Sostituzione edilizia e Recovery Fund. Utopia e dintorni

INTRO
È abbastanza curioso come il tema del Recovery Fund, al di là di occupare pagine intere dei giornali a livello di congetture, non abbia ancora una cronaca ufficiale sulle azioni reali che il Governo sta mettendo in campo, ma solo sulla sua governance: azioni, tempistiche, programmazione, misura dei risultati attesi, finora non c’è nulla di chiaro, come invece sta delineandosi in altri paesi, mentre si susseguono notizie, anch’esse mai confermate, su cabine di regia, task force, gruppi di esperti, ecc.. Ed è tanto più strano in un paese in cui i provvedimenti ufficiali, decreti, norme, leggi, trovano sempre modo di sgusciare all’aperto con qualche ora di anticipo, se non qualche giorno, rispetto alla notifica formale, creando scompiglio e smentite nelle file dei responsabili ufficiali e dibattiti infiniti tra i cosiddetti stakeholders. Sul Recovery Fund, nulla di ufficiale dopo la pubblicazione delle Linee Guida fatte circolare a metà settembre. Probabilmente dipenderà anche da quel margine di incertezza che ancora pervade lo strumento dopo il ricatto messo in atto da alcuni paesi della UE, il cui scopo palese è bussare a cassa pensando di avere impugnato il coltello dalla parte del manico. In questo stato di incertezza, tanto più evidente per ciò che riguarda l’effettiva strada che dovranno prendere i finanziamenti, poco più di un mese fa una voce autorevole a livello parlamentare, ma di cui è sfuggito il nome, tanto fugace e isolata è stata l’uscita, ha detto alla radio l’unica cosa sensata sul Recovery Fund che si sia sentita da quando se ne è cominciato a parlare, ovvero verso fine agosto. Solo quattro grandi temi su cui concentrare tutte le risorse: digitalizzazione del territorio, infrastrutture strategiche, dissesto idrogeologico e, nientedimeno, sostituzione edilizia. Nient’altro. Questa tesi è apparsa tanto illuminante quanto purtroppo completamente destituita da qualsiasi fondamento di realizzabilità, dato che in Italia le proposte ragionevoli sono destinate al fallimento, cosa che sicuramente sarà confermata nel caso di quella proposta, quantomeno per quel che riguarda la sostituzione edilizia. Gli altri tre temi sono più o meno presenti nel pensiero del Governo, benchè affogati all’interno di un elenco ancora confuso di raccomandazioni, sfide, obiettivi, missioni e cluster. In particolare, pare che il sogno della digitalizzazione ora raggiungerà ogni più sperduto borgo appenninico di qualche decina di anime ed è diventato il cavallo di battaglia di ogni politico che si presti a dire qualcosa al microfono.
La questione dell’edilizia, viceversa, non tanto a livello di sostituzione, ma forse a livello di rigenerazione urbana, è relegata in un sottotema legato alla inclusione sociale e lì resterà. E pensare che un tempo si invocava l’edilizia come unico settore in grado, storicamente, di poter creare un’economia di scala tale da poter realmente rimettere in moto le sorti disastrate del Paese.
I motivi del pessimismo sono molteplici e se ne potrebbe stilare un lungo elenco a cominciare da un pregiudizio etico-ideologico che ormai è radicato nella “coscienza” italiana da destra a sinistra da molti anni e che associa l’edilizia a corruzione, cementificazione, speculazione e arricchimento. Pregiudizio che ha conseguentemente generato un intrico spaventoso di norme stratificatesi nei decenni che condizionano ogni tentativo di crescita economica basato sulla libera iniziativa (ma anche sugli investimenti pubblici) e che fanno assomigliare la giurisdizione italiana del settore delle costruzioni ad un enorme gioco dello Shangai dove il minimo spostamento di uno delle decine di bastoncini che compongono il mucchio si ripercuote inevitabilmente su qualcun altro, anche se apparentemente lontano. E di fronte a questa inestricabile ragnatela la classe politica di qualsiasi colore ha perso ogni capacità di immaginare, se non proprio di attuare, un taglio gordiano, anche se oggi si affanna da tutti gli scranni ad invocare la “sburocratizzazione” del Paese, convinta che la gente non si renda conto che è proprio sul mantenimento dell’apparato burocratico che si regge la tenuta politica dell’Italia, basta leggere l’incidenza della spesa corrente nell’insieme del bilancio statale. A questa sterilità immaginativa occorre aggiungere poi, fenomeno sorto ormai una trentina di anni fa, la sindrome della firma, consolidata ormai in ogni strato della dirigenza amministrativa, e dovuta al timore, del tutto motivato, dell’intervento della magistratura a ogni piè sospinto, anche per le iniziative più innocue o di buon senso. Non si può poi non richiamare la perdita forse irrecuperabile da parte dei policy makers, ma anche della classe professionale ed imprenditoriale, di una visione di scala, elicotteristica, del territorio e dei suoi problemi, che non siano quelli strettamente comprensoriali, per arrivare all’enorme pastrocchio del rapporto Stato/Regioni che finalmente, e drammaticamente, sta venendo a galla dopo 50 anni di ipocrisia, fatto di compromessi, sperperi finanziari e moltiplicazione dei centri di potere, in nome di una presunta difesa delle autonomie locali, alimentati e sopportati dagli italiani in cambio di un galleggiamento di mediocre benessere, in cui tutti contemporaneamente si  lamentano e si crogiolano. E si chiude in bellezza con la consolidata incapacità del settore pubblico, da 40 anni a questa parte, di interpretare la spesa pubblica come possibilità di investimenti produttivi.
