Il processo di integrazione dei singoli cittadini nel sistema giuridico europeo

1. Premessa: l’integrazione dei cittadini nell’Unione europea

L’Unione europea, sebbene formatasi preminentemente come organizzazione a vocazione economica, ha in seguito sviluppato una particolare forma di integrazione con i sistemi giuridici degli Stati aderenti, divenendo a livello internazionale un archetipo di cooperazione tra Stati, al punto da essere descritta, dalla stessa Corte di giustizia, come un “ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto internazionale, a favore del quale gli Stati hanno rinunziato ai loro poteri sovrani [fatti salvi i principi della teoria dei controlimiti] e che riconosce come soggetti, non solo gli Stati, ma anche i rispettivi cittadini” (v. Corte di giustizia, sentenza Factortame, 19 giugno 1990, causa C-213/89).
Del resto, l’adesione all’Unione europea da parte del singolo Stato nazionale non ha determinato una semplice cessione della propria sovranità o la mera imposizione di un particolare vincolo esogeno all’esercizio del potere legislativo interno, ma ha inciso, in modo diretto, sulla vita giuridica di ogni individuo appartenente alla nuova comunità: sia in positivo, riconoscendo diritti e tutele, sia in negativo, stabilendo nuovi doveri ed obblighi.
Il processo di integrazione tra Unione europea e Stati membri non rappresenta dunque il risultato di una fusione “a freddo” tra ordini statali, ma si caratterizza soprattutto per i suoi effetti diretti nei confronti dei cittadini: in primo luogo integrando e arricchendo i diritti a loro riconosciuti dai singoli sistemi giuridici e, su altro versante, incrementando le garanzie offerte ai singoli per la tutela della propria posizione giuridica soggettiva, sì da chiamare direttamente in causa il patrimonio giuridico degli individui, che entrano, a pieno titolo, a far parte del nuovo ordinamento europeo in quanto soggetti componenti della comunità sovranazionale.
L’analisi di questa originale forma di cooperazione comunitaria, sin dalle sue prime forme embrionali, è stata principalmente incentrata sulle relazioni tra Unione europea e Stati nazionali. Il che non dovrebbe destare particolare stupore, in quanto naturale e inevitabile conseguenza del momento e della società in cui tale confronto si è sviluppato e dell’obiettivo che esso ha perseguito, e cioè quello di costruire le fondamenta di un nuovo spazio comune all’interno del quale far vivere una comunità europea.
Tuttavia, la piena integrazione tra ordinamento eurounitario e quello nazionale, oltre che nei rapporti tra sistemi giuridici, trova oggi concreta corrispondenza nella società europea grazie soprattutto all’applicazione dei principi e degli strumenti afferenti all’efficacia diretta della normativa sovranazionale nei confronti delle persone fisiche o giuridiche.
L’idoneità delle norme europee di arricchire direttamente il patrimonio giuridico dei soggetti facenti parte degli Stati membri, a prescindere quindi dall’intermediazione della legislazione nazionale, e il relativo riconoscimento di poter difendere in giudizio la lesione di questi “diritti comunitari”, anche nei confronti dello stesso Stato di appartenenza, hanno sicuramente avuto, nel lungo periodo, un ruolo significativo e determinante nella costituzione di una nuova coscienza collettiva di matrice europea. Coscienza collettiva che è capace di avvertire, più o meno chiaramente, la non rispondenza dei vecchi istituti a bisogni e necessità nuove e che tende a forgiare gli istituti giuridici con un lento, ma continuo, processo di adattamento.
In definitiva, il senso di appartenenza ad una nuova comunità europea si deve dunque, principalmente, agli strumenti giuridici che l’ordinamento europeo ha messo a diretta disposizione dei singoli componenti; mezzi innovativi e originali rispetto a quelli conosciuti nei rispettivi sistemi interni, che hanno favorito il passaggio sostanziale al concetto di cittadinanza europea, attraverso il coinvolgimento attivo di ogni cittadino, e non attraverso l’imposizione.
In quest’ottica non possono essere disconosciuti, almeno per quanto attiene alla situazione italiana, i meriti di due specifici istituti: la non applicazione della norma nazionale contrastante con quelle dell’Unione europea e il riconoscimento di una responsabilità statale per la lesione delle posizioni giuridiche soggettive derivante dalla violazione delle disposizioni dell’ordinamento eurounitario da parte della disciplina interna.

