Il Comprehensive Agreement on Investements tra Europa e Cina

Lo scorso 30 Dicembre, dopo oltre 7 anni di negoziati, Europa e Cina hanno firmato un accordo quadro sugli investimenti, il Comprehensive Agreement on Investments (CAI)[1]. Si tratta di un accordo che Bruxelles ha inseguito a lungo al fine di rimediare alle asimmetrie tra le due parti in termini di accesso al mercato e di concorrenza. In particolare, l’accordo rimuove le barriere all’ingresso in alcuni settori chiave, e disciplina i trasferimenti di tecnologia, i sussidi ed il ruolo delle aziende di stato (SOEs) nel senso di una maggiore apertura del mercato cinese. Infine, il CAI impegna le parti sul fronte dello sviluppo sostenibile, incluso nelle sue dimensioni sociali. Sulla carta, sembrerebbe perciò un accordo vantaggioso per l’Europa. Eppure, mentre a Pechino la firma del CAI è stata accolta come un successo, in Europa prevale lo scetticismo e la ratifica da parte del Parlamento Europeo non appare scontata.
Se ci si limita ad analizzare i termini dell’accordo di principio (pubblicati solo di recente) [2], la diffidenza europea appare esagerata: con il CAI la Cina si impegna a passi avanti concreti su questioni importanti per l’Europa in cambio di una semplice conferma dell’apertura del mercato comunitario. Eppure, alla luce delle leggi e regolamenti sulla sicurezza approvati dalla Cina negli ultimi anni, delle sue ambizioni in materia di politica industriale che puntano a fare della Cina un concorrente dell’Europa nei settori ad alta tecnologia, e delle profonde divergenze tra i rispettivi modelli di governance (la Commissione stessa ha definito Pechino un competitore sistemico intento a promuovere un modello di governance alternatrivo[3]), il CAI implica delle questioni di natura strategica da non sottovalutare.

Cosa prevede l’accordo
Accesso al mercato
In termini di accesso al mercato, l’accordo consolida le liberalizzazioni degli ultimi vent’anni (a garanzia contro eventuali restrizioni future) e prevede la rimozione delle quote, equity caps e obblighi di joint venture in un ampio ventaglio di settori tra cui l’auto (incluse le auto elettriche), i servizi finanziari, l’assistenza sanitaria (quest’ultima limitatamente alle città di Pechino, Shanghai e Tianjin) ed il settore manifatturiero (chimica, dispositivi medici, equipaggiamento TLC). Si tratta di aperture sostanziali su questioni che per anni sono state al centro dei negoziati commerciali Cina-UE e che vanno a beneficio di alcune industrie importanti nell’economia Europea come il comparto auto tedesco o l’industria chimica. Ciononostante, è bene tenere a mente che per la maggior parte non si tratta di nuove liberalizzazioni, ma dell’estensione di aperture già concesse nell’ambito di accordi con altri partner commerciali, o che rientrano tra le priorità della politica industriale cinese. A titolo di esempio, un maggiore accesso al mercato dei servizi finanziari era già stato accordato alle aziende americane nel Phase One US-China trade agreement firmato dall’amministrazione Trump[4], mentre l’innalzamento della quota di proprietà degli impianti automobilistici al 100%, già concesso a Tesla e BMW nel 2019, era stato esteso con l’ultima negative list sugli investimenti esteri pubblicata a dicembre dello scorso anno[5].
Alla luce di ciò, le vere novità introdotte dal CAI in termini di accesso al mercato si concentrano nelle piattaforme di cloud computing (anche se, come sottolineato in uno studio dell’Istituto Montaigne, non è chiaro se con partecipazioni al 100%, oppure al 50% come già concesso agli Stati Uniti con il Phase One trade agreement[6]), nei servizi digitali e di TLC, nella consulenza ed i servizi alle aziende, nei servizi ambientali e di smaltimento rifiuti,  e nella ricerca (con alcune esclusioni di rilievo come la ricerca su materiali biologici di origine cinese). Oltre a ciò, secondo alcune indiscrezioni, sembrerebbe che l’accordo sia accompagnato da alcuni side deals nel settore aerospaziale e degli operatori telefonici, a probabile beneficio di gruppi tedeschi e francesi[7].

