Il territorio nel PNRR

E’ di qualche utilità interrogarsi di quale e se c’è un territorio nei due importanti documenti di pianificazione nazionali, PNNR e PNC?
Si tratta di due documenti che aspirano a non essere di “settore”, ma a veri e propri piani integrati che entrano nella scena della pianificazione e programmazione nazionale dopo anni di assenza di documenti del genere.

Bisognerebbe ritornare addirittura al “Progetto ‘80” ed alle sue “Proiezioni territoriali” ed al primo “piano economico nazionale” (1965 – 1969, ministro Pieraccini), per imbattersi in documenti simili soprattutto per il PNRR. Nel frattempo, abbiamo prodotto perlopiù solo leggi di finanza annuali (variamente denominate in rapporto alle contingenze socio-economiche), e alcuni piani di settore, largamente inapplicati; più recentemente spesso definiti “strategie”. Inattuati sono rimasti anche i piani territoriali regionali e provinciali, privi di una finanza propria e con la sola arma (spuntata) del “coordinamento”.

L’esercizio non è nuovo (MIT, Lo sviluppo sostenibile del territorio nella prospettiva europea, Caserta 2013; IFEL, La dimensione territoriale del QSN 2007-2013, 2013; ecc.), per di più promosso da territorialisti delusi dalla mancanza della dimensione territoriale esplicita nelle politiche pubbliche in generale.
Ma sono deluse, ed a proposito proprio del Recovery Plan europeo dal quale ha origine il nostro PNRR, anche le regioni UE che sentono trascurata la dimensione territoriale e con essa loro stesse (“Recovery, regioni UE in allarme: siamo escluse”, “Il Sole -24” ore del 29 giugno 2021).
Ricordo, per inciso, che la sottovalutazione  delle regioni, allora ancora neanche istituite, fu una delle critiche maggiori che suscitò “Il Progetto ‘80”.

Da tempo la stessa critica viene rivolta perfino alla politica comune agricola (PAC), colpevole di non avere un territorio, ma solo le proiezioni territoriali della politica economica agricola, con il conseguente contrasto che determina tra economie (e territori); ad esempio, di collina e di pianura.  Nel caso entrano in ballo anche questioni geopolitiche ovviamente.

La risposta all’interrogativo, rifuggendo da nostalgia e retorica, è affermativa. Non solo in assoluto, ma proprio per la specificità degli obiettivi che ispirano i due piani: sostenibilità e resilienza, nella prospettiva della transizione ecologica della società e dell’economia.
Sempre con un richiamo al passato, per quanto sto per affermare, si dovrebbe guardare soprattutto alla Francia, tra il IV e il V piano economico nazionale – periodo che abbraccia la crisi energetica del 1972/73 -, allorché si affermò il principio che il “territorio è l’opzione prima dello sviluppo”, quindi non più “proiezione” della politica di sviluppo (pardon, di crescita). Si riteneva finita l’era che “l’economia agisce e il territorio segue”.

Infatti “l’aménagement du territoire” da lì in poi cambiò di senso: i piani territoriali non furono  più solo di assetto (“schema”) – la definizione ci accomuna alla Francia, basta ritornare al DPR 616/1977, con le due fondamentali nozioni di assetto ed uso del suolo, con le quali si ripartivano le competenze tra Stato, Regioni e Comuni -,  ma anche e soprattutto di “coerenza territoriale”.
Di un assetto ed un uso del suolo coerenti con il territorio, nella sue nature intrinseche di suolo, spazio e luogo. E quindi con le diverse “coperture” che la storia vi ha depositato.
Un territorio che nel suo progetto disegna una nazione, anche nella sua immagine fisica nella quale si identifica e a mezzo della quale si comunica. I piani territoriali ebbero una notevole importanza nel processo di identificazione delle popolazioni con il territorio che abitano e quindi possiedono.

Acuta fu l’intuizione di alcuni storici dell’architettura che videro nelle figure delle “Proiezioni territoriali” del “Progetto ?80”, uno dei rari tentativi di “disegnare” l’Italia! Nella stessa logica della pianificazione territoriale francese alla ricerca di una “figura territoriale” rappresentativa della nazione (il famoso “esagono”).
Posto così il problema, non è inutile l’interrogativo: quale e se c’è un “territorio esplicito” nei due documenti di pianificazione e programmazione attualmente in campo, per di più dotati di una finanza propria molto ricca, almeno rispetto a quella di altri documenti simili, certamente del passato e forse anche in futuro.