A tutto ciò, naturalmente, vanno aggiunti i paletti oggettivi propri del NGEU, a quello che è dato ad oggi sapere, ovvero i tempi di utilizzo che presupporrebbero che entro il 2023 il Sistema Italia abbia partorito impegni formalizzati di spesa per 209 miliardi, pronti per essere completamente assorbiti entro il 2026, quando sono vistose le percentuali di incapacità di utilizzo degli anni passati di somme molto più contenute e facenti capo alle varie tornate dei fondi strutturali.
A questo punto, nonostante l’assoluta certezza della vanità dei quattro temi che si sono sentiti fugacemente proporre come pilastri della ripresa, si avverte comunque il dovere di riprenderli e di approfondirli un po’, se non altro per la magra consolazione dell’onestà intellettuale.
Si ripetono: digitalizzazione, dissesto idrogeologico, infrastrutture strategiche e sostituzione edilizia.
In questa sede ci si soffermerà in particolare sulla sostituzione edilizia, ritenuto il più improbabile dei quattro in quanto a realizzazione, anche se il più affascinante, perlomeno dal punto di vista di chi si occupa di territorio. Gli altri tre sono altrettanto strategici, ma, come sì è detto, sono in varia misura presenti nelle linee sin qui tracciate dal Governo, salvo poi essere confermate e in quale misura.

Il Next Generation EU
Prima però è necessario fare sinteticamente il punto sul Recovery Fund, per quel poco che se ne sa, nonostante ormai l’argomento sia venuto alla ribalta da tre mesi e nonostante la drammaticità delle cause che lo hanno generato. È sicuramente più appropriata la denominazione Next Generation EU, anche se tutto lascia pensare che quello che ancora manca è proprio una visione proiettata sulle prossime generazioni. Ma la scarsa capacità di immaginare azioni di respiro lungo non è una novità della nostra classe politica. Parlando dell’ambiente, si è detto qualche anno fa che lo abbiamo ricevuto in prestito dalle generazioni future. Se si estende questo concetto al debito pubblico, allo stato delle infrastrutture ed alla qualità della vita che si prospetta, la sensazione è che potremmo essere citati pesantemente in giudizio da chi verrà dopo di noi. In più, nella malauguratissima ipotesi si dovessero di nuovo presentare circostanze come queste che viviamo oggi, di sicuro non troveremo più un’Europa con dotazioni e volontà in grado di effettuare un intervento della portata che è oggi riuscita a mettere in campo. È per questo che le risorse disponibili oggi dovranno avere ricadute efficaci e misurabili dalle prossime generazioni, anche a costo di non potere essere godute in pieno dalla generazione attuale e, soprattutto, dovranno poter esercitare un effetto moltiplicatore in grado di capitalizzare i benefici molto oltre i costi di investimento.

Dei 672,5 miliardi di Euro messi complessivamente in gioco dalla Unione Europea con il Recovery Fund, all’Italia spetterebbero 191,4 miliardi, ripartiti in 63, 8 miliardi di sovvenzioni e 127,6 miliardi di prestiti. A questa somma vanno aggiunti 17,2 miliardi variamente composti a valere su Horizon Europe, Invest EU, Sviluppo rurale, Fondo per la transizione giusta e RescEU , con cui si raggiungono 208,6 miliardi. Se si dovessero confermare queste somme, equivarrebbe a dire che circa un terzo saranno costituite da sovvenzioni, cioè finanziamenti a fondo perduto, e due terzi da prestiti che, in altri tempi, avremmo definito agevolati, termine che non ha più senso in un’epoca in cui i tassi di interesse ordinari sono bassissimi e i rendimenti dei titoli cui fanno riferimento sono prossimi allo zero. Come si è già detto, ma vale la pena ripetere, secondo le prescrizioni dell’Unione Europea, se non interverranno variazioni, il 70 per cento di queste somme deve essere impegnato entro il 2022, il restante 30 per cento entro il 2023. Come è noto, il percorso di una spesa per investimenti segue le quattro classiche fasi di: individuazione delle fonti, stanziamento, impegno e spesa vera e propria. Se, per avere un parametro di riferimento, si prende ad esempio l’iter di un’opera pubblica, perché una somma si possa definire impegnata, occorre che, ai sensi dell’attuale Codice degli Appalti, sia stato perfezionato ed approvato il relativo progetto esecutivo ed individuato, nonché contrattualizzato, il soggetto esecutore. La spesa vera e propria vedrà la luce con i progressivi pagamenti nel corso dei lavori e, nel caso del Recovery Fund, dovrà essere completata entro il 2026, cioè in 6 anni a partire dal gennaio 2021. Questo complesso di attività vale sia per le somme che verranno erogate sotto forma di sovvenzioni sia per i prestiti. Stanti così le cose, sorgono spontanee due prime riflessioni. La prima riguarda proprio l’articolazione tra sovvenzioni e prestiti: logica vorrebbe che le sovvenzioni andassero a coprire quel complesso di progetti che non possono essere finanziati altro che con interventi a fondo perduto, il che vuol dire le infrastrutture, al netto di una quota marginale riferibile alle Partecipazioni Pubblico Private. I prestiti, per quanto è possibile, dovrebbero andare a coprire settori di investimento in grado di generare valore aggiunto in via diretta e quindi contribuire in modo significativo alla ripresa della domanda. La seconda riflessione porta ad una ulteriore vena di pessimismo, a meno che non si verifichino