L’economia cinese dopo il Covid-19

La ripresa economica in Cina.
Dopo il successo della Cina nel contrastare e mettere sotto controllo l’epidemia di Covid-19, e nell’impedirne nuove ondate, l’economia cinese si sta riprendendo in un quadro di grande incertezza dell’economia mondiale.
Il Fondo Monetario Internazionale prevede una caduta del PIL mondiale del 4,4% nel 2020 e dovrà certamente rivedere le ottimistiche previsioni di un aumento del 5,2% nel 2021.
Il PIL della Cina, nel primo trimestre del 2020 era caduto del 7%, ma nel terzo trimestre è cresciuto del 4,9% su base annua;  per l’intero anno il Fondo Monetario Internazionale prevede una crescita dell’1,9%.
Le previsioni sono molto più ottimistiche, probabilmente troppo, per il 2021: il 9,2% per il Fondo Monetario e il 7,9% per la Banca Mondiale.
La spinta all’aumento del PIL è venuta soprattutto dalla produzione industriale, aumentata in settembre del 6,9%, lo stesso tasso di crescita sperimentato nel dicembre 2019 prima dello scoppio del coronavirus.
Ci sono segnali che la ripresa si sta estendendo ai consumi, dato che in ottobre le vendite al dettaglio sono cresciute del 3,3% dopo mesi di caduta.
La ripresa economica ha generato un aumento delle importazioni, ma anche le esportazioni hanno ripreso a crescere, e più delle importazioni, anche per la domanda di beni cinesi nel campo sanitario e degli strumenti, come i personal computer,  necessari per il sostengo del lavoro online: il surplus delle partite correnti ha quindi ripreso a crescere arrivando a oltre il 4% del PIL.
A questo ha corrisposto anche un aumento del tasso di cambio, cresciuto nell’anno di più del 5,5%.
Le misure economiche che sono state intraprese in Cina per fronteggiare la crisi economica determinata dall’epidemia sono state meno forti di quelle decise dai paesi del mondo occidentale.
Per quanto riguarda la politica fiscale, durante la riunione del Congresso Nazionale del Popolo, il parlamento cinese, tenutasi a Pechino nel maggio 2020, il premier Li Keqiang aveva annunciato un aumento del deficit pubblico dal 2,9% del PIL nel 2019 al 3,6% nel 2020, anche se con un aumento della spesa militare del 6,6% rispetto all’anno precedente.
Ma nel complesso la politica fiscale espansiva in termini di investimenti, benché abbia favorito la ripresa industriale, è stata meno forte di quella usata per reagire alla crisi del 2008-2009.
Inizialmente la Banca del Popolo, la banca centrale della Cina, ha aumentato la liquidità e ridotto i tassi interesse; ma dopo poco tempo la strategia monetaria è diventata meno espansiva.
Dietro la maggiore cautela dimostrata dalla leadership cinese sta probabilmente il timore dell’aumento del già molto elevato indebitamento complessivo dell’economia.
Ad esempio, uno dei segni della ripresa economica è stato l’aumento dei valori delle proprietà immobiliari nelle più importanti città, sostenuto, come in passato, dall’indebitamento delle imprese di costruzione.
La autorità cinesi hanno quindi introdotto delle regole per limitare l’indebitamento nel settore immobiliare, volte a legarlo di più a indicatori del successo previsto e all’afflusso di risorse proprie rappresentato da azioni delle società coinvolte.
Queste misure sembrano aver avuto un certo successo dato il rallentamento recentemente manifestatosi nell’aumento dei valori delle proprietà immobiliari.
Ma questo non è stato l’unico segnale della persistenza del problema dell’indebitamento nell’economia cinese.
Un numero di recenti fallimenti nelle imprese di Stato che si erano eccessivamente indebitate ha indotto il presidente del Comitato per la Stabilità Finanziaria, il vice-premier Liu He a dichiarare che d’ora in poi verrà adottato un approccio di “tolleranza zero” nei confronti di comportamenti errati nelle questioni finanziarie, modificando così la strategia che in questo settore era prevalsa anche nel recente passato.
