Introduzione del volume “Una nuova Germania per l’Europa? L’economia e l’animo tedesco”, Francesco Brioschi Editore, 2021

 

1. Il morbo Sars-Cov2 si è abbattuto su un’Unione Europea (Ue) da tempo notoriamente in crisi, con un tessuto unitario lacerato, un futuro incerto come non mai in un mondo dove il Vecchio Continente vede declinare il suo rilievo economico e demografico ed è politicamente debole, e perciò insidiato dalle tre grandi potenze, la vicina Russia, gli Stati Uniti e la Cina. Tramontati gli ideali che spinsero, dopo le tragedie del passato, a fondare una comunità e non un’unione, la direzione intergovernativa risulta incapace di affrontare problemi e rischi comuni con l’illusione, generata dalla sfiducia reciproca, di poterli meglio gestire da soli. Una sfiducia che l’interesse comune rappresentato da istituzioni sovranazionali – la Commissione e il Parlamento europeo – non riesce a dissipare. E i vertici europei, tutti presi dalla necessità di comporre le proprie divisioni, difficilmente giungono a decisioni costruttive per l’identità europea dei cittadini e per un efficace confronto con il resto del mondo. Così il sentimento di comunanza è andato scemando nelle opinioni pubbliche e l’Unione, difettando di sovranità a casa propria, non può esercitarla sulla scena internazionale.
Ma proprio la pandemia ha portato la Germania a cedere su un principio sempre considerato intoccabile. Angela Merkel, già da molti considerata in declino, ha promosso la mutualizzazione del debito richiesta da nove membri dell’Ue, con in testa la Francia,  per sostenere i paesi più colpiti dal nuovo virus. Ciò ha suscitato speranze di nuova vita per l’Europa. Tuttavia il lavoro da fare è enorme. Lo dimostrano i compromessi e i favori concessi per giungere alla necessaria unanimità nella approvazione di Next Generation Ue (Ngue), le difficoltà poi frapposte alla sua realizzazione e da ultimo la sortita di Wolfgang Schaeuble sulla necessità di ritornare al più presto alla disciplina fiscale per scongiurare una “epidemia da debito”. Una volta uscita di scena Angela Merkel non si è affatto certi di poter contare su doti di mediazione analoghe, eccezionali e difficilmente ripetibili. E non sarà sufficiente la buona volontà del presidente della Commissione Ursula von der Leyen. Occorrerà comunque uno spirito nuovo per rianimare l’Unione, per renderla più unita e sovrana, più efficiente nel suo funzionamento, procedendo alla necessaria riforma dei suoi trattati. Erano queste le buone intenzioni della proposta franco-tedesca di una Conferenza sul futuro dell’Europa, oggi riesumata dopo che se ne erano perse tracce. Questa iniziativa, per risultare efficace, dovrebbe comunque essere guidata da una “vista lunga”, soprattutto da parte tedesca. Ma questo è un campo in cui anche Merkel notoriamente non ha primeggiato. E forse non a caso perché, pur così potente, la Germania è essa stessa incerta su cosa vuole essere. Soffre di un problema esistenziale connesso a una congenita paura del mondo esterno e all’identità da darsi per sconfiggerla, come mirabilmente scritto da Thomas Mann (1945) nel solco di una riflessione secolare sull’animo tedesco da parte di tante menti illustri. È una questione specifica alla Germania, ma è anche, a parere di chi scrive, il maggior punto critico dell’Unione. Questa ricerca di un’identità in grado di sconfiggere una latente angoscia è la questione dalla quale prende le mosse, nel primo capitolo, il racconto che proponiamo al lettore. Ne costituisce il filo conduttore che molto spiega di quanto si fatica a capire della Germania e che risulta più chiaro se nella mai esaurita ricerca dell’identità tedesca si coglie, come nel Faust di Goethe, un conflitto tra due anime: l’una è cinta di un’aureola di superiorità da opporre al mondo per improntarlo a sé; l’altra invece della normalità del popolo tedesco, della sua comunione con l’Europa, sente disperato bisogno e in essa vorrebbe immedesimarsi.