dei miracoli. Si ammetta per un istante, e le consuetudini italiane non fanno bene sperare in tal senso, che tutti e 208,6 miliardi vengano stanziati in modo compatto e non dispersivo per degli obiettivi precisi e ben monitorabili nel futuro. Se ciò viene rapportato all’obbligo dell’impegno entro il 2022 per il 70 per cento e per il 100 per cento nel 2023, significa che deve essere messa in moto una macchina in grado di elaborare progetti esecutivi per 209 miliardi di Euro nel giro di tre anni, a partire da gennaio 2021. Parallelamente, deve essere pronto un apparato amministrativo in grado di processare tutte le complicatissime fasi di approvazione dei progetti e di individuazione e contrattualizzazione dei soggetti attuatori, con tutto il corollario di verifiche ambientali, conferenze dei servizi e contromisure atte a contrastare le infiltrazioni mafiose (si può immaginare quali appetiti scatenerà questa disponibilità finanziaria). Ora, è noto che in tutta la storia dei finanziamenti europei “ordinari”, nelle loro varie declinazioni, a partire dai cicli settennali dei Fondi Strutturali, ognuno dei quali può misurarsi sull’ordine di circa un decimo dell’ammontare delle risorse che nel giro di sei anni dovranno essere spese con il NGEU, l’Italia non si è certo distinta in termini di efficacia nell’utilizzo dei fondi. I motivi sono noti: nonostante tutte le severe e complesse procedure di selezione e valutazione ex ante, gli uffici UE si vedono puntualmente arrivare dall’Italia, a firma di una moltitudine di soggetti tra Ministeri, Regioni, Comuni, enti di varia natura,  una massa incredibile di progetti di ridotte dimensioni e  di scarso o nullo impatto strategico sui territori, spesso non elegibili sia per finalità sia per carenze di progettazione, quando non arrivano in vistoso ritardo rispetto alle scadenze poste dall’Europa. Questo, si ripete, è quanto si verifica in situazioni ordinarie. È quindi legittimo porsi la preoccupazione di come potrà reagire il Sistema Paese di fronte alla necessità di fare fronte ad un impegno di 209 miliardi avendo a disposizione un lasso di tempo così ridotto. Già i primi segnali, che confermano l’attitudine italiana allo scarso coordinamento collettivo ed a interpretare le disponibilità finanziarie con lo spirito di assalto alla diligenza, si delineano all’orizzonte: sono pervenuti ai vari ministeri ad ottobre qualcosa come 560 progetti, spesso di ammontare non superiore ai 150.000 Euro, per un totale di richieste pari più o meno a 700 miliardi.
Una buona metà del citato documento sulle Linee Guida del Governo è poi occupato (cap. IV) dalle misure che il Governo intende mettere in atto a supporto del piano di tiraggio del NGEU. È giusto, non è pensabile che si possa movimentare efficacemente di una tale massa di finanziamenti se non si mette mano ai molti punti di debolezza del Sistema Italia, ma è credibile che nei tempi strettissimi messi a disposizione per l’utilizzo dei fondi si possa invertire una tendenza che dura da decenni ed a rimuovere l’incrostazione che ricopre la struttura amministrativa e produttiva del Paese da 50 anni? E tutto ciò a supporto dell’enorme sforzo progettuale e pianificatorio che viene richiesto? Il documento elenca tutti i gangli deboli del settore pubblico, la cui mancanza di riforme profonde può vanificare l’efficacia dell’NGEU: gli investimenti pubblici, l’efficienza della Pubblica Amministrazione, con la relativa semplificazione normativa, la Ricerca e Sviluppo, la riforma del Fisco, la riforma della Giustizia, la riforma del Lavoro. Si può seriamente credere che nel giro di sei anni si possano approvare, in modo efficace, senza commettere errori irreparabili e soprattutto in modo unanime, una serie di modifiche strutturali a questi comparti che non si riescono a scalfire da decenni?
D’altra parte, è necessario prendere atto che i numeri dell’NGEU sono quelli e non altri, i tempi altrettanto, le raccomandazioni della Commissione sugli obiettivi da perseguire sono state ben delineate e gli handicap italiani sono quelli ben rappresentati dalle Linee Guida. Quindi l’unica cosa da fare è cercare nei tempi disponibili di allestire una macchina in grado di processare e produrre una serie di piani e di progetti, oltre quelli che già esistono, in grado di utilizzare al meglio il cento per cento delle risorse disponibili, evitando, come è successo regolarmente con i Fondi Strutturali, di conseguire percentuali di utilizzo molto al di sotto delle risorse disponibili.
Forse l’unico sistema possibile è quello di impostare pochi macro-progetti in grado di avere ricadute a forte impatto sul territorio, con effetti a lungo termine, se non permanenti, e in grado di innescare un effetto leva su tutta l’economia e l’assetto sociale del Paese. D’altronde, questa è la strada che, nel corso dei decenni, hanno adottato con successo altri paesi europei nei confronti dei fondi strutturali, come la Spagna, l’Irlanda, il Portogallo, la Germania, ecc. L’efficacia di una strategia come questa non può prescindere da una profonda revisione del rapporto tra spesa corrente e spesa in conto capitale, di cui sì è già detto, e da un ripensamento strutturale delle competenze e responsabilità pubbliche che si sono venute drammaticamente ad indebolire, senza essere rimpiazzate, nel corso di decenni di decentralizzazione.
