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Sostituzione edilizia e Recovery Fund. Utopia e dintorni

di - 11 Dicembre 2020
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In un articolo del 1959 sulla rivista Urbanistica, intitolato Fare del proprio peggio, l’architetto Michele Valori, riferendosi ai contorni che stava assumendo il Nuovo Piano Regolatore di Roma, si esprimeva così: Roma rischia di ritrovarsi tra vent’anni con gli stessi problemi di oggi, aggravati da un incremento edilizio e demografico enorme. La più orrenda, squalificata città del mondo che chiameremo Roma per una pietosa convenzione, per un’abitudine fonetica. Altri paesi europei, che non hanno vissuto come il nostro il fenomeno dilagante dell’abusivismo, si sono però trovati ad un certo momento di fronte al fallimento di alcuni modelli di sviluppo urbano e vi hanno posto rimedio ormai da molti decenni (vedi il caso delle new towns inglesi) sostituendoli con modelli meno ideologizzati e più rispondenti ai criteri di vivibilità e di inclusione sociale, cui oggi si fa tanto appello. Ma in Italia il solo parlare di demolizione e ricostruzione, perché poi di questo si tratta, è tabù, soprattutto se si parla di comparti urbani di una certa scala, e quindi si preferisce nascondersi dietro un dito e partorire provvedimenti che lasciano spazio a interventi marginali, fuori contesto e che tutto hanno meno che la dignità di essere definiti di “rigenerazione urbana”. Per abbattere le “vele” di Scampia, create nei primi anni ’80 a seguito del terremoto di Napoli, esibite come modello architettonico di una società evoluta e democratica e poi rivelatesi come terreno di coltura del peggior degrado sociale, ci sono voluti decenni di resistenza di tutta una classe intellettuale che le aveva partorite.
Certo, le difficoltà da affrontare in una politica di sostituzione edilizia sono enormi, a cominciare dal problema che comporta alloggiare migliaia di persone temporaneamente in attesa che i quartieri dove ora vivono siano rasi al suolo e sostituiti da altri più compatibili con le esigenze attuali. Ma questo non è un momento come un altro e, si spera, non si ripresenterà mai più un’occasione di questo genere. Mai più l’Italia potrà avere davanti a sé la prospettiva di una dotazione finanziaria una tantum pari a 7, 8 volte le ordinarie manovre di bilancio annuali. Mai più l’Italia avrà l’opportunità di porre rimedio agli errori commessi nel passato. Mai più l’Italia avrà la possibilità di ricreare le condizioni di avere un “paesaggio urbano” degno di questo nome e armonizzato col paesaggio naturale che per secoli è stato l’invidia degli altri paesi e che fece dire a Goethe l’Italia è l’unico posto al mondo dove convivono in perfetta armonia due paesaggi, uno creato dalla natura e uno dall’uomo. Paesaggio, come riconosciuto anche dal Governo nel documento delle linee guida, che è parte integrante del valore aggiunto di questo Paese e che ci offre delle opportunità che la stragrande maggioranza degli altri paesi non ha. Mai più l’Italia avrà di nuovo l’opportunità di rimettere in moto la propria economia portandola a livelli pari o superiori alla media degli altri paesi europei attraverso un settore, quello delle costruzioni, che oltre ad avere sempre costituito un’eccellenza a livello mondiale, ha la capacità di trainare con sé un intero mondo di indotto come nessun altro settore è in grado di fare: ogni Euro investito nelle costruzioni genera 2,5 Euro, tra investimento diretto ed indotto. Mai più l’Italia avrà la possibilità di rimettere in moto il comparto delle costruzioni adottando in pieno il principio del “no consumo di nuovo suolo”, perché è chiaro che, se si parla di “sostituzione”, a ogni nuovo metro cubo che viene realizzato corrisponderà un metro cubo eliminato. Nessun settore è in grado di rimettere in moto la filiera dell’occupazione alla scala in cui è in grado di farlo il settore delle costruzioni: ogni strato e componente della società civile è coinvolto in un intervento di scala urbana, dal pubblico al privato, dalle maestranze ai professionisti. Ed è altrettanto vero che in nessun altro settore si possono implementare a scala realmente percepibile a livello nazionale le linee strategiche che stanno tanto a cuore ai policy makers, ma che a sé stanti, al di fuori di un contesto applicativo, sono degli sterili slogan: transizione energetica, ricerca e sviluppo, inclusione sociale, parità di genere, creazione di posti di lavoro, green new deal.
