L’ascesa della Cina e lo smarrimento dell’occidente
Roma ci presenta un panorama diverso, anche se con tratti simili. L’antica Roma era un mondo agricolo ma allo stesso tempo guerriero, in cui ciascuna famiglia era governata da un pater che aveva diritto di proprietà assoluto sulla moglie, i figli, gli schiavi, gli animali, la terra e gli oggetti nel suo patrimonium. I rapporti tra i patres erano definiti dal diritto, ius. I rapporti tra cittadini avevano anche una dimensione pubblica che si esplicava in tempo di pace nella vita politica (si ricordi che già prima dell’età repubblicana i re erano normalmente eletti), e in tempo di guerra nell’organizzazione dell’esercito in cui l’emissione di ordini militari era detta iubere, che ha la stessa radice di ius. La coesione sociale era aumentata da un forte senso di autorità, che non coincideva con il potere (“cum potestas in populo auctoritas in senatu sit“) ma che manteneva il cittadino, libero in casa e fuori, moralmente vincolato al mos maiorum e alle istituzioni dello stato.
Il terzo elemento della composita concezione occidentale dell’uomo e della legge è la tradizione giudaico-cristiana, che investe l’occidente in piena epoca storica trasformandolo radicalmente ma senza sostituirsi ad esso. L’Antico Testamento dal punto di vista politico sembra conoscere principalmente monarchie. Esiste invero un governo dei giudici ma esso non è descritto i dettaglio e nulla lascia immaginare un’organizzazione paragonabile a quella romana o greca. L’Antico Testamento non si interessa molto di organizzazioni costituzionali, ma si interessa invece moltissimo dell’uomo e della legge. Esso descrive un uomo il cui valore sta nel rapporto con Dio. Adamo, Noè, Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè non sono re. Alcuni di loro si rapportano a re e, come Mosè, diventano protagonisti di azioni politiche di rilievo, ma la narrazione non si sofferma su di esse quanto o con la stessa attenzione con cui si sofferma sul modo in cui Dio parla con loro ed essi parlano con Dio. Allo stesso modo, la legge, descritta dettagliatamente nella Thorah, ha valore non perché evita la violenza tra i cittadini (ne cives ad arma ruant), ma perché è ciò che Dio dice al suo popolo (“ascolta Israele”). In questo contesto culturale, il cristianesimo fa un passo ulteriore: Dio non si limita a parlare all’uomo, ma diventa uomo per attrarre l’uomo a sé, per farlo figlio ed erede, perché l’uomo possa diventare simile a Dio. Dunque l’uomo, ciascun uomo e ciascuna donna, acquisisce immediatamente un valore ed un potenziale infinito, di cui la legge non può non tenere conto. Nel Nuovo Testamento, Gesù prende da subito le distanze dalle istituzioni (“date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”; “il mio regno non è di questo mondo”) e nei primi secoli il movimento cristiano sembra avere un atteggiamento se non necessariamente anti-istituzionale, sicuramene non istituzionale. I cristiani affermavano fieramente la propria libertà soprannaturale, affrontando la condanna a morte pur di non compiere il gesto simbolico di sacrificare un grano d’incenso al genio dell’imperatore. Costantino, Sant’Agostino e forse anche la necessità pratica di salvaguardare un minimo di civiltà di fronte alle invasioni germaniche hanno successivamente istituzionalizzato la Chiesa tanto che secoli dopo sarà possibile dire Ecclesia vivit lege romana.
L’innesto del cristianesimo sulla cultura giuridica e politica greco-romana ha portato ad una trasformazione di essa dall’interno, radicalizzando ed estendendo l’idea del valore del cives, tanto che Giustiniano nelle Istituzioni arriva a dire: “Servitus autem est constitutio iuris gentium, qua quis dominio alieno contra naturam subicitur”, la schiavitù è un istituto del diritto delle genti, che assoggetta alcuni al dominio di altri contro natura. Senza abolire la schiavitù le Institutiones, con il sigillo imperiale, la svuotano di giustizia, cioè di valore, in un’economia che restava basata sulla schiavitù tanto da doverla sostituire con la servitù della gleba quando essa venne di fatto meno. Per arrivare alla totale abolizione formale della schiavitù in occidente dovremo attendere il XIX secolo, ma il più era fatto: con l’eccezione di qualche disperato tentativo nel continente americano, la schiavitù, da parte dell’ordine naturale quale era percepita in età antica, era diventato qualcosa di esistente ma indifendibile, come una malattia.
Tommaso D’Aquino compie un ulteriore passo dicendo che nella legge “Si vero in aliquo, a lege naturali discordet, iam non erit lex sed legis corruptio” ove vi sia una discordanza con la legge naturale per qualche aspetto, essa non è più legge ma corruzione della legge.[4] Un’affermazione di questo tipo, se presa sul serio, creerebbe problematiche importanti a più di un legislatore in quanto pone al legislatore e più in generale al potere dei limiti esterni e tendenzialmente oggettivi. Si può certo discutere se una particolare norma sia o no parte del diritto naturale, ma è be chiaro che nulla che sia palesemente ingiusto può trovare giustificazione in una regolarità giuridica formale.
L’idea di stato nella dottrina occidentale moderna e contemporanea
Lo scisma anglicano e la successiva rivoluzione inglese causarono un’incrinatura importante nella teoria politica occidentale. Hobbes nel Leviatano ci dice sostanzialmente che il diritto naturale porta ad una situazione di guerra di tutti contro tutti, [5] che riporta l’uomo da un livello divino ad uno animale (homo homini lupus). Locke, nel primo dei due trattati sul governo sostiene che: “Lo stato naturale è anche uno stato di uguaglianza in cui ogni potere e giurisdizione è reciproco e nessuno ha più di un altro. È evidente che tutti gli esseri umani – in quanto creature appartenenti alla stessa specie e grado e nati indistintamente con tutti gli stessi vantaggi e facoltà naturali – sono uguali tra loro. Non hanno alcun rapporto di subordinazione o di soggezione, a meno che Dio (il signore e padrone di tutti loro) non abbia chiaramente posto una persona al di sopra di un’altra e le abbia conferito un indubbio diritto di dominio e sovranità“.