Se non era accettabile che si perseverasse in una incosciente politica di abbandono degli investimenti pubblici in una situazione ordinaria, figuriamoci in un contesto come quello indotto dalla pandemia. Ciononostante, la disabitudine ormai consolidata da decenni a pensare in termini di investimenti strategici a medio lungo termine sembra annebbiare ancora la capacità della classe politica di immaginare azioni che proiettino il Paese verso valori di crescita che si stacchino dai deprimenti 1/1,5 per cento che connotano i dati italiani ormai da troppo tempo.
Venendo ora ai quattro temi specifici di cui si era accennato all’inizio, per quanto concerne i primi tre, ci si limiterà a fare delle brevi considerazioni, per riprenderli in successive trattazioni, mentre invece si affronterà più approfonditamente il tema della sostituzione edilizia.

La digitalizzazione
La digitalizzazione del territorio è fondamentale per una infinita serie di motivi che è inutile elencare in questa sede e che trova più o meno tutti d’accordo. Però la digitalizzazione, intesa come programma strategico, presuppone una base infrastrutturale, fatta di opere che fisicamente portino la Rete in tutte le plaghe del territorio nella forma oggi più evoluta, ovvero la fibra ottica. E già questo richiede uno sforzo enorme, soprattutto considerando che il dibattito cui fino ad oggi si è assistito è il litigio su chi debba avere la responsabilità di effettuare i lavori e gestire la rete. Non è da trascurare poi che, dato il contenuto fortemente hi-tech che la digitalizzazione comporta, altrettanto elevata è la velocità con cui le tecnologie di supporto diventano obsolete e vengono scavalcate da soluzioni più performanti: non si può escludere che in un futuro non troppo lontano le informazioni della rete possano raggiungere gli utenti via etere e non più via cavo, rendendo inutili le infrastrutture realizzate. Purtroppo, l’Italia ha sempre brillato per essere il fanalino di coda dei paesi più evoluti, quando si tratta di adottare e diffondere a livello di massa le soluzioni più avanzate.

Le infrastrutture
Il tema delle infrastrutture merita un serio approfondimento che verrà rimandato in altra sede se non per dire ora che definirlo strategico è riduttivo. Non è pensabile che un paese che voglia affrancarsi dalla perdita di competitività non riveda profondamente il suo patrimonio infrastrutturale, dalla elementare azione di monitoraggio e manutenzione delle dotazioni esistenti alla realizzazione, secondo una visione nazionale e non locale, di nuove opere, a rete o puntuali che siano. Per fare ciò, è pleonastico affermare una volta di più che l’attuale struttura normativa è del tutto inadeguata a fornire un quadro di riferimento chiaro ed efficace. Le responsabilità non sono solo da attribuire all’attuale versione del Codice degli Appalti, che pure già da solo sarebbe ampiamente sufficiente a scoraggiare chi, a livello di governance, pensi di poter impostare un vero piano strategico a medio-lungo termine. Il problema vero è il collegato del Codice a tutto il corollario giuridico infinito che caratterizza in Italia il tema della trasformazione del territorio. Per sintetizzare, si potrebbe affermare che il Codice, e con lui il malcapitato operatore, privato o pubblico, si trova ad agire in una matrice spesso indecifrabile, in cui le componenti orizzontali sono i collegamenti con gli altri codici: ambiente, lavoro, penale, civile, ecc., e le intersezioni verticali sono le articolazioni delle infinite leggi locali e le declinazioni regionali dei recepimenti delle norme nazionali o europee.

Il dissesto idrogeologico
Il problema del dissesto idrogeologico del Paese viene sempre sbandierato come un’emergenza, ogni volta che si verifica un episodio tale da dover occupare le cronache nazionali, per poi essere puntualmente accantonato. In realtà, per tutta una serie di motivi che sono arcinoti da decenni, l’Italia soffre di una grande fragilità territoriale e i cambiamenti climatici non hanno fatto altro che aggravare ed accelerare questa caratteristica nazionale. Se questo Paese non avesse abdicato da tempo all’esercizio della memoria, gli italiani e i loro governanti avrebbero messo da un pezzo mano alle cause dei dissesti che ciclicamente e puntualmente devastano porzioni sempre più vaste del territorio, dalle coste alle montagne.  La natura sismica della porzione terrestre da noi occupata non è che uno dei fattori di rischio del Paese e nei confronti della quale non resta che assumere un atteggiamento in parte difensivo passivo (monitoraggi costanti, costruzioni antisismiche, piani di evacuazione) ed in parte fatalistico. Viceversa, la stragrande maggioranza delle cause del resto del dissesto idrogeologico è dovuta all’intervento dell’uomo ed a scelte sciagurate adottate nel passato nei confronti del territorio in nome dell’ansia di crescita produttiva: cementificazione degli alvei dei fiumi, trattamenti dei terreni agricoli che ne hanno alla lunga minato la stabilità strutturale, abusivismo edilizio tollerato e sanato in spregio ad ogni elementare misura prudenziale, scelta del posizionamento di infrastrutture di collegamento e produttive in zone ad alto rischio, eccetera.
