltralpe dalla legge rivoluzionaria 16-24 agosto 1790 ed è implementato negli anni successivi con la sua inclusione in testi di rango sempre più elevato. La Costituzione dell’anno III (1795) all’art. 288 consacra l’obbligo di motivazione e il principio si diffonde in tutta la legislazione europea. Sull’esperienza napoletana, v. r. Ajello, Preilluminismo giuridico e tentativi di codificazione nel Regno di Napoli, Napoli, 1968, p. 150 s. e M. Tita, Sentenze senza motivi. Documenti sull’opposizione delle magistrature napoletane ai dispacci del 1774, Jovene, 2000. Sulla “storia” dell’obbligo di motivazione, F. Cordero, Procedura penale, 9a ed., Milano, 2011, p. 1017; ID., Sulla via dei «motivi» delle «sentenze»: lacune e trappole, in Foro italiano, 1980, pp. 201 ss. (e anche in Studi in onore di Salvatore Satta, vol. I, Padova, 1982, pp. 661 ss.) e M. Taruffo, L’obbligo di motivazione della sentenza civile tra diritto comune e illuminismo in Rivista di diritto processuale, 1974.

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