Regolamentazione del mercato
Con riferimento alla regolamentazione del mercato, il CAI segue il modello di altri accordi recentemente conclusi dalla UE (come l’Accordo di Partnership Economica con il Giappone, e gli accordi di libero scambio con Corea e Vietnam) per ovviare ai noti limiti delle regole OMC ed al fine di creare un level-playing field per le aziende europee in Cina. In particolare, l’accordo mira a disciplinare il comportamento delle aziende pubbliche (SOEs), vincolandone l’azione al solo perseguimento dell’interesse commerciale anche nel settore dei servizi (nel regime OMC, la clausola del trattamento nazionale si applica solo ai beni). Inoltre, l’accordo amplia la definizione di aziende pubbliche al fine di includere anche quelle con una partecipazione pubblica di minoranza, così come le aziende partecipate dalle amministrazioni locali. Infine, l’accordo prevede un obbligo di trasparenza sulla natura ed il comportamento delle aziende pubbliche che, alla luce del crescente ruolo dello stato cinese anche in seno a gruppi privati, è particolarmente rilevante.
Oltre a disciplinare il ruolo delle SOEs, in maniera più generale il CAI mira a porre rimedio ad un ampio spettro di pratiche discriminatorie e distorsive della concorrenza particolarmente diffuse nel mercato cinese. In primo luogo, l’accordo impone alle parti un obbligo di trasparenza sui sussidi pubblici al settore terziario (il settore industriale ne è quindi escluso). Sono altresì introdotte regole volte ad impedire i trasferimenti di tecnologia forzati nel quadro di accordi di joint-venture così come nella concessione delle licenze. Infine, soddisfacendo una richiesta di lungo corso dell’Europa, l’accordo vincola la Cina a garantire alle aziende europee un accesso paritario ai suoi enti regolatori. Questi ultimi dovranno altresì garantire procedimenti più equi e trasparenti, incluso per ciò che riguarda la definizione degli standard tecnici.

Sviluppo Sostenibile
Alla luce dei costi sociali ed ambientali generati dalla globalizzazione, e dell’ascesa di nuove potenze emergenti con modelli di governance alternativi, l’Europa ha progressivamente abbandonato l’ideologia liberoscambista a favore di una politica commerciale volta a promuovere lo sviluppo sostenibile[8]. Il CAI non fa eccezione e rappresenta il primo accordo di questa portata che impegni la Cina in materia di diritti dei lavoratori, di tutela dell’ambiente e di responsabilità sociale d’impresa. Oltre a ribadire la loro adesione ai principali trattati internazionali in tema di sviluppo sostenibile (tra cui l’Accordo di Parigi sul clima), le parti si impegnano a non offrire deroghe ai regolamenti vigenti in ambito di protezione ambientale e di tutela del lavoro al fine di attrarre o discriminare investimenti. Più rilevante, se non altro per i suoi risvolti politici, è l’impegno della Cina a fare passi avanti per ratificare le convenzioni fondamentali dell’ILO in materia di lavori forzati.
In quello che appare come un eccesso di entusiasmo, la Commissione si è spinta a sottolineare come l’accordo vincoli le parti in un rapporto basato sui valori e su principi di sviluppo sostenibile[9]. La realtà è che dato l’ampio divario che sussiste tra Bruxelles e Pechino su questi temi, e date le loro profonde ramificazioni economiche e sociali, si tratta di impegni tanto ambiziosi quanto generici e dal carattere non vincolante. In generale, che sia sulle questioni di sviluppo sostenibile, o in tema di regolamentazione del mercato, la disparità tra impegni ambiziosi, che in alcuni casi sembrerebbero orientati a voler trasformare la natura del sistema economico e di governance cinese, e gli strumenti predisposti in termini di enforcement rappresentano l’aspetto più problematico dell’accordo.

