L’economia italiana: un quadro storico e sistemico *

La congiuntura. Prima di abbozzare il quadro storico e sistemico che mi è stato chiesto dagli organizzatori, accenno alla congiuntura. Il CER sconta un +4,5% del Pil quest’anno. Con un +4,8% per il 2022 nel 2023 si tornerebbe al livello pre-pandemico, dopo la caduta del Pil dell’8,9% nel 2020. Il principale rischio – oltre che da riaperture affrettate e dai comportamenti irresponsabili dei giovani italiani – proviene dagli Stati Uniti. La politica di bilancio in deficit di Biden è follemente espansiva. I tassi d’interesse accennano a risalire, per i timori di un’inflazione che già in aprile negli USA è balzata dall’1 al 4%. Se i tassi aumenteranno la ripresa in Italia verrà congelata da un debito pubblico che travalicherebbe l’attuale 160% del Pil.

Il quadro storico.
Tornare al Pil del 2019 significherebbe comunque restare, nel 2023, sul Pil pro-capite del 1999: un quarto di secolo perduto! E’ la peggiore performance del Belpaese dal tempo di Cavour. E’ financo peggiore di quelle da Crispi alla crisi di fine secolo e del fascismo regime. A fortiori, siamo lontani anni luce dai due momenti che hanno riscattato gli italiani dalla miseria: l’età giolittiana e il miracolo economico.
Perché queste fasi alterne, questa storia economica spezzata? La mia spiegazione è che la “primavera” giolittiana e il “miracolo” videro esprimersi insieme – e questo “insieme” è cruciale – tre fasci di forze: l’avanzamento della società civile (cultura, istituzioni, politica, valori borghesi), una politica economica efficace e le imprese costrette dalla concorrenza a ricercare il profitto attraverso l’accumulazione di capitale e il progresso tecnico. L’opposto è accaduto nell’era crispina, in quella fascista e ancor più nell’ultimo quarto di secolo. In queste tre fasi la produttività è stata frenata dalla perversa coincidenza di regresso della società civile, limiti nel governo dell’economia, ignavia delle imprese.

Il quadro sistemico.
L’euro ha dato anche all’Italia prezzi stabili, tassi d’interesse bassi, integrazione con l’Europa. Nell’arco di vent’anni i governi e le imprese non hanno saputo cogliere l’opportunità, l’hanno dissipata.
I governi non hanno fatto le sette “cose” che a mio avviso andavano fatte e che restano da fare per innestare sul dopo-pandemia il ritorno alla crescita. Il sintetico elenco è questo:

– Risanamento del bilancio, con spese correnti tagliate e coperte da entrate correnti;
– Investimenti pubblici produttivi;
– Questi investimenti concentrati al Sud;
– Eliminare la povertà e dare opportunità a chi ne è privo;
– Adeguare il diritto dell’economia e la P.A. alle esigenze delle imprese;
– Imporre alle imprese concorrenza, rinuncia ai sussidi, pagamento delle imposte;
– Ottenere l’esclusione degli investimenti pubblici dai vincoli di bilancio europei (golden rule).

Con un moltiplicatore dell’ordine di 2 i buoni investimenti pubblici, al di là della fase d’avvio, si autofinanziano. E’ molto grave che – persino nella sanità! – essi siano stati tagliati, di un terzo dal 2009, anche quando i tassi d’interesse erano ragionevoli. Ci si poteva indebitare per investire, ben prima del Next Generation europeo. Il problema della politica economica è quindi consistito nell’inazione governativa nell’investire, non nella indisponibilità di risorse.
Lo stesso dicasi, mutatis mutandis, per le imprese. Nonostante il ristagno dell’economia, se si eccettuano le fasi recessive 2008, 2012, 2020 negli anni Duemila le imprese hanno registrato buoni profitti. Eppure, i loro investimenti sono diminuiti e al netto degli ammortamenti sono stati dal 2013 tendenzialmente negativi, con riduzione dello stock di capitale. Ampia parte dei mezzi disponibili è stata devoluta al contenimento dei debiti e all’acquisto di quote nell’azienda da parte dei proprietari, che hanno così consolidato il controllo. A conferma dell’assenza di innovazione e progresso tecnico, nell’intera economia la produttività totale dei fattori nel 2019 restava sui livelli del 1995! In realtà è dal crollo della lira del 1992 che le imprese non si impegnano, semplicemente perché lucrano profitti “facili”, assicurati dalla bassa concorrenza, dal cambio sottovalutato, dalla moderazione salariale, dai danari pubblici, dalla evasione delle imposte. Quindi anche per le imprese il problema è consistito nella loro miope inazione nell’investire e nell’innovare, non nella indisponibilità di risorse.

Il Piano nazionale di ripresa e resilienza.
Al fine di persuadere Bruxelles, il documento usa la retorica di Bruxelles e due modelli econometrici, familiari a Bruxelles. Contiene spezzoni di alcune delle “sette cose” che considero necessarie. Non padroneggiando i due modelli, non sono in grado di verificare e quantificare se e come nei sei anni del Piano si potrebbe far meglio. Mi limito a poche note da osservatore esterno:

Concludo sottolineando l’ovvio. Se le imprese non riprenderanno a investire e a innovare, Piano o non Piano, il ritorno alla crescita non vi sarà. Il 20% più ricco delle famiglie italiane – 5 milioni, su 26 milioni di famiglie – detiene il 60% della ricchezza privata nazionale (6mila miliardi su circa 10mila). In quel 20% di famiglie abbienti rientra ampia parte dei proprietari dei 4,4 milioni di imprese, non certo i salariati e i pensionati. Impieghino, i proprietari, nella loro azienda quei danari, invece di piatire ristori e sussidi dallo Stato, cioè dai salariati e dai pensionati, gli unici che pagano le tasse!

* Intervento a “Il mondo dopo. Breve corso di buona politica” del Partito Democratico, 15 Maggio 2021.