Nel febbraio 1949 vide la luce la legge n. 43, Provvedimenti per incrementare l’occupazione operaia, agevolando la costruzione di case per lavoratori, in due parole il Piano Fanfani. Il Piano ebbe una copertura finanziaria mista, Stato, datori di lavoro e lavoratori. In particolare, fu proprio la modalità di intervento finanziario dei datori di lavoro e dei lavoratori a costituire la grande novità del Piano: sui ricavi delle imprese e sulla busta paga dei lavoratori (di tutti i lavoratori italiani, non solo di quelli coinvolti nel processo attuativo) fu operata una trattenuta praticamente impercettibile (per i lavoratori fu mediamente pari al costo di una sigaretta al giorno), ma che a livello di scala su milioni di lavoratori costituì una enorme massa di denaro (verrebbe da chiedersi perché non viene ripreso quel meccanismo). In quattordici anni di attività il Piano produsse circa due milioni di vani, che, tradotti secondo la tipologia abitativa media dell’epoca di 5 vani ad alloggio, corrispondono a circa 400.000 alloggi distribuiti su tutto il territorio nazionale. Attualizzando in maniera approssimativa i numeri ad oggi (cambio Euro/Lire, inflazione, potere di acquisto, ecc.), e quindi ragionando in Euro, piuttosto che in lire, si può affermare che il Piano Fanfani comportò investimenti (diretti) per circa 48 miliardi di Euro (considerato il costo dell’alloggio chiavi in mano, ma al netto del costo del terreno). L’effetto leva per investimenti complessivi fu di circa 120 miliardi di Euro, realizzando 2800 vani a settimana e attivando 20.000 cantieri in tutto il territorio nazionale.   Vale la pena di richiamare alcuni passi di un articolo del 2007 di Giuseppe Guarino su Economia Italiana, intitolato Lo Stato Sociale: Fanfani aveva collegato il tema dell’alloggio a quello dell’occupazione. I cantieri aperti avrebbero interessato 5.036 comuni. Alla gestione del Piano nella fase di massima espansione avrebbero provveduto non più di 190 persone (a livello di coordinamento pubblico, si pensi oggi, come inciso, se un Piano di questo genere fosse affidato alle singole Regioni, la pletora di funzionari pubblici che verrebbe coinvolta, perlomeno 20 volte tanto). A livello professionale, furono coinvolti circa 900 architetti e 1.100 ingegneri per la progettazione, 2.300 ingegneri per la direzione lavori, 1.300 per la vigilanza e i collaudi. In 20.000 cantieri furono impiegate 102 milioni di giornate/lavoro corrispondenti alla occupazione stabile di 40.000 operai/anno. Già nel 1950, a un anno dall’inizio, erano impiegati nel Piano 50.000 operai. Il Piano va inquadrato nello specifico dello sviluppo italiano. Si resta sorpresi dalla coerenza del disegno con le linee con le quali il Paese andava evolvendo. Come si è già detto, oggi, a 70 anni di distanza dall’avvio del Piano, la maggior parte di quegli alloggi sono ormai inadeguati fisicamente, tipologicamente e urbanisticamente alle esigenze delle città del terzo millennio e scontano un fisiologico degrado dovuto alla qualità dei materiali ed alle soluzioni energetiche disponibili in quei tempi. Ad essi, come si è già detto, si debbono aggiungere gli scempi dovuti ai vari abusivismi, legalizzati o meno, che deturpano il nostro territorio, e tutta l’edilizia privata legale, ma priva di un dignitoso inquadramento urbanistico in grado di garantire, allora come oggi, la dignità del vivere e il rispetto del territorio.