2. Questo libro è stato scritto nella convinzione che la lotta tra queste due anime non sia affatto conclusa anche dopo il recente cambiamento di rotta del governo tedesco e che il suo esito risulterà determinante per il futuro dell’Ue. Della prima, l’anima “germanica”, si occupa il secondo capitolo che tratta dell’ordoliberalismo, pensiero del tutto originale e radicato nella specifica drammatica storia della sconfitta del Reich guglielmino, della conseguente Repubblica di Weimar dalla quale originò la dittatura nazista. Con la sua complessa visione che abbraccia economia, diritto, politica e sociologia, l’ordoliberalismo ben rappresenta l’ambizione tedesca di distinguersi per la capacità di ordinare (“ordo”) il mondo a propria immagine e anche di doverlo fare a fin di bene, secondo un’atavica pulsione missionaria. Della seconda anima, quella che nella stedeschizzazione trova la sua identità come, secondo Nietzsche, “dovrebbe fare ogni buon tedesco”, si occupa il terzo capitolo. Il lettore vi troverà l’illustrazione di un vecchio, ma ancora presente, conflitto tra l’identità europea, abbracciata con convinzione e passione da Adenauer, e un’identità tedesca strettamente improntata all’ordoliberalismo allora auspicata dal ministro dell’Economia, il reputato padre del miracolo economico Ludwig Erhard, ancora recentemente celebrato per le sue idee dal presidente del Bundestag Wolfgang Schäuble. Quel conflitto sfociò in un compromesso destinato a segnare la vita della Rft con due connotati di cui i suoi cittadini diverranno particolarmente fieri: l’economia sociale di mercato e la Bundesbank, intransigente custode della stabilità monetaria e più ancora informale rappresentante di una “costituzione economica” non prevista in quella federale ma potente nel condizionare governo e parti sociali. Smarrita la propria identità dopo la tragica sconfitta della Seconda guerra mondiale, il popolo tedesco poteva così riconoscersi non solo nella costruzione di un’Europa comunitaria ma anche nell’orgoglio per la propria economia sociale di mercato e la sua stabilità, che finiranno per avere grande influenza sull’Unione. La Germania in primo luogo europea informava a sé la politica estera di Bonn, in confronto dialettico non scevro da tensioni con l’anima più intransigente sull’identità tedesca, quella rappresentata dalla Bundesbank, idolo venerato dall’opinione pubblica.
Comunque non venne mai posta in discussione, se non durante una breve parentesi verso la fine degli anni Sessanta con il primo ingresso dei socialdemocratici al governo, la peculiarità tedesca che più colpisce l’economista: la singolare avversione al debito pubblico e la determinazione a mantenere un attivo nei conti con l’estero. Per comprendere questa peculiarità – in effetti non presente in alcun altro paese comparabile – serve ancora rifarsi a Mann, quando tratta della libertà come storicamente sentita dal popolo tedesco. Un concetto di libertà “sempre rivolto soltanto all’esterno”, avverso alla dipendenza da altri, mentre assai meno è sentito l’ideale della libertà dell’individuo nei confronti dell’autorità statuale. Un “individualismo [nazionalistico] autocentrato prepotente verso l’esterno, nei rapporti col mondo, con l’Europa”, scriveva Mann, ovviamente riferendosi a ciò che aveva vissuto. Non è però necessario rivangare quei tempi terribili per riprendere quel che sembra ancora valere per la grande democrazia della Repubblica Federale. Che abbisogna della certezza di non dover nulla ad altri e addirittura di tenere, per così dire, il coltello dalla parte del manico. La Germania è andata accumulando surplus che l’hanno resa un creditore netto pari alla Cina. Con la differenza che quest’ultima ha saggiamente ridotto il suo enorme surplus a favore dei propri consumi e investimenti, come normalmente accade a un certo punto per le economie dallo sviluppo trainato dalle esportazioni. Non a caso quella tedesca è stata considerata una forma di masochismo in quanto priva i propri cittadini di risorse che potrebbero essere meglio impiegate per innalzare la crescita e il livello di vita. Allargando poi lo sguardo all’Unione, il masochismo si traduce in sadismo poiché pesa sulla crescita dell’intera Eurozona, che risulta modesta nel confronto internazionale. In altre parole, è certo che si trarrebbe tutti vantaggio da un’economia tedesca più dinamica perché liberata dall’ossessione del debito pubblico e del surplus nei conti con l’estero. D’altronde un’economia più capace di correre da sola senza contare sulla crescita altrui costituisce un fattore strategico per la dimostrazione del valore dell’Ue, per la sua coesione e per il suo rilievo nella politica internazionale. Tutti obiettivi, questi, peraltro qualificanti del programma della Commissione von der Leyen.