La ripresa dell’economia cinese in un quadro internazionale dominato dall’incertezza ha provocato un aumento della domanda di attività finanziarie cinesi sui mercati internazionali.
Gli investimenti esteri in Cina sono cresciuti in Ottobre per il settimo mese consecutivo, con un tasso di crescita del 18% su base annua.
Ci sono invece rallentamenti ed esitazioni negli investimenti cinesi all’estero; e questi sono certamente legati alla maggiore attenzione del governo nei confronti delle imprese che li intraprendono, dopo le crisi derivanti dall’eccessivo indebitamento con cui alcune di esse, specialmente nel campo assicurativo, li avevano finanziati nel periodo tra il 2015 e il 2017 e in settori non produttivi quali quello alberghiero, degli spettacoli e dei giochi d’azzardo.
Il governo ha preso decise azioni di contenimento rispetto a queste imprese (con arresti di alcuni dei responsabili) e da allora gli investimenti cinesi all’estero hanno mostrato quanto meno una maggiore cautela.
L’afflusso di investimenti esteri non sembra tuttavia, almeno per ora, presentare segni di rallentamento anche dopo alcune iniziative prese dalle autorità di regolazione finanziaria cinese che intervengono con modalità senza precedenti nel sistema finanziario, anche se qualche problema si è creato nelle borse di Hong Kong e Shanghai.
Il riferimento è al blocco da parte delle autorità della IPO di 37 miliardi di dollari che Ant Financial, la società finanziaria di Alibaba, si era preparata a lanciare sulle borse di Hong Kong e Shanghai alla fine di ottobre.
Durante un meeting finanziario a Shanghai il 24 ottobre, Jack Ma, il fondatore di Alibaba, era intervenuto sostenendo che le banche cinesi, la maggior parte delle quali è in mano pubblica, hanno una mentalità da “banco dei pegni” dato che richiedono eccessive garanzie e collaterali per concedere prestiti, e affermando che la Cina non  ha bisogno di questo tipo di banche, ma di società finanziarie più coraggiose, come Ant, che richiedono meno collaterali e fanno maggior utilizzo delle opportunità offerte dalle tecnologie digitali.
A quella stessa riunione era però presente anche Wang Qishan, vice presidente della Repubblica Popolare della Cina, e certo l’uomo più potente della Cina dopo Xi Jinping; e Wang Qishan aveva lanciato un messaggio completamente opposto sostenendo la priorità della stabilità finanziaria e la necessità di combinare l’innovazione e l’apertura finanziaria con una appropriata regolazione.
Qualche giorno dopo Jack Ma venne convocato dai regolatori cinesi a Pechino, e subito dopo l’IPO di Ant è stata sospesa.
Del resto i regolatori  avevano nei mesi recenti già preso iniziative per limitare il potere monopolistico dei giganti tecnologici cinesi, annunciando nuove regole riguardanti come le società dovrebbero usare i dai dei clienti, i criteri che esse dovrebbero seguire nel determinare i prezzi delle loro offerte di credito, che tipi di promozioni e di sussidi si possono usare per attrarre clienti.
Le maggiore novità delle nuove regole sono però che esse colpiscono anche le clausole che riducono la concorrenza, come ad esempio quelle che impediscono di usare WeChat Pay di Tencent per comprare prodotti dai siti online di Alibaba come Taobao.
Inoltre le regole prevedono un deciso intervento sulle possibilità  dei giganti tecnologici cinesi di quotarsi all’estero condizionandole ad una esplicita autorizzazione da parte dell’ autorità antitrust nazionale.
Insomma la ripresa economica è contrassegnata da passi alquanto significativi nella direzione di costruire un futuro “fintech” nel quale però non è chiaro quanto la preoccupazione delle autorità sia realmente quella di promuovere una maggiore concorrenza e una maggiore stabilità, o non piuttosto quella di evitare il rischio che i giganti “fintech” cinesi sfuggano al controllo delle autorità, e in ultima analisi del Partito Comunista Cinese.