2. La strumento della non applicazione della normativa interna contrastante il diritto europeo e le posizioni giuridiche soggettive

Lo strumento della non applicazione nasce come mezzo di risoluzione dell’antinomia tra la normativa sovranazionale e quella interna, trovando naturale collocazione e sviluppo all’interno del sistema delle fonti giuridiche nazionali.
In sostanza, esso è diretto ad evitare le formali incongruenze tra i due ordinamenti, attraverso un controllo diffuso della conformità delle leggi interne alle disposizioni europee, a prescindere da una preventiva pronuncia di illegittimità della norma interna o da un intervento abrogativo del legislatore nazionale. Sotto questo profilo, atteso che l’ordinamento sovranazionale c.d. direttamente applicabile possiede la stessa forza e il medesimo valore (se non addirittura una forza superiore) del diritto derivante da fonti primarie dell’ordinamento statale, in caso di eventuale contrasto del diritto dell’Unione europea con la legge nazionale, quest’ultima non risulta né abrogata, né caducata, bensì “impedita” nel suo venire in rilievo nella specifica controversia, restando, al di fuori di tale ambito, ancora applicabile ed efficace.
Tuttavia, le peculiari caratteristiche di tale strumento (id est, l’obbligo di applicazione anche da parte delle autorità amministrative e l’efficacia rivolta alla singola fattispecie concreta) hanno determinato che quest’ultimo, da criterio interpretativo generale ed astratto, assumesse nella percezione comune una concreta funzione di tutela della singola posizione soggettiva, nel caso di suo utilizzo in ambito giurisdizionale, ovvero la funzione di concorrere all’ottenimento del bene della vita cui il soggetto aspira, laddove inserito all’interno delle attività amministrative.
Considerato, infatti, che la disapplicazione si rivolge alle modalità di esercizio del potere giurisdizionale (o amministrativo) riconosciuto ai singoli operatori del diritto al momento di sussumere la fattispecie concreta nel precetto normativo (o al momento di emanare l’atto amministrativo), questa incide esclusivamente sulla decisione della singola controversia e non sulla generale validità e sull’astratta efficacia della norma interna, che non subiscono alcuna compressione o limitazione rispetto all’intero ordinamento giuridico. Sicché si deve escludere ogni effetto sull’esistenza delle due norme contrastanti e qualsiasi profilo estintivo o modificativo delle relative disposizioni.
In tale quadro, a differenza di quanto avviene nell’abrogazione (che rappresenta la tipica conseguenza in un sistema di controllo centralizzato della validità della norma giuridica, ove si interviene “a monte”, ossia in ordine all’esistenza della disposizione stessa), la non applicazione presenta carattere eccezionale, agendo nella fase attuativa della disposizione eurounitaria e costringendo il giudice o l’amministrazione a non utilizzare la norma interna, rispettivamente, per la definizione della singola controversia ovvero per l’emanazione dell’atto. Simbolicamente, il potere di non applicare la norma interna costituisce per la fattispecie concreta una barriera, che ne respinge l’efficacia nel caso concreto in caso di contrasto con quella comunitaria, consentendo solo a quest’ultima di produrre effetti su quella singola e specifica fattispecie.
Pertanto, in questo meccanismo giuridico, incentrato sul controllo diffuso della conformità delle disposizioni interne con la normativa europea, il cittadino riesce in un certo qual modo ad acquisire un ruolo diretto – e non più mediato da organi statali – nel processo di integrazione e affermazione dell’ordinamento comunitario, potendo in prima persona agire dinanzi al giudice di merito per vedersi dichiarare, nello stesso giudizio, la preminenza della disciplina eurounitaria, sì da tutelare il proprio diritto o interesse giuridico.
Ed è proprio la natura meramente dichiarativa di questa tipologia di sentenza, con la quale ci si limita ad accertare che la legge nazionale non produce effetti nella fattispecie concreta, che ha permesso, dal punto di vista giuridico, di estendere anche a soggetti estranei alla giurisdizione (le pubbliche amministrazioni) l’utilizzo di tale strumento giuridico nelle proprie funzioni ed attività, in assenza di una precedente decisione degli organi giurisdizionali, incidendo direttamente e con forza sui rapporti autoritativi e privatistici delle amministrazioni con i cittadini.