3. Dopo il crollo del Muro di Berlino il precedente compromesso tra identità tedesca ed europea viene meno. Da un lato l’identità europea viene rilanciata con il sofferto abbandono del marco accompagnato dall’avvio, almeno in nuce, dell’unione politica fortemente voluta da Kohl. D’altro lato viene smarrita la fiducia nella superiorità dell’economia tedesca, sconvolta dall’aggregazione dei Lander orientali. Nella Germania così indebolita – la “malata d’Europa” nella nota definizione dell’Economist – si ripresenta la questione della sua identità.
La reazione verrà con Schröder – come illustrato nel quarto capitolo – con la sua svolta che rifiuta la visione di una Germania democratica ed europea “per forza” a causa dei suoi trascorsi. Viene allora orgogliosamente affermato che la grande e convinta democrazia tedesca aveva ormai preso piena e indiscutibile coscienza delle colpe ereditate dal passato e perciò la Germania poteva finalmente essere europea per scelta. Lo confermava con la promozione del progetto di Costituzione europea fortemente voluta dal ministro degli Esteri Joschka Fischer. Un progetto coltivato non da un paese smarrito ma, al contrario, da una Germania che sapeva dimostrarsi di esemplare forza perché capace di cambiare il proprio modello sociale con le riforme dette Hartz, altra componente della svolta del cancelliere socialdemocratico.
Erede di questi cambiamenti, Angela Merkel ne ha esaltato la portata. Anche grazie alla riconosciuta autorità acquisita con il suo impegno per rimediare, con il Trattato di Lisbona, al fallimento della Costituzione europea, la cancelliera riesce a dar corpo a una nuova, e forte, identità della Germania quale “maestra di scuola”. A costruire tale identità concorsero la congiuntura internazionale particolarmente favorevole ai prodotti tedeschi, determinante per la ripresa dell’economia giusto dopo le riforme Hartz, la straordinaria tenuta dell’occupazione tedesca durante la crisi finanziaria globale, nonché la scoperta della grave situazione finanziaria nascosta da Atene. È, in particolare, la drammatizzazione di quest’ultima da parte della cancelliera che le consente – lo vedremo nel quinto capitolo – di esercitare un indiscutibile comando nella gestione della crisi dell’euro che lei stessa aveva tatticamente alimentato. Fino a giungere all’estremo rischio di un disfacimento della moneta unica abilmente evitato passando la palla a Mario Draghi che l’ha scongiurato con il celebre whatever it takes, meritando la massima onorificenza della Repubblica Federale dopo la fine del suo mandato alla Bce.