Non sembra però che le autorità cinesi siano così miopi da compromettere l’obiettivo a medio lungo termine più volte dichiarato di condurre la Cina a una posizione di leadership mondiale nel campo delle nuove tecnologie e quindi anche nel settore “fintech”.

Prospettive a lungo termine per l’economia cinese.
La ripresa dell’economia cinese dalla crisi determinata dall’epidemia di Covid-19 rappresenta una opportunità per la Cina di apportare le necessarie correzioni al suo modello di crescita economica di lungo periodo.
Vi è la necessità di continuare ad aumentare il peso della domanda interna di consumi che rimane ancora ad un livello inferiore al 50% del PIL, una quota insufficiente per una economia che pretenda di diventare avanzata e matura; questo aumento richiede una riduzione della quota del PIL destinata a investimenti e esportazioni nette, e quindi inevitabilmente una riduzione del tasso di crescita nel medio- lungo termine, che però potrà essere minore se aumenterà l’efficienza degli investimenti, particolarmente nelle imprese di Stato, il cui peso nell’economia è aumentato begli anni recenti.
La grande attenzione allo sviluppo delle infrastrutture di tipo tradizionale, che ha caratterizzato la Cina nei campi delle autostrade, delle linee ferroviarie ad alta velocità, dei porti e degli aeroporti non solo deve essere almeno affiancata da infrastrutture nelle reti di telecomunicazione e nell’economia digitale che sono già nei propositi del governo, ma deve essere corretta dalle troppe inefficienze e implicazioni negative sulla ancora delicata realtà ambientale.
In quest’area la Cina ha riproposto la sua volontà di partecipare alla lotta contro il riscaldamento globale e il cambiamento climatico attraverso la riduzione delle emissioni di gas serra; in questa prospettiva si collocano le recenti dichiarazioni all’assemblea online delle Nazioni unite del Presidente Xi Jimping di arrivare all’azzeramento delle emissioni nette di CO2 entro il 20260; ma passi molto decisi devono essere fatti datala ancora forte dipendenza dell’economia cinese dal carbone.
Ci sono ancora poi non pochi problemi da risolvere per rendere più adeguati il sistema di sicurezza sociale e sanitario superando gli ancora notevoli squilibri che caratterizzano la loro presenza nelle aree urbane e in quelle rurali.
Tutti questi problemi dovranno essere affrontati nel nuovo 14mo piano quinquennale 2021-2025 le cui linee direttrici sono state discusse e decise nella 19ma sessione del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese tenutasi alla fine di ottobre.
In quella occasione è stato anche approvato un documento sugli obiettivi di più lungo termine dal titolo Vision 2035.
Il piano quinquennale ha l’obiettivo generale di uno sviluppo economico sostenuto, anche se non viene specificato un tasso di crescita per il PIL.
Questo obiettivo generale viene articolato in alcuni obiettivi specifici, il più rilevante tra i quali è quello della “circolazione duale” persoanlmente annunciato dal presidente Xi Jinping.
La “circolazione duale” è costituita da una “circolazione internazionale” legata alle relazioni economiche della Cina con il resto del mondo e da una “circolazione interna” legata allo sviluppo della produzione stimolata dalla domanda interna.
Lo specifico obiettivo del piano è di aumentare la dimensione della “circolazione interna” però mantenendo aperta la relazione della Cina con il resto del mondo.
Alti obiettivi specifici del piano quinquennale sono: lo sviluppo e la modernizzazione dell’agricoltura e delle aree rurali, il rafforzamento del sistema di sicurezza sociale e di quello sanitario, il compimento di passi significativi verso una “civilizzazione ecologica”, il miglioramento del sistema della pubblica amministrazione.
Poi ci sono alcuni obiettivi specifici che è opportuno citare per la loro  natura più politica: la modernizzazione della difesa nazionale e dell’Esercito di Liberazione del Popolo, il mantenimento della stabilità e prosperità di Hong Kong e Macao e la promozione di uno sviluppo pacifico nelle relazioni nello stretto di Taiwan, ma anche della riunificazione nazionale.
L’importante obiettivo dello sviluppo delle nuove tecnologie per far diventare la Cina un leader mondiale nell’innovazione è riaffermato nelle linee guida del piano quinquennale, ma è posto in modo prioritario tra quelli indicati nel documento Vision 2035.