I limiti dell’accordo
Come per ogni accordo, il valore del CAI è in larga parte determinato dalla capacità di farne eseguire i termini. Su questo aspetto, il CAI si inserisce nel solco tracciato dai trattati che la UE ha già concluso con altri paesi asiatici quali il Vietnam, la Repubblica di Corea ed il Giappone. La differenza sta nel fatto che la Cina, per una combinazione tra la scala della sua economia e la natura del suo sistema politico (una combinazione riassunta nel termine “China Inc.”) [10], rappresenta un partner di tutt’altra natura. Se in termini di accesso al mercato cinese da parte delle aziende europee una marcia indietro appare improbabile, nell’ambito della regolamentazione Pechino può difatti agevolmente aggirare gli impegni presi, o deciderne l’applicazione selettiva, grazie alle leve dei canali informali propri del sistema di governance cinese. In particolare, in materia di sussidi e trasparenza degli organi regolatori, così come nella regolamentazione delle aziende pubbliche, la forte compenetrazione tra gli organi dello stato/partito e gli attori economici lascia a Pechino un ampio margine di discrezionalità nell’implementazione dell’accordo.
In questo contesto, diventa fondamentale l’implementazione di un sistema di risoluzione delle controversie esterno alla giurisdizione ordinaria cinese e realmente vincolante. In assenza di un meccanismo di protezione degli investimenti che permetta agli investitori di rivalersi direttamente sugli stati (sistema he dovrebbe essere negoziato entro i prossimi due anni, ma è un percorso che presenta diversi ostacoli), il CAI istituisce un meccanismo progressivo di risoluzione delle controversie tra stati (dalla mediazione all’arbitrato), affiancato da un dialogo di monitoraggio bilaterale a livello politico. Riguardo all’arbitrato, la corte sarà composta da un membro per ogni parte in aggiunta ad un presidente di nazionalità terza. Le decisioni della corte impongono alla parte oggetto del reclamo di rimediare alle inadempienze entro una scadenza precisa, altrimenti la parte lesa può rivalersi sospendendo l’applicazione della stessa o di altre clausole del trattato in misura proporzionale al danno ricevuto. Per quanto vincolante, si tratta di un sistema intrinsecamente complesso e che lascia ampi spazi di negoziazione diretta tra le parti sia in sede pre-arbitrale che durante l’arbitrato.

https://trade.ec.europa.eu/doclib/press/index.cfm?id=2237

Vi sono inoltre alcuni qualificativi importanti all’effettiva efficacia di questo sistema: in primo luogo il campo di applicazione esclude i sussidi per i quali è presente solo un obbligo di trasparenza. In secondo luogo, per le questioni di sviluppo sostenibile è previsto un meccanismo di applicazione separato e molto più blando tramite un pannello di esperti che emette pareri non vincolanti. Su questo punto, è interessante notare come un simile pannello di esperti previsto dal trattato di libero scambio UE-Repubblica di Corea, ha recentemente confermato che la Corea è in violazione degli impegni presi in termini di legislazione sul lavoro, lasciando però l’effettiva implementazione al dialogo politico tra le parti[11]. Infine, i procedimenti arbitrali avviati da aziende straniere nei confronti della Cina sono storicamente molto pochi. Anche a fronte di un potenziale giudizio favorevole, il rischio di osteggiare il governo cinese costituisce un forte dissuasivo contro l’avvio di questi procedimenti. Il principale canale di esecuzione dell’accordo resta quindi la strada politica. Grazie ad un meccanismo di dialogo annuale al livello di vicepremier (attualmente Valdis Dombrovskis e Liu He, anche a capo della potente Commissione Centrale per gli Affari Economici e Finanziari del P.C.C.), e dei gruppi di lavoro a livello ministeriali su base bi-annuale, l’Europa sembra aver ottenuto un livello di attenzione politica adeguato al suo peso economico (Liu He è anche incaricato del negoziato commerciale con gli Stati Uniti). Se questo rappresenta senz’altro un passo avanti, rimane il fatto che il negoziato politico è terreno dove la Cina è spesso in grado di far valere la sua maggior capacità di indirizzo strategico.
In generale, i limiti dell’accordo non ne sminuiscono comunque il valore economico: l’Europa ottiene pieno accesso ad alcuni settori dell’economia cinese, ed una garanzia che Pechino non faccia retromarcia sulle liberalizzazioni degli ultimi vent’anni. In ambito di regolamentazione del mercato, l’accordo consente inoltre all’Europa di fare pressione sulla Cina attraverso un sistema di enforcement che, seppure con i limiti sopracitati, rappresenta comunque un passo avanti rispetto alla situazione attuale. Infine, l’impegno della Cina in tema di sviluppo sostenibile, per quanto meramente formale, può rappresentare uno strumento per un progressivo allineamento di Pechino agli standard internazionali in tema di ambiente e di tutela del lavoro. In sostanza, il CAI permette all’Europa di riequilibrare in parte le asimmetrie in termini di accesso e regolamentazione del mercato, e di ancorare, quantomeno in via formale, i rapporti economici con Pechino su alcuni importanti principi condivisi in materia di sviluppo sostenibile.