Circa una ventina di anni fa, l’ufficio studi di Mediocredito Centrale e Europrogetti e Finanza SpA effettuarono una valutazione di quanto costava all’erario e alla popolazione di un territorio rimediare alle conseguenze di un episodio riconducibile al dissesto idrogeologico, che nel caso specifico riguardava l’interruzione per un anno di una strada fondovalle a causa dell’esondazione di un torrente. Innanzitutto, emerse il peccato originale di una scelta progettuale sbagliata, dovuta a ragioni di economia e di rapidità di esecuzione (la realizzazione aveva di fatto eliminato le aree golenali in grado di assorbire gli eccessi di afflusso idrico e il fenomeno della violenza delle acque era stato accentuato dalla cementificazione dell’alveo, come puntualmente si verifica per esempio in Liguria). Lo studio poi aggiunse al costo dei lavori di ripristino il costo in termini di ore/lavoro perse e di carburante dovuto alla necessità per gli utenti di fare per più di un anno un percorso alternativo per raggiungere le destinazioni impiegando tempo e distanza quadrupli a quello normale. Il risultato è che il costo complessivo pagato dalla collettività fu molto vicino a quello che era stato il costo di realizzazione dell’infrastruttura.
Questo, al netto del costo di vite umane che regolarmente accompagna episodi di questo tipo, è lo scenario in cui puntualmente si ritrova tutto il territorio nazionale, senza eccezioni. Scenario che si replica da lungo tempo senza che si scorgano all’orizzonte misure strategiche da parte degli organi statali o locali, se non il moltiplicarsi delle cosiddette zone rosse all’interno dei PAI (Piani di Assetto Idrogeologico), all’interno delle quali pullulano zone abitative, produttive e turistiche, e che ormai sono l’emblema dello scarico delle responsabilità da parte degli organismi competenti. Saprà il Governo italiano capire che il NGEU è una occasione irripetibile per mettere strategicamente mano a questa piaga nazionale che non siano i pannicelli caldi finora adottati? Vedremo.

La sostituzione edilizia
Si perviene così al tema centrale di queste considerazioni: la sostituzione edilizia. Prima di affrontarlo, è necessario sottolineare che in realtà il tema dell’edilizia non può essere preso in considerazione senza legarlo profondamente ai tre temi precedenti. Essi, infatti, sono legati intimamente tra di loro dai più vasti temi della trasformazione del territorio e dell’evoluzione della società che ci vive. Il vero scatto in avanti del Paese consisterà, quali che saranno le misure effettive che il Governo e il Parlamento metteranno in atto, nella capacità di fare interagire tutte le misure adottate in modo che l’efficacia di ognuna di esse sia moltiplicata dal fatto di appartenere a un Sistema, caratteristica che quasi mai si è verificata nella crescita italiana.
Allo stato attuale, ovvero nelle linee guida elaborate dal Governo, la voce che riguarda le attività che coinvolgono il settore dell’edilizia sono inserite, come si è già detto, all’interno della missione “equità sociale, di genere e territoriale”, occupando il penultimo posto negli 11 cluster e definita come “rigenerazione e riqualificazione di contesti urbani, borghi ed aree interne e montane, piccole isole, anche con interventi nel settore culturale”. Si ricorda che, a livello nazionale, la tematica della rigenerazione urbana è stata introdotta dall’art. 5 della Legge 106 del 2011 – prime disposizioni urgenti per l’economia – (in Italia le leggi recanti novità dal punto di vista economico-finanziario passano sempre con l’aggettivo “urgenti”, con la conseguenza che con lo scorrere del tempo si è persa completamente la nozione della parola “urgente”). Al di là delle varie interpretazioni ed adozioni che ne hanno fatto le varie Regioni, dimostrando una volta di più l’assurdità della frammentazione territoriale di misure che rivestono connotati nazionali, il succo della normativa riguardante la rigenerazione urbana consiste nel mantenere un equilibrio ambiguo tra: necessità di porre mano al degrado di vastissime porzioni del territorio urbano italiano, necessità di tentare un rilancio dell’ormai asfittico settore delle costruzioni, affermazione, spesso demagogica, del principio di non consumo di nuovo suolo, necessità di incrementare, per quanto è possibile, la densità abitativa di settori urbani del territorio nazionale. L’allungarsi della filiera normativa di un dispositivo già debole alla nascita, dovuto alle successive interpretazioni che ne ha fatto ogni singola Regione, non poteva che portare a dei risultati nel migliore dei casi ininfluenti rispetto agli obiettivi originari o grotteschi, nel peggiore dei casi. Esempi lampanti sono stati l’aprirsi di varchi alla demolizione di edifici ben inseriti in zone consolidate delle città, che nulla avevano di degradato, per fare posto ad esercizi quantomeno discutibili di incremento di cubature, quasi sempre disomogenei rispetto al contesto. Il tutto, naturalmente, senza che finora sia stata toccata un’unghia all’interno delle vastissime zone urbane realmente degradate e bisognose da decenni di interventi radicali.
A fronte di queste misure marginali, c’è una parte molto consistente dello stock edilizio italiano che va interamente sostituito. Questo stock è rappresentato al 95 per cento da quanto è stato realizzato a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale fino perlomeno a metà degli anni ’70, 35 anni. I motivi della necessità di cominciare a metter mano a questa sostituzione sono molteplici e così elementari che li capisce anche un non addetto ai lavori. Si va dal degrado strutturale dovuto all’utilizzo di materiali scadenti di costruzione, a causa delle precarie condizioni economiche dei primi dieci anni di dopoguerra, alla realizzazione di intere nuove porzioni di città effettuate trascurando completamente ogni criterio di pianificazione urbanistica, dalla totale inadeguatezza odierna delle tipologie abitative valide in quegli anni, al massacro del territorio in spregio ad ogni considerazione di tipo paesaggistico per soddisfare la bulimia da cubatura e, last but not least, alle vastissime porzioni di edilizia abusiva, sia totale sia “legalizzata” grazie alla stratificazione di sanatorie succedutesi praticamente ad ogni legislatura per fare fronte all’endemico e permanente deficit di cassa. A fare da basisti a questo stato di cose sono molto spesso stati i piani regolatori succedutisi dal secondo dopoguerra in poi che hanno abiurato dalla loro natura di “pianificazione urbanistica e territoriale” per ridursi a meri strumenti regolatori ed elenchi di norme sui distacchi, sulle altezze, sul rispetto degli standard, ecc.