Oltre le azioni e le riforme “orizzontali” – pubblica amministrazione e giustizia -, che rappresentano i presupposti comuni a tutte le azioni del piano, anche dette “missioni”, che hanno ovviamente a riferimento l’intero territorio nazionale, quelle più propriamente di settore sono: “Digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura e turismo”; “Rivoluzione verde e transizione ecologica”; “Infrastrutture per la mobilità sostenibile”; ”Istruzione e ricerca”; “Inclusione e coesione”; “Salute”.

E’ il modo come queste azioni/missioni – la critica investe sia il PNRR vero e proprio che il collegato PNC -, si esplicano, che fa dubitare per via dell’assenza di un territorio e di una visione territoriale espliciti. Molto “di settore” e poche interfacce. Quasi nulla di una “azione pubblica territoriale” integrata.

Estrema fiducia è posta nella capacità della digitalizzazione di connettere il territorio. Si dimentica che questa rete determina una fortissima gerarchizzazione, discretizza ulteriormente i territori, per quante azioni di compensazione si possano applicare con la mitica specifica azione di “Inclusione e coesione”.

La critica prende ancora più forza se si considera che tra gli obiettivi alla base dei due piani vi è quello di un territorio connesso e più equilibrato nelle dotazioni e nelle possibilità di accedervi, grazie alle infrastrutture materiali ed immateriali.

Il territorio esplicito in realtà è solo quello di sue “porzioni” (aree interne, ZES, tipologie di infrastrutture, ecc.), e delle attrezzature pubbliche (asili, scuole, ospedali, ecc.) e private (soprattutto con la “copertura” dei vari bonus edilizi, per l’efficientamento energetico, il miglioramento sismico).
Implicito, come già osservato, è anche il territorio delle infrastrutture fisiche (strade, ferrovie, acquedotti e altre reti); il territorio è quello “stanco” dell’impatto ambientale e delle procedure della sua valutazione che ancora una volta si vorrebbero semplificare, con il rischio già concretizzatosi che ci possa essere una collisione tra i provvedimenti di semplificazione che si rincorrono. Non basta la volontà di territorializzare le infrastrutture cercando un migliore inserimento ambientale, occorre porre obiettivi ambientali alla base delle scelte e dei progetti. Anche tra modi di trasporto ed oramai sempre più tra le fonti di energia che alimentano i mezzi di trasporto: ha ancora senso la preferenza per il tram difronte allo sviluppo della capacità di autonomia del bus elettrico?

Anche le città, grandi e meno grandi, ed in genere il processo di urbanizzazione, sono visti non in sé stessi, come generatori di crescita, ma in quanto “contenitori di azioni”: progetti di rigenerazione urbana per combattere l’emarginazione sociale, creare housing temporaneo, portare i piani urbani integrati ed i programmi innovativi della qualità dell’abitare (gli ultimi due già operanti).

La qualità migliore del piano, malgrado i limiti di cui sopra, è senz’altro quella di essersi misurato con la valutazione del suo impatto macroeconomico, optando per tale esercizio sul modello più gradito alla UE.
Tutto sembra tenersi, l’impatto è positivo, anche se il contributo alla crescita del PIL non appare poi così elevato, a fronte di tante risorse impiegabili previste.

Non tutti i settori sui quali si è scelto di puntare, soprattutto quelli dove sono previsti i maggiori investimenti (digitalizzazione, ad esempio), sono a impatto economico elevato, o è poca l’interdipendenza tra loro?
Che manchi la valorizzazione della capacità aggregativa e moltiplicatrice del territorio?

In conclusione formulo un auspicio: che l’attuazione soprattutto del PNRR, non porti ad una sua banalizzazione, cioè che non divenga, di fatto, una ordinaria legge finanziaria, tipo quelle di bilancio annuali, seppure pluriennale.
E che ci si astenga dall’utilizzarla – cosa che purtroppo sta già avvenendo -, come fonte di vantaggio meramente procedurale.

Con la conseguente corsa, ad esempio, all’inserimento di ulteriori opere (attualmente dieci): è già accaduto con la “Legge Obiettivo” degli inizi degli anni 2000, vista come veicolo procedurale facilitato (e per questo anche troppo criticata), che non come un progetto di sistema infrastrutturale integrato e una fonte di risorse finanziarie.