Come ognuno che si occupi di edilizia e di costruzioni sa, adeguare e ristrutturare costa di più che demolire e ricostruire. Se si utilizzasse il 25 per cento dell’ammontare complessivo delle somme prospettate per il NGEU per un Piano Nazionale di Sostituzione Edilizia, si raggiungerebbe una cifra pari più o meno a quella del Piano Fanfani, senza occupazione di nuovo suolo che non sia quello necessario temporaneamente agli alloggi parcheggio, adottando per esempio uno schema attuativo a scacchiera o cuci e scuci.
Dagli anni ’60 si è potuto assistere ad una profonda mutazione della società, a cominciare dal nucleo familiare. Di conseguenza sono mutate profondamente anche le esigenze abitative e gli alloggi realizzati in quell’epoca sono decisamente inadeguati. Oggi la domanda abitativa sconta la riduzione dei nuclei familiari, il tasso di crescita dell’età media, il fenomeno dei single e la crescente difficoltà di accesso alla proprietà edilizia da parte dei giovani a causa del crollo del potere di acquisto (un appartamento medio negli anni ’60 costava quanto un’autovettura di media cilindrata di oggi). A questo si aggiunga che i criteri progettuali degli anni ’60 erano profondamente diversi da quelli di oggi. Allora si faceva ampio ricorso agli elementi distributivi come corridoi e disimpegni, con la conseguenza che buona parte della superficie dell’alloggio era di fatto sottoutilizzata. Oggi si tende ad ottimizzare ogni centimetro quadrato disponibile, riducendo al massimo le funzioni di disimpegno. La conseguenza immediata è che le funzionalità di un appartamento di 120 mq degli anni corrispondenti al Piano Fanfani sono egregiamente assolte da una unità di 80 mq. Poi ci sono tutte le considerazioni di natura tecnologica su cui è inutile soffermarsi se non per ricordare le performance di tipo energetico che ormai sono norma legislativa e che incidono profondamente sui valori del mercato immobiliare: la stragrande maggioranza delle unità edilizie antecedenti gli anni ’80  è classificata mediamente G, contro la classe A che contraddistingue le abitazioni di ultima generazione, solo per parlare delle soluzioni passive, a cui vanno aggiunte le implicazioni attive, quali il condizionamento, la connettività, eccetera.
La pandemia e le misure messe in atto per contrastarla hanno anche fatto venire alla ribalta la necessità che gli alloggi siano dotati di superfici all’aperto, terrazze, balconi, logge, ecc., di cui la grande maggioranza degli alloggi, anche di pregio, realizzati fino agli anni ’70 sono sprovvisti. Tutti questi elementi portano a considerare che, a parità di dotazione finanziaria, si potrebbero realizzare circa 625.000 alloggi rispetto ai 400.000 del Piano Fanfani, ampiamente sufficienti a rigenerare sostanzialmente buone porzioni delle realtà urbane italiane, a costituire un immenso impulso all’economia ed all’occupazione del Paese ed a lasciare alle generazioni successive un territorio metropolitano degno di un paese civile, con servizi adeguati e impostato secondo criteri ambientali ormai divenuti imprescindibili. Infine, c’è da dire che il comparto dell’edilizia è storicamente, ed al contrario di quello delle opere pubbliche, impostato in gran parte sull’iniziativa privata, seppur soggetto ad un forte controllo regolatorio pubblico. Questo significa che un rilancio del settore da parte del Governo può innescare un meccanismo virtuoso in cui, a ruota degli interventi realizzati a valere sui finanziamenti europei, possono seguire interventi privati su larga scala e sempre impostati sullo schema della sostituzione.

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