4. La traccia seguita da Merkel nel gestire le conseguenze della crisi importata dagli Stati Uniti e il caso greco, nel dettare le proprie condizioni e i “compiti a casa” per gli alunni ritenuti, a ragione o a torto, indisciplinati, ricalca puntualmente i principi dell’ordoliberalismo, ormai divenuto imperante e non più tenuto a bada in patria come in precedenza, anche perché rappresentativo di quella “anima germanica” che aveva preso il sopravvento con il sostegno di sentenze della Corte costituzionale sempre più critiche nei confronti degli impegni comunitari del governo. Tuttavia questa identità di una Germania che si fa egemone con un suo vangelo per l’Unione ha incontrato i limiti fissati da una storia di lunga data. La Germania non può essere egemone in quanto “tedesca”, ovvero se nel conflitto tra le sue due anime vince quella di una congenita diversità. La Storia – con la S maiuscola – ne suggerisce il motivo: ci rammenta che i modi in cui la Germania è particolarmente tentata di darsi una propria coscienza distintiva sono anche quelli più insidiosi per la convivenza internazionale. Anche se il passato è passato, non è tramontata e si ripresenta sotto altre forme la celebre alternativa tra Germania europea ed Europa tedesca. Il lettore la troverà qui coniugata in altro modo. Ovvero, adattando ai tempi nostri, se la Germania sceglie di farsi valere nell’Ue esaltando sé stessa si rivela alla fine incapace di svolgere il suo indispensabile ruolo di promotore di un’Europa unita. E la sua appartenenza all’Ue diviene fonte di problemi, piuttosto che costruttiva. In breve, più la Germania è tedesca meno l’Europa si sente unita. Lo dimostra la crisi in cui è piombata l’Unione a seguito del potere assunto da Merkel quale abile e determinata maestra di princìpi tedeschi. Perché se è vero che le doti politiche della cancelliera sono state vincenti in frangenti difficili per l’Europa, dobbiamo anche rilevare che la sua gestione dell’Eurozona durante la crisi greca non solo ha comportato costi economici e sociali che potevano essere evitati, ma ha anche finito per avere pesanti conseguenze politiche. Londra ha lasciato un’Unione troppo dominata dalla Germania (e ciò è costato particolarmente a Berlino), Parigi ci è andata vicino, in Italia è andato al governo un populismo antieuropeo pur in spregio dell’interesse nazionale. E all’origine dello scontro Nord-Sud, della formazione del fronte di paesi poi autodefinitisi “frugali”, non sta forse lo spartiacque tra paesi creditori e debitori, tra “formiche” e “cicale” segnato da Berlino durante la crisi dell’euro? Non ha dunque perso di validità l’idea che aveva guidato per oltre mezzo secolo la normalizzazione della Rft: un esercizio del suo potere da attuarsi con grande cautela e mai in quanto tedesco. Lo ricordiamo nel terzo capitolo con qualche significativo flash sul passato che vede anche il “miracolo economico” tedesco come risultato dell’omologazione della Germania, e non tanto di sue virtù distintive. Quelle straordinarie performance economiche rientrano infatti nel più generale fenomeno della cosiddetta “età dell’oro” europea che ha visto altri “miracoli”, a partire da quello italiano.
La vocazione europea della Rft è stata tuttavia delusa dai partner, in particolare dal privilegiato vicino francese. Soprattutto quando tale vocazione andava decisamente riaffermata, in seguito alla riunificazione. Parigi volle la moneta unica ma non in realtà quell’unione politica proposta da Kohl con tale lungimiranza da essere molto più tardi ritenuta indispensabile proprio dall’Eliseo, con il presidente Macron. Anche a motivo della delusione allora patita, Berlino si è data, con il nuovo millennio, la nuova identità di un potere non più “domato” per necessità, bensì libero di perseguire i propri interessi (con Schröder) ed egemonizzante con intransigenza sui propri principi (con Merkel).

