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Sostituzione edilizia e Recovery Fund. Utopia e dintorni

di - 11 Dicembre 2020
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Le infrastrutture
Il tema delle infrastrutture merita un serio approfondimento che verrà rimandato in altra sede se non per dire ora che definirlo strategico è riduttivo. Non è pensabile che un paese che voglia affrancarsi dalla perdita di competitività non riveda profondamente il suo patrimonio infrastrutturale, dalla elementare azione di monitoraggio e manutenzione delle dotazioni esistenti alla realizzazione, secondo una visione nazionale e non locale, di nuove opere, a rete o puntuali che siano. Per fare ciò, è pleonastico affermare una volta di più che l’attuale struttura normativa è del tutto inadeguata a fornire un quadro di riferimento chiaro ed efficace. Le responsabilità non sono solo da attribuire all’attuale versione del Codice degli Appalti, che pure già da solo sarebbe ampiamente sufficiente a scoraggiare chi, a livello di governance, pensi di poter impostare un vero piano strategico a medio-lungo termine. Il problema vero è il collegato del Codice a tutto il corollario giuridico infinito che caratterizza in Italia il tema della trasformazione del territorio. Per sintetizzare, si potrebbe affermare che il Codice, e con lui il malcapitato operatore, privato o pubblico, si trova ad agire in una matrice spesso indecifrabile, in cui le componenti orizzontali sono i collegamenti con gli altri codici: ambiente, lavoro, penale, civile, ecc., e le intersezioni verticali sono le articolazioni delle infinite leggi locali e le declinazioni regionali dei recepimenti delle norme nazionali o europee.

Il dissesto idrogeologico
Il problema del dissesto idrogeologico del Paese viene sempre sbandierato come un’emergenza, ogni volta che si verifica un episodio tale da dover occupare le cronache nazionali, per poi essere puntualmente accantonato. In realtà, per tutta una serie di motivi che sono arcinoti da decenni, l’Italia soffre di una grande fragilità territoriale e i cambiamenti climatici non hanno fatto altro che aggravare ed accelerare questa caratteristica nazionale. Se questo Paese non avesse abdicato da tempo all’esercizio della memoria, gli italiani e i loro governanti avrebbero messo da un pezzo mano alle cause dei dissesti che ciclicamente e puntualmente devastano porzioni sempre più vaste del territorio, dalle coste alle montagne.  La natura sismica della porzione terrestre da noi occupata non è che uno dei fattori di rischio del Paese e nei confronti della quale non resta che assumere un atteggiamento in parte difensivo passivo (monitoraggi costanti, costruzioni antisismiche, piani di evacuazione) ed in parte fatalistico. Viceversa, la stragrande maggioranza delle cause del resto del dissesto idrogeologico è dovuta all’intervento dell’uomo ed a scelte sciagurate adottate nel passato nei confronti del territorio in nome dell’ansia di crescita produttiva: cementificazione degli alvei dei fiumi, trattamenti dei terreni agricoli che ne hanno alla lunga minato la stabilità strutturale, abusivismo edilizio tollerato e sanato in spregio ad ogni elementare misura prudenziale, scelta del posizionamento di infrastrutture di collegamento e produttive in zone ad alto rischio, eccetera.
Circa una ventina di anni fa, l’ufficio studi di Mediocredito Centrale e Europrogetti e Finanza SpA effettuarono una valutazione di quanto costava all’erario e alla popolazione di un territorio rimediare alle conseguenze di un episodio riconducibile al dissesto idrogeologico, che nel caso specifico riguardava l’interruzione per un anno di una strada fondovalle a causa dell’esondazione di un torrente. Innanzitutto, emerse il peccato originale di una scelta progettuale sbagliata, dovuta a ragioni di economia e di rapidità di esecuzione (la realizzazione aveva di fatto eliminato le aree golenali in grado di assorbire gli eccessi di afflusso idrico e il fenomeno della violenza delle acque era stato accentuato dalla cementificazione dell’alveo, come puntualmente si verifica per esempio in Liguria). Lo studio poi aggiunse al costo dei lavori di ripristino il costo in termini di ore/lavoro perse e di carburante dovuto alla necessità per gli utenti di fare per più di un anno un percorso alternativo per raggiungere le destinazioni impiegando tempo e distanza quadrupli a quello normale. Il risultato è che il costo complessivo pagato dalla collettività fu molto vicino a quello che era stato il costo di realizzazione dell’infrastruttura.
Questo, al netto del costo di vite umane che regolarmente accompagna episodi di questo tipo, è lo scenario in cui puntualmente si ritrova tutto il territorio nazionale, senza eccezioni. Scenario che si replica da lungo tempo senza che si scorgano all’orizzonte misure strategiche da parte degli organi statali o locali, se non il moltiplicarsi delle cosiddette zone rosse all’interno dei PAI (Piani di Assetto Idrogeologico), all’interno delle quali pullulano zone abitative, produttive e turistiche, e che ormai sono l’emblema dello scarico delle responsabilità da parte degli organismi competenti. Saprà il Governo italiano capire che il NGEU è una occasione irripetibile per mettere strategicamente mano a questa piaga nazionale che non siano i pannicelli caldi finora adottati? Vedremo.