L’orizzonte strategico
La valutazione di un accordo di questa portata non può però prescindere da considerazioni di ordine strategico attinenti all’insieme delle relazioni Europa-Cina, compresa la dimensione politica e di sicurezza, ed ai rapporti dell’Europa con i suoi principali alleati, in particolar modo con gli Stati Uniti. A tal riguardo, il CAI non è un accordo esente da rischi.
Nell’immediato, a causa del carattere generico dell’accordo nei suoi aspetti più politici (come il ruolo delle aziende di stato o i diritti dei lavoratori), e della necessità che venga ratificato davanti al Parlamento Europeo, la Commissione si trova in una posizione scomoda: la necessità di difendere la firma dell’accordo mal si concilia con la capacità di denunciare eventuali inadempienze o contraddizioni con i termini dell’accordo stesso da parte cinese. Più in generale, per proteggere l’accordo da una eccessiva politicizzazione del processo di ratifica, la Commissione avrà anche interesse a smussare le divergenze con Pechino su temi sensibili come i diritti umani, le origini della pandemia o la partecipazione di Huawei allo sviluppo delle reti 5G. In particolare, il carattere non vincolante delle clausole di applicazione in tema di legislazione sul lavoro (una questione strettamente connessa alle accuse di lavoro forzato nella provincia dello Xinjiang, accuse che coinvolgono anche alcune importanti aziende europee[12]) è già emerso come un potenziale punto critico nel processo di ratifica da parte del parlamento Europeo.
Per quanto riguarda il lungo termine, malgrado l’accordo vada nel senso di una maggiore libertà e trasparenza per gli investimenti in Europei in Cina, il CAI non garantisce una reale parità di condizioni, né all’interno del mercato cinese, né in rapporto ai termini di accesso e concorrenza di cui possono usufruire i capitali cinesi nel mercato europeo. La reciprocità rimane quindi una chimera: non solo i settori che Pechino reputa strategici (come ad esempio la logistica, i trasporti, la cultura e l’intrattenimento) rimangono preclusi agli in investimenti europei, ma le aperture sembrano essere state fatte in base alla loro compatibilità con il sistema di governance cinese e con le ambizioni industriali della Cina in settori ad alta tecnologia. Si tratta beninteso di ambizioni legittime, ma che per l’Europa sollevano la questione delle ripercussioni che vittorie commerciali a breve termine (quali ad esempio la rimozione dei limiti agli investimenti nel settore auto), possono avere sulla competitività industriale dell’Europa e sulla sua capacità di salvaguardare il proprio benessere e la stabilità delle sue istituzioni.
In questo senso, i problemi sono di due ordini. Innanzitutto, alcuni aspetti dell’accordo in materia di trasferimenti di tecnologia forzarti, protezione della proprietà intellettuale, e di accesso paritario agli enti regolatori, sembrano essere in contradizione con legislazioni Cinesi prevalenti quali la Cybersecurity Law[13] e la National Intelligence Law[14], che consentono ai funzionari di accedere ai dati aziendali e personali (che devono essere archiviati in Cina), codici proprietari e alla proprietà intellettuale. Le stessi leggi impongono anche l’obbligo a qualsiasi organizzazione o cittadino di sostenere, assistere e cooperare con il lavoro di intelligence. Inoltre, il CAI non risolve il problema dei sussidi nel settore industriale, in particolare per le industrie che ricadono nel piano Made in China 2025[15], che mira a fare della Cina un concorrente diretto dell’Europa nei settori a più alto valore aggiunto. Questa è una vulnerabilità alla quale l’Europa sarebbe in grado di rimediare estendendo le regole sugli aiuti di stato agli attori extra-UE, ma nel fare ciò deve però tenere conto di un secondo ordine problemi: la crescente interdipendenza commerciale con un paese che è sotto alcuni aspetti un rivale strategico, porta con sé delle vulnerabilità in termini di libertà di azione. A titolo di esempio, il mese scorso l’Australia si è vista imporre pesantissime tariffe (fino al 200%) sulle sue principali esportazioni verso la Cina come rappresaglia, tra le altre cose, all’esclusione di Huawei dalle gare di appalto del 5G, ed alle richieste di Canberra per una inchiesta internazionale sulle origini della pandemia di Coronavirus che Pechino ha percepito come una accusa nei propri confronti[16]. L’esempio australiano illustra i rischi di un approccio eccessivamente compartimentalizzato dinanzi ad un attore come la Cina, che ha nella sua capacità di fare linkage tra questioni anche molto distanti uno dei suoi punti di forza.
In questo senso, un maggior coordinamento sarebbe auspicabile anche nei rapporti dell’Europa con i propri alleati. La firma dell’accordo è stata difatti criticata come inopportuna in quanto avvenuta a poche settimane dall’insediamento del nuovo presidente americano. La nuova amministrazione americana aveva difatti espresso le proprie perplessità nei confronti del CAI e la volontà di consultarsi quanto prima con l’Europa sui comuni interessi nei rapporti commerciali con la Cina. Ad onore di Bruxelles, va riconosciuto che durante la presidenza Trump, l’America aveva concluso il proprio accordo bilaterale con Pechino (il China Phase One Agreement)[17], che lasciava gli investimenti Europei in Cina in una posizione di svantaggio rispetto a quelli statunitensi. Con il CAI, l’Europa riconquista una posizione di primato in termini di accesso al mercato cinese per le proprie aziende, ma lo fa al costo di una maggior sinergia con i propri alleati. Difatti, proprio i modesti risultati dell’accordo USA-Cina (il deficit americano non è diminuito, la Cina ha accelerato l’indigenizzazione di componenti ad alta tecnologia, ed una riforma in senso multilaterale delle regole del commercio internazionale appare sempre più lontana), dovrebbero mettere in guardia su un approccio puramente bilaterale ai rapporti con la Cina.