5. Se il potere così assunto da Berlino è risultato divisivo per Europa, non sembra aver soddisfatto gli stessi tedeschi. Il responso delle elezioni politiche del 2017 non ha premiato il governo della cancelliera. Il successo di Alternative fur Deutschland (AfD) nei Lander orientali e il crollo dei socialdemocratici hanno aperto una crepa nell’identità della Germania quale democrazia, società, economia esemplare. Una crepa non solo originata dall’episodio della accoglienza dei migranti proclamata dalla cancelliera nel 2015, ma ben più radicata nel sentire degli elettori. Dall’interno della Germania, dalla vita dei suoi cittadini emergeva uno scontento contrastante con l’immagine presentata in Europa. Dello scontento si era fatta interprete AfD, proponendo una terapia capace di toccare corde sensibili dell’animo tedesco, cioè una Germania nazionalista retta da un popolo che difenda la sua integrità, i suoi valori, la sua sovranità. Non si sarebbe probabilmente arrivati a quel punto se il governo non avesse sacrificato spesa sociale e investimenti pubblici all’orgoglio di una riduzione del suo debito sovrano, addirittura voluto al di sotto dei parametri di Maastricht. Sono stati così trascurati punti dolenti per molti elettori: le oggettive diseguaglianze economiche tra Est e Ovest, accompagnate da una concentrazione del reddito e della ricchezza tra le più elevate nell’Ue; il diffuso senso di precarietà vissuto dai quasi otto milioni di occupati atipici, soprattutto giovani; classi medie relativamente agiate timorose di perdere il loro status a causa della globalizzazione. Insomma, un crogiuolo di risentimenti ostile verso l’immigrazione, raccolto e alimentato da AfD con il suo appello all’integrità del popolo tedesco e ai suoi tradizionali valori cristiani da difendersi dall’alterità musulmana così come dalla corruzione dei costumi consentita da una classe politica troppo permissiva. La stessa classe politica accusata di aver di fatto avallato la politica monetaria della Bce, favorevole ai paesi più indebitati a danno dei risparmiatori tedeschi, sfidando la tenace e “sana” opposizione di autorevoli voci in Germania e della stessa Bundesbank.
La cancelliera ha così pagato il suo essersi adeguata, senza mai contrastarla per opportunismo, a un’opinione pubblica erroneamente convinta di essere stata fin troppo solidale con i paesi indisciplinati, a partire dalla Grecia, e di essere sfruttata piuttosto che beneficiata dall’Ume. Lasciata correre l’insoddisfazione di una fetta dell’elettorato per un’Ue pur a direzione tedesca, l’anima “germanica” si è fatta sentire più pesantemente e in modi molto diversi dal passato. Decisamente più estremisti ma con accenti suadenti per i democratici della Cdu e per i liberali del Fdp che non hanno esitato, a inizio 2020, ad allearsi con AfD per governare la Turingia prima della rinuncia imposta da Merkel.
L’economia tedesca era nel frattempo entrata in difficoltà per motivi non congiunturali che hanno messo in discussione la sua gestione mercantilista. L’impronta protezionista di Donald Trump sul commercio internazionale ha messo in luce la contraddizione insita nella ricerca tedesca della propria già citata “libertà esterna” rendendosi creditore del resto del mondo. Una via che può portare, al contrario, alla dipendenza delle sorti dell’industria tedesca dalla volontà e dagli interessi delle grandi potenze rivali, Stati Uniti e Cina. Questa vulnerabilità di fondo rappresentava, già prima dello scoppio della pandemia, una minaccia per la crescita della Germania e dell’Eurozona in particolare. Ma la cancelliera continuava, pur con la sua economia sull’orlo della recessione, a sposare l’ortodossia della riduzione del debito pubblico.
Tuttavia, a inizio 2020, Merkel sentiva il bisogno di esprimere, in una delle sue rare interviste sulla stampa internazionale, opinioni che avrebbe potuto ben prima indirizzare ai suoi concittadini dalla visione distorta su vantaggi e costi derivanti per il proprio paese dall’integrazione europea. Dichiarava che la vera “ancora di salvezza” della Germania è l’Ue, dalla quale il paese ha tratto grandi benefici e che rimane essenziale per i suoi interessi, per la sua stessa identità. Una “marcia indietro” rispetto all’identità del paese che lei stessa aveva costruito, egemonizzante in un’Europa che vorrebbe a sua immagine. La pandemia ha forse colto la Germania già di nuovo alle prese con il suo problema esistenziale: tedesca o europea? È il tema che riprendiamo nell’ultimo capitolo.