3. Il risarcimento del danno a favore dei singoli cittadini per le attività dello Stato contrastanti con la normativa europea

L’impostazione europea, come descritto nella premessa, mira a coinvolgere nel processo di integrazione anche i singoli cittadini, innanzitutto attraverso il diretto riconoscimento a quest’ultimi di nuovi diritti. La composizione di una società europea, però, non passa unicamente dal semplice arricchimento o integrazione, per via legislativa, del patrimonio giuridico personale, bensì necessita di strumenti idonei a tutelare le singole situazioni giuridiche, al fine di inserire concretamente gli individui nelle dinamiche della nuova comunità sociale ed economica.
In questa direzione, infatti, si colloca la predisposizione da parte dell’ordinamento europeo di un sistema risarcitorio di carattere sanzionatorio a favore dei singoli cittadini europei, diretto da un lato a fornire una effettiva e adeguata compensazione delle conseguenze negative prodotte dalle attività dello Stato in contrasto con i principi sovranazionali e, su altro versante, diretto a circoscrivere qualsiasi attività dell’apparato autoritativo dello Stato membro non implicante una responsabilità dello stesso nei confronti dei destinatari, qualora esercitato in maniera illegittima secondo i parametri dell’Unione europea.
Il sistema comunitario – ed in particolare l’opera di elaborazione della Corte di giustizia – ha predisposto un’incisiva e adeguata forma di protezione delle posizioni soggettive, promuovendo una tutela risarcitoria per tutte quelle ipotesi in cui i cittadini non siano garantiti dalla legittima applicazione delle norme europee ad operatività immediata.
Tale assunto è stato cristallizzato nella nota sentenza Francovich (cfr. Corte di giustizia, 19 Novembre 1991, C – 6/90), dove è stata definitivamente chiarita la possibilità di ricorrere dinanzi al giudice interno per vedersi riconoscere una responsabilità dello Stato in caso di lesione dei propri diritti o interessi derivante dalla violazione delle disposizioni dell’ordinamento comunitario da parte della disciplina giuridica nazionale; e ciò, allorché si possa riscontrare in quest’ultima un’omessa, incompleta o scorretta esecuzione degli atti normativi dell’Unione europea.
Dal punto di vista sostanziale, tale forma di responsabilità trova direttamente fonte giuridica all’interno del sistema dei Trattati, sottraendo così alla disciplina nazionale la determinazione delle condizioni affinché il risarcimento possa riconoscersi. Sotto questo profilo, la responsabilità statale e il relativo obbligo risarcitorio sono riconosciuti al verificarsi delle seguenti condizioni: in primo luogo, la normativa comunitaria deve attribuire a singoli individui nuove situazioni giuridiche di vantaggio e deve determinare con precisione il relativo contenuto; in secondo luogo, deve sussistere un nesso causale fra la violazione “grave e manifesta” dell’obbligo a carico dello Stato e il danno subito dai soggetti lesi.
Oltre ai profili strutturali dell’istituto, al fine di rendere questo strumento realmente efficace nell’ottica del cittadino e di agevolare quest’ultimo nel suo concreto esercizio, l’ordinamento europeo è intervenuto, anche e con forza, sui profili inerenti all’effettività del risarcimento stesso e all’uniformità dell’applicazione dell’istituto giuridico, partendo in particolare dal postulato del carattere unitario – soggettivo e oggettivo – della responsabilità statale.
Nello specifico, con riferimento all’ambito applicativo soggettivo, l’ordinamento europeo e la Corte di giustizia, in special modo, si sono sempre riferiti al termine “Stato” nella sua accezione più ampia, ossia intendendo far riferimento con tale locuzione a tutti i pubblici poteri dell’apparato statale che possono cagionare un danno ingiusto; e con ciò, dunque, prescindendo dall’assetto istituzionale e dalle relative articolazioni interne, ma tenendo conto che la tutela dei diritti attribuiti ai singoli dalla disciplina sovranazionale non può variare in funzione della natura dell’organo che provoca la lesione (v. Corte di giustizia, sentenza 10 giugno 2004, causa C-87/2002).
Obiettivo principale è stato, quindi, quello di evitare che l’uniformità nell’applicazione del diritto comunitario potesse essere compromessa dall’osservanza di regole nazionali sulla ripartizione delle competenze, insistendo sull’impostazione dello Stato membro, nella sua interezza, quale unico soggetto cui imputare la responsabilità dei danni causati ai singoli dalle violazioni del diritto dell’Unione.