Il CAI in sintesi
In definitiva, l’Europa ha concluso un accordo di convenienza mettendo a segno alcune vittorie immediate su dei dossier rimasti in sospeso per molti anni. Tra questi, un ripensamento di Pechino sulla rimozione delle barriere di accesso al mercato sembra improbabile, mentre per ciò che riguarda la regolamentazione del mercato, così come per gli impegni sullo sviluppo sostenibile, molto dipenderà dall’implementazione delle clausole di monitoraggio e di enforcement. Come minimo, l’accordo stabilisce un argine all’erosione dei diritti degli investitori europei in Cina, e crea un punto di ancoraggio per futuri negoziati su questioni ancora in sospeso come i sussidi all’industria o l’accesso al mercato degli appalti.

Se l’Europa sembra non aver concesso molto, per Cina l’interesse dell’accordo è soprattutto politico. In primo luogo, le liberalizzazioni previste non intaccano il modello di governance cinese così come le ambizioni di Pechino in termini di politica industriale. Inoltre, confrontata alla necessità di riorientare il suo modello di crescita verso la domanda interna, con il CAI la Cina acquisisce uno strumento utile sul piano domestico ad accelerare la riforma delle sue aziende pubbliche, e sul piano internazionale ad allontanare la prospettiva di un decoupling delle economie occidentali nei suoi confronti. Infine, nell’ottica della rivalità con gli Stati Uniti e delle polemiche attorno alle origini della pandemia di Covid-19, l’accordo permette a Pechino di incassare un successo in termini di immagine, e di mitigare il rischio che Europa ed America facciano fronte comune nelle loro relazioni commerciali con la Cina.
Nella prospettiva del raggiungimento di una sua “autonomia strategica”[18], è legittimo dunque chiedersi se l’Europa non avrebbe fatto meglio ad insistere su condizioni più stringenti di reciprocità e su un meccanismo di enforcement più vincolante, anche a costo di rimandare la firma dell’accordo. In realtà, nonostante le sue limitazioni, il CAI rappresenta comunque un passo avanti rispetto allo status quo dei rapporti commerciali Europa-Cina e non intacca la capacità europea di difendere i suoi interessi attraverso un rafforzamento del meccanismo di screening degli investimenti, una estensione delle regole contro i sussidi agli investitori extra-europei, o tramite decisioni ad hoc in ambiti di rilevanza strategica (come nel caso dell’utilizzo del Golden Power da parte dell’Italia nei confronti di Huawei). Il CAI può altresì fornire all’Europa un fondamento giuridico dal quale perseguire una maggiore reciprocità nei suoi rapporti con Pechino, anche in sinergia con l’alleato americano. Questo beninteso, purché l’Europa abbia consapevolezza delle questioni strategiche insiste nel suo rapporto con la Cina, questioni che il CAI, invero, non affronta, ma che l’Europa non potrà permettersi di ignorare ancora a lungo.