6. Fino all’ultimo minuto prima dell’arrivo del Sars-Cov2 il governo Merkel non cede sulla sua ortodossia della riduzione del debito pubblico, nonostante inconsuete pressioni di industria e sindacati in fronte comune. Ma rapidissima è la conversione dinnanzi alla prima ondata della pandemia. Berlino agisce con estrema e intelligente decisione, guidata da grande pragmatismo. In Germania limita i danni non solo sanitari ma anche economici, con un sostegno all’economia di dimensioni inusitate. La caduta del Pil è relativamente modesta e la ripresa rapida. Sul fronte esterno, e al di là del breve periodo, rimane però il problema della crescita economica tedesca, che già aveva ridotto il suo potenziale. Le prospettive ora si aggravano in un mondo divenuto più incerto quanto a sviluppi del commercio internazionale e sorti della globalizzazione. Il virus ha colpito non solo tanti esseri umani ma i modi in cui si rapportano e ciò accresce la vulnerabilità dell’economia tedesca ben più delle istanze protezionistiche di Donald Trump. Non è più scontato, e non lo sarà neanche con la nuova amministrazione Biden, il favorevole contesto che ha consentito alla Germania di aggiungere ingenti surplus nei conti con il resto del mondo all’avanzo già esistente verso il mercato unico europeo. Il futuro delle esportazioni dipenderà in larga parte da fattori non controllabili dalla classe dirigente tedesca e la cancelliera ne prende atto, volgendo uno sguardo solidale verso il proprio cortile, l’Unione. Con il piano Next Generation Ue e gli altri provvedimenti di sostegno, fortemente voluti da Berlino in coppia con Parigi, prende il sopravvento, nella lotta tra le due anime tedesche, quella europea. Cede l’inossidabile difesa dei propri principi, che negavano qualsiasi ipotesi di mutualizzazione del debito. Un notevole passo in avanti che ha fatto ben sperare anche per l’Ume irrigidita da una dottrina tedesca incisa su pietra.
La gestione virtuosa della prima ondata di Sars-Cov2 non regge però alla prova dell’arrivo dei vaccini che avrebbero dovuto far uscire definitivamente l’Unione dalla crisi. Sia la Commissione presieduta dalla delfina di Merkel sia il governo della cancelliera hanno deluso le aspettative, con l’Unione e la Germania incapaci di offrire ai cittadini quella copertura vaccinale rapidamente attuata non solo dagli Stati Uniti ma anche del Regno Unito appena staccatosi dai vecchi partner. Un duro colpo per la popolarità dell’Unione, di Merkel e per l’economia che ripiomba nell’incertezza della ripresa. Ma in qualche mese la situazione si è regolarizzata e ancora una volta la cancelliera ha riacquistato consensi. Quando questo libro uscirà mancherà poco alla fine del quarto mandato di Angela Merkel che lascerà in eredità il problema di fondo del rapporto tra Germania e Unione da lei gestito con rara abilità tattica. È il problema dell’identità dal quale siamo partiti e al quale ritorniamo nelle battute conclusive. La Germania non può che essere leader, soprattutto in un’Europa che trova ormai le ragioni per essere unita nella convenienza di non perdersi nella globalità del mondo dove Berlino primeggia. Ma una sua egemonia stride con i principi che regolano la sua economia, la sua società, la sua stessa democrazia. La forza dell’Unione risiede nella pluralità delle culture, delle esperienze storiche fissate nei diversi ordinamenti. Un’Europa tedesca non è una vera Europa, si smarrisce, com’è avvenuto nel passato decennio. Saranno in grado gli eredi di Merkel di governare questo problema, di ridimensionare l’anima “tedesca” conducendo quella europea della Repubblica Federale verso il progresso dell’Europa unita? È un interrogativo che non si può che lasciare aperto e perciò ci limitiamo a chiudere il nostro racconto mettendo in tavola le principali carte che possono giocare a favore o contro un esito favorevole per l’Europa, per la stessa Germania. Con il nostro paese ora capace di giocare ottime carte grazie al governo di Mario Draghi che ben conosce il travaglio esistenziale tedesco.