In un articolo del 1959 sulla rivista Urbanistica, intitolato Fare del proprio peggio, l’architetto Michele Valori, riferendosi ai contorni che stava assumendo il Nuovo Piano Regolatore di Roma, si esprimeva così: Roma rischia di ritrovarsi tra vent’anni con gli stessi problemi di oggi, aggravati da un incremento edilizio e demografico enorme. La più orrenda, squalificata città del mondo che chiameremo Roma per una pietosa convenzione, per un’abitudine fonetica. Altri paesi europei, che non hanno vissuto come il nostro il fenomeno dilagante dell’abusivismo, si sono però trovati ad un certo momento di fronte al fallimento di alcuni modelli di sviluppo urbano e vi hanno posto rimedio ormai da molti decenni (vedi il caso delle new towns inglesi) sostituendoli con modelli meno ideologizzati e più rispondenti ai criteri di vivibilità e di inclusione sociale, cui oggi si fa tanto appello. Ma in Italia il solo parlare di demolizione e ricostruzione, perché poi di questo si tratta, è tabù, soprattutto se si parla di comparti urbani di una certa scala, e quindi si preferisce nascondersi dietro un dito e partorire provvedimenti che lasciano spazio a interventi marginali, fuori contesto e che tutto hanno meno che la dignità di essere definiti di “rigenerazione urbana”. Per abbattere le “vele” di Scampia, create nei primi anni ’80 a seguito del terremoto di Napoli, esibite come modello architettonico di una società evoluta e democratica e poi rivelatesi come terreno di coltura del peggior degrado sociale, ci sono voluti decenni di resistenza di tutta una classe intellettuale che le aveva partorite.
Certo, le difficoltà da affrontare in una politica di sostituzione edilizia sono enormi, a cominciare dal problema che comporta alloggiare migliaia di persone temporaneamente in attesa che i quartieri dove ora vivono siano rasi al suolo e sostituiti da altri più compatibili con le esigenze attuali. Ma questo non è un momento come un altro e, si spera, non si ripresenterà mai più un’occasione di questo genere. Mai più l’Italia potrà avere davanti a sé la prospettiva di una dotazione finanziaria una tantum pari a 7, 8 volte le ordinarie manovre di bilancio annuali. Mai più l’Italia avrà l’opportunità di porre rimedio agli errori commessi nel passato. Mai più l’Italia avrà la possibilità di ricreare le condizioni di avere un “paesaggio urbano” degno di questo nome e armonizzato col paesaggio naturale che per secoli è stato l’invidia degli altri paesi e che fece dire a Goethe l’Italia è l’unico posto al mondo dove convivono in perfetta armonia due paesaggi, uno creato dalla natura e uno dall’uomo. Paesaggio, come riconosciuto anche dal Governo nel documento delle linee guida, che è parte integrante del valore aggiunto di questo Paese e che ci offre delle opportunità che la stragrande maggioranza degli altri paesi non ha. Mai più l’Italia avrà di nuovo l’opportunità di rimettere in moto la propria economia portandola a livelli pari o superiori alla media degli altri paesi europei attraverso un settore, quello delle costruzioni, che oltre ad avere sempre costituito un’eccellenza a livello mondiale, ha la capacità di trainare con sé un intero mondo di indotto come nessun altro settore è in grado di fare: ogni Euro investito nelle costruzioni genera 2,5 Euro, tra investimento diretto ed indotto. Mai più l’Italia avrà la possibilità di rimettere in moto il comparto delle costruzioni adottando in pieno il principio del “no consumo di nuovo suolo”, perché è chiaro che, se si parla di “sostituzione”, a ogni nuovo metro cubo che viene realizzato corrisponderà un metro cubo eliminato. Nessun settore è in grado di rimettere in moto la filiera dell’occupazione alla scala in cui è in grado di farlo il settore delle costruzioni: ogni strato e componente della società civile è coinvolto in un intervento di scala urbana, dal pubblico al privato, dalle maestranze ai professionisti. Ed è altrettanto vero che in nessun altro settore si possono implementare a scala realmente percepibile a livello nazionale le linee strategiche che stanno tanto a cuore ai policy makers, ma che a sé stanti, al di fuori di un contesto applicativo, sono degli sterili slogan: transizione energetica, ricerca e sviluppo, inclusione sociale, parità di genere, creazione di posti di lavoro, green new deal.