Sembra sfuggire sia all’uno che all’altro in che in primo luogo la sovranità individuale illimitata implica anche un valore illimitato e che dunque esiste non solo un diritto dell’altro (che può farci degenerare nella guerra di Hobbes o può richiedere l’intervento di un sovrano come suggerisce Locke) ma anche un dovere mio di rispettarlo, e che questo dovere ha implicazioni altrettanto naturali, o se vogliamo divine, del mio diritto originario. In secondo luogo, che questi doveri naturali sono dovuti non solo all’altro, ma anche a me stesso e che dunque, ad esempio, atti con cui dispongo della mia vita (se decido di suicidarmi o accetto di essere ucciso) o dispongo del mio corpo come una res (per esempio mi vendo in schiavitù o mi taglio una gamba per venderla) sono contrari al diritto naturale e devono di conseguenza essere illeciti nel diritto positivo. Quest’omissione, forse dettata da un desiderio di autodeterminazione illimitata, determina una contraddizione tra la libertà e la convivenza che porterà delle conseguenze importanti sulla formulazione dell’idea di uomo nel pensiero occidentale.
La contraddizione è ben evidenziata nel Contratto Sociale di Rousseau: “L’obbedienza alla legge che uno ha prescritto a se stesso è la libertà. Trovare una forma di associazione che difenda e protegga con tutta la forza della comunità la persona e la proprietà di ogni associato, e con la quale ognuno, unendosi a tutti, obbedisca solo a se stesso e resti libero come prima. Questo è il problema fondamentale per il quale il contratto sociale fornisce la soluzione. (…) Se, dunque, scartiamo dal patto sociale ciò che non è della sua essenza, troveremo che si riduce ai seguenti termini: Ognuno di noi mette la sua persona e tutto il suo potere in comune sotto la direzione suprema della volontà generale; e noi riceviamo ogni membro come una parte indivisibile del tutto.” Nell’esaltare l’autonomia individuale come unica fonte dell’ordinamento, tuttavia, Rousseau pone il seme di un’idea di stato che mise lo stato al centro e non più l’uomo e che, un secolo e mezzo dopo, si incarnò un totalitarismo mai conosciuto prima, arrivando a tali livelli di disumanità che, come vedremo, il diritto naturale cacciato dalla porta, dovette rientrare un po’ malconcio dalla finestra. Kant si rende bene conto dei limiti della dottrina del contratto sociale, quando scrive: “Piuttosto, la mia libertà esterna (giuridica) deve essere spiegata in questo modo: è l’autorità di non obbedire a nessuna legge esterna che non sia quella a cui ho potuto dare il mio consenso.”[6]
E’ Hegel tuttavia a compiere il passo definitivo: “Rousseau(…) ha avuto il merito (…) di aver stabilito la volontà come principio dello Stato. Ma in quanto ha concepito la volontà solo nella forma definita della volontà individuale, e non come ciò che è razionale in sé e per sé della volontà, ma solo come ciò che è comunitario, che emerge da questa volontà individuale cosciente, l’unione degli individui nello stato si esplicita per mezzo di un contratto, si basa dunque sulle opinioni e sull’arbitrio. Ne seguono come si può capire conseguenze distruttive verso la sua divinità, la sua assoluta autorità e maestà. (…) Lo stato, in quanto realtà della volontà sostanziale che ha nella speciale autocoscienza acquisita per la sua universalità, è ciò che è in sé e per sé razionale. Questa unità sostanziale è uno scopo in sé assoluto e immutabile. (…) così questo fine ha il diritto più alto nei confronti dell’individuo, il cui dovere più alto è quello di essere parte dello Stato. (…) Lo stato in sé e per sé è l’insieme morale, la realizzazione della libertà. (…) Lo stato è lo spirito che è nel mondo e in esso si realizza coscientemente. Nel caso della libertà non si deve partire dal particolare, dall’autocoscienza individuale, ma solo dall’essenza dell’autocoscienza, che l’essere umano, che se ne renda conto o meno, realizza come un forza indipendente in cui i singoli individui sono solo istanti: è la volontà di Dio nel mondo, che lo Stato sia. Il suo fondamento è il potere della ragione, che si realizza come volontà.”[7] Lo stato a partire da Hegel si è assolutizzato completamente, perdendo non solo l’obbligo di riferirsi a Dio, ma anche quello di riferirsi all’uomo. I totalitarismi del ventesimo secolo altro non sono che la messa in pratica di questa concezione.
Note
4. Summa Iª-IIae q. 95 a. 2 co. ↑
5. “The RIGHT OF NATURE, which Writers commonly call Jus Naturale, is the Liberty each man hath, to use his own power, as he will himself, for the preservation of his own Nature; that is to say, of his own Life; and consequently, of doing any thing, which in his own Judgement, and Reason, he shall conceive to be the aptest means thereunto…And because the condition of Man is a condition of Warre of every one against everyone; in which case every one is governed by his own Reason; and there is nothing he can make use of, that may not be a help unto him, in preserving his life against his enemyes; It followeth, that in such a condition, every man has a Right to every thing; even to one anothers body.” ↑
6. Zum ewigen Frieden, Abschnitt 1. ↑
7. Ringrazio Giulio Santoni per l’individuazione di Hegel come il pensatore cardine nel processo di assolutizzazione dello stato in occidente. ↑