Note

1.  Commissione Europea; Key elements of the EU-China Comprehensive Agreement on Investment. https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/ip_20_2542

2.  Commissione Europea; EU – China Comprehensive Agreement on Investment (CAI): list of sections.

3.  Commissione Europea, EU-China – A strategic outlook. https://ec.europa.eu/commission/sites/beta-political/files/communication-eu-china-a-strategic-outlook.pdf

4.  Ufficio del Rappresentante per il Commercio degli Stati Uniti d’America; Economic and Trade Agreement Between the Government of the United States of America and the Government of the People’s Republic of China. https://ustr.gov/sites/default/files/files/agreements/phase%20one%20agreement/Economic_And_Trade_Agreement_Between_The_United_States_And_China_Text.pdf

5.  Commissione Nazionale per le Riforme e lo Sviluppo della R.P.C.; Market Access Negative List. https://www.ndrc.gov.cn/xxgk/zcfb/ghxwj/202012/t20201216_1252897_ext.html

6.  Institut Montaigne; Wins and Losses in the EU-China Investment Agreement (CAI). https://www.institutmontaigne.org/en/publications/wins-and-losses-eu-china-investment-agreement-cai

7.  Financial Times; The EU-China deal that gives Beijing too little to lose. https://www.ft.com/content/cfe4b5a3-1f64-4dfd-9a5b-133233a17ae6

8.  Commissione Europea; A renewed trade policy for a stronger Europe, Consultation Note. https://trade.ec.europa.eu/doclib/docs/2020/june/tradoc_158779.pdf

9.  Ibid. 1.

10.  Wu, Mark; The ‘China, Inc.’ Challenge to Global Trade Governance. Harvard International Law Journal, Vol. 57, 1001-1063 (2016).

11.  Commissione Europea; Panel of experts confirms Republic of Korea is in breach of labour commitments under our trade agreement. https://trade.ec.europa.eu/doclib/press/index.cfm?id=2238

12.  Politico; Top MEP slams Volkswagen as ‘complicit’ in Chinese oppression. https://www.politico.eu/article/top-mep-slams-volkswagen-as-complicit-in-chinese-oppression/

13.  Congresso Nazionale del Popolo della R.P.C., Legge sulla Cybersecurity della Repubblica Popolare Cinese. Traduzione disponibile a: https://www.newamerica.org/cybersecurity-initiative/digichina/blog/translation-cybersecurity-law-peoples-republic-china/

14.  Congresso Nazionale del Popolo della R.P.C., Legge sull’Intelligence della Repubblica Popolare Cinese. Traduzione disponibile a: https://www.chinalawtranslate.com/en/national-intelligence-law-of-the-p-r-c-2017/

15.  Consiglio di Stato della Repubblica Popolare Cinese, Avviso del Consiglio di Stato sull’emissione di “Made in China 2025. http://www.gov.cn/zhengce/content/2015-05/19/content_9784.htm

16.  Bloomberg, Why China Is Falling Out With Australia. https://www.bloomberg.com/news/articles/2021-01-10/why-china-is-falling-out-with-australia-and-allies-quicktake

17.  Ibid. 4

18.  Consiglio Europeo, “Autonomia strategica per l’Europa: l’obiettivo della nostra generazione” – discorso del presidente Charles Michel al think tank Bruegel. https://www.consilium.europa.eu/en/press/press-releases/2020/09/28/l-autonomie-strategique-europeenne-est-l-objectif-de-notre-generation-discours-du-president-charles-michel-au-groupe-de-reflexion-bruegel/#