Nel febbraio 1949 vide la luce la legge n. 43, Provvedimenti per incrementare l’occupazione operaia, agevolando la costruzione di case per lavoratori, in due parole il Piano Fanfani. Il Piano ebbe una copertura finanziaria mista, Stato, datori di lavoro e lavoratori. In particolare, fu proprio la modalità di intervento finanziario dei datori di lavoro e dei lavoratori a costituire la grande novità del Piano: sui ricavi delle imprese e sulla busta paga dei lavoratori (di tutti i lavoratori italiani, non solo di quelli coinvolti nel processo attuativo) fu operata una trattenuta praticamente impercettibile (per i lavoratori fu mediamente pari al costo di una sigaretta al giorno), ma che a livello di scala su milioni di lavoratori costituì una enorme massa di denaro (verrebbe da chiedersi perché non viene ripreso quel meccanismo). In quattordici anni di attività il Piano produsse circa due milioni di vani, che, tradotti secondo la tipologia abitativa media dell’epoca di 5 vani ad alloggio, corrispondono a circa 400.000 alloggi distribuiti su tutto il territorio nazionale. Attualizzando in maniera approssimativa i numeri ad oggi (cambio Euro/Lire, inflazione, potere di acquisto, ecc.), e quindi ragionando in Euro, piuttosto che in lire, si può affermare che il Piano Fanfani comportò investimenti (diretti) per circa 48 miliardi di Euro (considerato il costo dell’alloggio chiavi in mano, ma al netto del costo del terreno). L’effetto leva per investimenti complessivi fu di circa 120 miliardi di Euro, realizzando 2800 vani a settimana e attivando 20.000 cantieri in tutto il territorio nazionale.   Vale la pena di richiamare alcuni passi di un articolo del 2007 di Giuseppe Guarino su Economia Italiana, intitolato Lo Stato Sociale: Fanfani aveva collegato il tema dell’alloggio a quello dell’occupazione. I cantieri aperti avrebbero interessato 5.036 comuni. Alla gestione del Piano nella fase di massima espansione avrebbero provveduto non più di 190 persone (a livello di coordinamento pubblico, si pensi oggi, come inciso, se un Piano di questo genere fosse affidato alle singole Regioni, la pletora di funzionari pubblici che verrebbe coinvolta, perlomeno 20 volte tanto). A livello professionale, furono coinvolti circa 900 architetti e 1.100 ingegneri per la progettazione, 2.300 ingegneri per la direzione lavori, 1.300 per la vigilanza e i collaudi. In 20.000 cantieri furono impiegate 102 milioni di giornate/lavoro corrispondenti alla occupazione stabile di 40.000 operai/anno. Già nel 1950, a un anno dall’inizio, erano impiegati nel Piano 50.000 operai. Il Piano va inquadrato nello specifico dello sviluppo italiano. Si resta sorpresi dalla coerenza del disegno con le linee con le quali il Paese andava evolvendo. Come si è già detto, oggi, a 70 anni di distanza dall’avvio del Piano, la maggior parte di quegli alloggi sono ormai inadeguati fisicamente, tipologicamente e urbanisticamente alle esigenze delle città del terzo millennio e scontano un fisiologico degrado dovuto alla qualità dei materiali ed alle soluzioni energetiche disponibili in quei tempi. Ad essi, come si è già detto, si debbono aggiungere gli scempi dovuti ai vari abusivismi, legalizzati o meno, che deturpano il nostro territorio, e tutta l’edilizia privata legale, ma priva di un dignitoso inquadramento urbanistico in grado di garantire, allora come oggi, la dignità del vivere e il rispetto del territorio.
Come ognuno che si occupi di edilizia e di costruzioni sa, adeguare e ristrutturare costa di più che demolire e ricostruire. Se si utilizzasse il 25 per cento dell’ammontare complessivo delle somme prospettate per il NGEU per un Piano Nazionale di Sostituzione Edilizia, si raggiungerebbe una cifra pari più o meno a quella del Piano Fanfani, senza occupazione di nuovo suolo che non sia quello necessario temporaneamente agli alloggi parcheggio, adottando per esempio uno schema attuativo a scacchiera o cuci e scuci.
Dagli anni ’60 si è potuto assistere ad una profonda mutazione della società, a cominciare dal nucleo familiare. Di conseguenza sono mutate profondamente anche le esigenze abitative e gli alloggi realizzati in quell’epoca sono decisamente inadeguati. Oggi la domanda abitativa sconta la riduzione dei nuclei familiari, il tasso di crescita dell’età media, il fenomeno dei single e la crescente difficoltà di accesso alla proprietà edilizia da parte dei giovani a causa del crollo del potere di acquisto (un appartamento medio negli anni ’60 costava quanto un’autovettura di media cilindrata di oggi). A questo si aggiunga che i criteri progettuali degli anni ’60 erano profondamente diversi da quelli di oggi. Allora si faceva ampio ricorso agli elementi distributivi come corridoi e disimpegni, con la conseguenza che buona parte della superficie dell’alloggio era di fatto sottoutilizzata. Oggi si tende ad ottimizzare ogni centimetro quadrato disponibile, riducendo al massimo le funzioni di disimpegno. La conseguenza immediata è che le funzionalità di un appartamento di 120 mq degli anni corrispondenti al Piano Fanfani sono egregiamente assolte da una unità di 80 mq. Poi ci sono tutte le considerazioni di natura tecnologica su cui è inutile soffermarsi se non per ricordare le performance di tipo energetico che ormai sono norma legislativa e che incidono profondamente sui valori del mercato immobiliare: la stragrande maggioranza delle unità edilizie antecedenti gli anni ’80  è classificata mediamente G, contro la classe A che contraddistingue le abitazioni di ultima generazione, solo per parlare delle soluzioni passive, a cui vanno aggiunte le implicazioni attive, quali il condizionamento, la connettività, eccetera.