Tale principio, costantemente richiamato dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, risulta oramai pienamente accolto anche dalla stessa Corte di Cassazione, secondo cui “quando sia dedotta la responsabilità statale per violazione del diritto comunitario è indifferente la natura dell’organo che ha compiuto la trasgressione, perché viene in considerazione la responsabilità diretta dello Stato in quanto tale” (così Corte di Cassazione, S.U., 7 maggio 2010, n. 1109): viene così scisso il piano materiale della condotta, riconducibile ad ogni possibile articolazione dello Stato-autorità, e il piano giuridico della responsabilità, che grava esclusivamente e unitariamente sullo Stato, in quanto persona giuridica e centro di imputazione.
In altri termini, la rigida impostazione unitaria della responsabilità statale non influisce in alcun modo sull’organizzazione costituzionale dello Stato o sulla ripartizione delle competenze fra gli enti pubblici, territoriali o non. Al contempo, la ripartizione di competenze, funzioni e poteri all’interno dell’ordinamento nazionale non ha alcuna influenza sull’individuazione in sede europea del soggetto responsabile della violazione dei diritti soggettivi “comunitari”.
In questo quadro generale, comunque, viene preservata una certa autonomia del singolo Stato membro, devolvendo ad esso la concreta definizione delle procedure risarcitorie e dei criteri atti alla liquidazione del danno secondo i meccanismi processuali di diritto interno. Tuttavia, tale facoltà interna deve essere esercitata nel rispetto dei principi di effettività ed equivalenza della tutela risarcitoria, e in particolare vietando al singolo ordinamento di porre discriminazioni sostanziali fra le situazioni giuridiche soggettive nazionali e quelle comunitarie, mediante la costituzione di condizioni aggiuntive e suppletive più stringenti rispetto a quanto stabilito per analoghe posizioni soggettive di diritto interno.
E ciò per evitare di pregiudicare la portata del principio di unitarietà con riferimento alla responsabilità dello Stato, non consentendo, per esempio, allo Stato membro di inserire differenti condizioni sostanziali e procedurali della tutela di fronte alla violazione delle norme comunitarie a seconda dell’organo istituzionale che commette la violazione (legislatore, amministrazione o giudice) e del tipo di attività svolta (legge, contratto, provvedimento e decisione giurisdizionale).
Tentativo di contrasto, invece, avvenuto nell’esperienza italiana, laddove, a seconda del potere costituzionale cui ricondurre la violazione del diritto europeo, l’inquadramento giuridico della responsabilità statale ha ripetutamente oscillato tra gli schemi dell’istituto della responsabilità extracontrattuale, di quella contrattuale e di quella da atto lecito.
Come facilmente intuibile, la possibilità di applicare una diversa qualificazione giuridica e differenti condizioni procedurali ad una medesima condotta, a seconda dell’organo inadempiente che abbia causato il danno, si scontra inevitabilmente con i principi provenienti dall’esperienza comunitaria. Obbligo dell’ordinamento interno dovrebbe, al contrario, essere quello di adattare i principi europei agli schemi nazionali già esistenti, al fine di trasportarli pienamente nel nostro ordinamento e non respingerli sulla base di dogmi che non trovano più corrispondenza nel contesto odierno, creando delle situazioni sperequative tra singoli soggetti appartenenti alla stessa comunità sovranazionale, che minano il rafforzamento di una coscienza collettiva europea.
È solo attraverso l’analisi dell’evoluzione di quest’ultima, infatti, che è possibile avvertire la sostanziale rispondenza dei vari sistemi giuridici ai reali bisogni e alle concrete necessità della comunità, in quanto è proprio la coscienza collettiva che tende ad adeguare i primi ai secondi con un lento, ma continuo, processo di adattamento, superando qualsiasi tentativo di arrestare tale sviluppo con barriere normative o dogmatiche.
Tale raffronto tra reali bisogni e ordinamenti giuridici non può, in conclusione, non tener conto delle caratteristiche della società attuale e delle generazioni che la compone: l’Unione europea appartiene oggi ai “nativi europei”, persone che conoscono il solo contesto comunitario, nate cioè con i diritti riconosciuti dalla normativa sovranazionale e cresciute nella consapevolezza degli strumenti a propria disposizione.
Compito e obbligo di ogni studioso deve essere dunque quello di non tralasciare quest’aspetto nell’analisi dei principi di integrazione dell’Unione europea nei singoli ordinamenti: o si utilizza la coscienza collettiva dei “nativi europei” come base di riferimento interpretativo dei vari istituti giuridici o si continuerà a forzare qualsiasi formula legislativa pur di adattarla alla passata e superata visuale degli “immigrati europei”, con uno spirito conservativo che comunque non riuscirà a contenere il forte senso di appartenenza alla comunità sovranazionale delle nuove generazioni.