La sostituzione edilizia
Si perviene così al tema centrale di queste considerazioni: la sostituzione edilizia. Prima di affrontarlo, è necessario sottolineare che in realtà il tema dell’edilizia non può essere preso in considerazione senza legarlo profondamente ai tre temi precedenti. Essi, infatti, sono legati intimamente tra di loro dai più vasti temi della trasformazione del territorio e dell’evoluzione della società che ci vive. Il vero scatto in avanti del Paese consisterà, quali che saranno le misure effettive che il Governo e il Parlamento metteranno in atto, nella capacità di fare interagire tutte le misure adottate in modo che l’efficacia di ognuna di esse sia moltiplicata dal fatto di appartenere a un Sistema, caratteristica che quasi mai si è verificata nella crescita italiana.
Allo stato attuale, ovvero nelle linee guida elaborate dal Governo, la voce che riguarda le attività che coinvolgono il settore dell’edilizia sono inserite, come si è già detto, all’interno della missione “equità sociale, di genere e territoriale”, occupando il penultimo posto negli 11 cluster e definita come “rigenerazione e riqualificazione di contesti urbani, borghi ed aree interne e montane, piccole isole, anche con interventi nel settore culturale”. Si ricorda che, a livello nazionale, la tematica della rigenerazione urbana è stata introdotta dall’art. 5 della Legge 106 del 2011 – prime disposizioni urgenti per l’economia – (in Italia le leggi recanti novità dal punto di vista economico-finanziario passano sempre con l’aggettivo “urgenti”, con la conseguenza che con lo scorrere del tempo si è persa completamente la nozione della parola “urgente”). Al di là delle varie interpretazioni ed adozioni che ne hanno fatto le varie Regioni, dimostrando una volta di più l’assurdità della frammentazione territoriale di misure che rivestono connotati nazionali, il succo della normativa riguardante la rigenerazione urbana consiste nel mantenere un equilibrio ambiguo tra: necessità di porre mano al degrado di vastissime porzioni del territorio urbano italiano, necessità di tentare un rilancio dell’ormai asfittico settore delle costruzioni, affermazione, spesso demagogica, del principio di non consumo di nuovo suolo, necessità di incrementare, per quanto è possibile, la densità abitativa di settori urbani del territorio nazionale. L’allungarsi della filiera normativa di un dispositivo già debole alla nascita, dovuto alle successive interpretazioni che ne ha fatto ogni singola Regione, non poteva che portare a dei risultati nel migliore dei casi ininfluenti rispetto agli obiettivi originari o grotteschi, nel peggiore dei casi. Esempi lampanti sono stati l’aprirsi di varchi alla demolizione di edifici ben inseriti in zone consolidate delle città, che nulla avevano di degradato, per fare posto ad esercizi quantomeno discutibili di incremento di cubature, quasi sempre disomogenei rispetto al contesto. Il tutto, naturalmente, senza che finora sia stata toccata un’unghia all’interno delle vastissime zone urbane realmente degradate e bisognose da decenni di interventi radicali.
A fronte di queste misure marginali, c’è una parte molto consistente dello stock edilizio italiano che va interamente sostituito. Questo stock è rappresentato al 95 per cento da quanto è stato realizzato a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale fino perlomeno a metà degli anni ’70, 35 anni. I motivi della necessità di cominciare a metter mano a questa sostituzione sono molteplici e così elementari che li capisce anche un non addetto ai lavori. Si va dal degrado strutturale dovuto all’utilizzo di materiali scadenti di costruzione, a causa delle precarie condizioni economiche dei primi dieci anni di dopoguerra, alla realizzazione di intere nuove porzioni di città effettuate trascurando completamente ogni criterio di pianificazione urbanistica, dalla totale inadeguatezza odierna delle tipologie abitative valide in quegli anni, al massacro del territorio in spregio ad ogni considerazione di tipo paesaggistico per soddisfare la bulimia da cubatura e, last but not least, alle vastissime porzioni di edilizia abusiva, sia totale sia “legalizzata” grazie alla stratificazione di sanatorie succedutesi praticamente ad ogni legislatura per fare fronte all’endemico e permanente deficit di cassa. A fare da basisti a questo stato di cose sono molto spesso stati i piani regolatori succedutisi dal secondo dopoguerra in poi che hanno abiurato dalla loro natura di “pianificazione urbanistica e territoriale” per ridursi a meri strumenti regolatori ed elenchi di norme sui distacchi, sulle altezze, sul rispetto degli standard, ecc.

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