La pandemia e le misure messe in atto per contrastarla hanno anche fatto venire alla ribalta la necessità che gli alloggi siano dotati di superfici all’aperto, terrazze, balconi, logge, ecc., di cui la grande maggioranza degli alloggi, anche di pregio, realizzati fino agli anni ’70 sono sprovvisti. Tutti questi elementi portano a considerare che, a parità di dotazione finanziaria, si potrebbero realizzare circa 625.000 alloggi rispetto ai 400.000 del Piano Fanfani, ampiamente sufficienti a rigenerare sostanzialmente buone porzioni delle realtà urbane italiane, a costituire un immenso impulso all’economia ed all’occupazione del Paese ed a lasciare alle generazioni successive un territorio metropolitano degno di un paese civile, con servizi adeguati e impostato secondo criteri ambientali ormai divenuti imprescindibili. Infine, c’è da dire che il comparto dell’edilizia è storicamente, ed al contrario di quello delle opere pubbliche, impostato in gran parte sull’iniziativa privata, seppur soggetto ad un forte controllo regolatorio pubblico. Questo significa che un rilancio del settore da parte del Governo può innescare un meccanismo virtuoso in cui, a ruota degli interventi realizzati a valere sui finanziamenti europei, possono seguire interventi privati su larga scala e sempre impostati sullo schema della sostituzione.

In definitiva, c’era un tempo in cui il contributo dell’edilizia al Pil nazionale era pari al 30 per cento circa. È probabile che tale incidenza non verrà mai recuperata, ma è indubbio che non c’è nessun altro settore produttivo in grado di generare valore aggiunto come quello delle costruzioni, perlomeno in questo Paese che è ancora indietro rispetto ai competitors occidentali ed asiatici nei settori delle tecnologie avanzate e dell’ICT. Gli effetti collaterali di una edilizia rivitalizzata attraverso una concezione del vivere al passo con i tempi sono poi di portata che forse oggi si stenta a comprendere in pieno. I disagi indotti da modelli urbani o concettualmente sbagliati o quantomeno non più adeguati, si riflettono vistosamente su molti aspetti della società civile. Per fare un solo esempio, il decremento demografico, il cui contrasto è uno dei punti strategici posti dalle Linee Guide governative, è stato sì indotto principalmente dalla incertezza che le giovani generazioni hanno nei confronti del futuro di fronte al quale non si sentono di assumersi l’impegno economico e le responsabilità che fare figli, istruirli, nutrirli e crescerli comporta. Ma è anche certo che le realtà urbane non fanno nulla per essere viste in prospettiva come l’ambiente ideale ed incentivante per fare convivere armoniosamente le generazioni giovani, quelle mature e quelle anziane: alloggi inadeguati, servizi carenti, tempo perso a spostarsi da e verso il luogo di lavoro, quando c’è, e da e verso i luoghi dell’istruzione o del tempo libero, degrado ambientale e paesaggistico. In una recentissima occasione di incontro sull’utilizzo del NGEU l’architetto Stefano Boeri ha affermato che le città del futuro dovranno essere costituite da cluster in cui i servizi essenziali e di utilizzo quotidiano debbono essere a non più di qualche minuto dal luogo di abitazione: e ci voleva la pandemia per capirlo? Da decenni chi si occupa di urbanistica e di architettura tenta di spiegare che le deviazioni del modello di vita sociale che si è imposto dal dopoguerra in poi alla lunga portano alla disgregazione esistenziale. Il problema è che la vita della collettività è incardinata in una struttura fisica consolidata, la città, che la obbliga a seguire quel modello di vita, senza via di scampo. E tale struttura si ripropone puntualmente alle varie scale in cui l’individuo porta avanti la sua giornata di 24 ore, dal momento in cui esce di casa al momento in cui vi rientra ed a prescindere dalla sua condizione sociale: il pianerottolo di casa, le scale, la strada, il traffico, il posto di lavoro, le necessità legate al consumo e poi di nuovo al contrario, riducendo la scala ambientale progressivamente fino al rientro a casa. In questa catena le differenze indotte dal posizionamento fisico e sociale – centro urbano, pericentro, periferia, borgata – possono differire certamente per apparente qualità, ma sostanzialmente replicano per tutti lo stesso modello esistenziale. La disgraziata circostanza in cui si viene oggi a trovare l’umanità, e nello specifico l’Italia, offre paradossalmente una occasione irripetibile per provare a scardinare questo meccanismo perverso. La sola rigenerazione urbana, così come concepita dalle norme nazionali e regionali, non è in grado di assolvere a questo compito e poteva avere un senso prima della pandemia, ma solo per ragioni di limitata disponibilità finanziaria in quanto legata all’iniziativa privata e con tutte le limitazioni derivanti dal complesso inestricabile di norme statali e locali in cui è andata ad impattare. Il nuovo mondo che si è aperto agli occhi di tutti da un anno scarso a questa parte ha, da un lato, imposto l’approccio ad alcuni schemi di vita, di rapporto con il prossimo e con l’ambiente, che mai avremmo concepito neanche una settimana prima dal suo avvio. Dall’altro lato pone di fronte, oggi e non in un altro momento, ad una occasione per rimodellare il nostro ambiente di vita secondo i parametri che questa circostanza ha fatto emergere in modo drammatico e stringente, anche se le basi erano più o meno palesi già da molto prima nelle nostre coscienze. La sostituzione edilizia, anche accompagnata da interventi complementari di rigenerazione, potrebbe effettivamente costituire un balzo in avanti di portata tale che possa essere percepito in modo tangibile dalle generazioni future, in termini ambientali, esistenziali ed economici.