Questo spostamento dell’orizzonte temporale manifesta un comprensibile realismo nella consapevolezza che la Cina deve affrontare il drastico cambiamento nelle relazioni con l’Occidente guidato dalle iniziative dell’amministrazione Trump, e nell’incertezza di quello che farà il nuovo Presidente Joe Biden; e tutto questo non si può fare in cinque anni.
In molti settori, come quello dei pagamenti mobili, dell’e-commerce, delle tecniche di intelligenza artificiale per il riconoscimento facciale, dell’intrattenimento online e perfino nel settore dei veicoli elettrici, la Cina è ormai più avanti degli Stati Uniti.
Ma in settori cruciali delle nuove tecnologie, come i semiconduttori necessari per operare gli strumenti della comunicazione come gli smartphones, la Cina è ancora decisamente indietro.
La Cina è soprattutto indietro nella progettazione e nella manifattura dei “chips” e l’obiettivo di arrivare a produrre dall’attuale 30% al 70% del fabbisogno nazionale per il 2025 con tutte le componenti della catena produttiva di origine interna è così lontano che si giustifica la decisione di porre l’obiettivo della leadership tecnologica in Vision 2035.
Per rendersi conto della vera e propria drammaticità del ritardo esistente basta pensare che la più importante impresa cinese di semiconduttori, la SMIC (Semiconductor Manufacturing International Corporation) è indietro di due generazioni di semiconduttori rispetto al più grande e avanzato produttore del mondo, la TSMC (Taiwan Semiconductor Manufactoring Corporation), che peraltro produce i suoi semiconduttori utilizzando componenti di origine americana.
La TSMC è stata la più importante fornitrice di chips per Huawei; e la decisione di Trump che impediva a ogni impresa di qualsiasi parte del mondo di vendere chips ottenuti con componenti americane a Huawei, ha spinto anche la TSMC a sospendere le forniture a Huawei.
Huawei ha cercato di spostarsi come fornitore su SMIC, ma in settembre, dopo che il Dipartimento del Commercio americano ha denunciato SMIC per le sue forniture all’esercito cinese, la stessa SMIC si trova di fronte al rischio di venir tagliata fuori dal rapporto con gli Stati Uniti per la fornitura di software e componenti.
E’ molto difficile dire se e quando la Cina riuscirà a superare questo divario pur avendo destinato risorse finanziarie per 1,4 trilioni di dollari allo sviluppo delle nuove tecnologie, che dovrebbero appunto, tra l’altro, portarla a produrre al suo interno tutta la catena dell’offerta dei semiconduttori di più avanzata generazione.
Ma la Cina rimane ancora molto lontana dall’obiettivo, annunciato peraltro nel 2014 dal Consiglio di Stato, di diventare leader in tutta l’industria dei semiconduttori per il 2030.
Un elemento che potrebbe aiutar un allentamento nella tensione tecnologica tra Stati Uniti e Cina è la decisione presa nel giugno 2020 dal Dipartimento del Tesoro americano di permettere alle società statunitensi di scambiare informazioni tecniche con la Cina sulla definizione degli standard internazionali per la tecnologia 5G nelle telecomunicazioni.
La decisione probabilmente deriva dal timore degli Stati Uniti di essere tagliati fuori da un processo che vede la leadership della Cina a livello internazionale, dato che sono cinesi sia il presidente dell’International Standard Organization (ISO) sia quello della Electrotechnical International Commission  che si occupa degli standard per tutti i prodotti elettronici.
Non si può dire se questo possa essere visto come un segno di cambiamento nella tendenza verso un “decoupling” tecnologico che si determinerebbe qualora la Cina riuscisse a superare il suo ritardo nel settore dei semiconduttori per gli strumenti di comunicazione online con catene interamente domestiche.
Quello che comunque è certo è che la Cina non ha rinunciato al suo obiettivo di assumere una posizione di leadership nell’economia mondiale.
Un segno importante in questa direzione è la Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP) firmata il 15 novembre da quindici nazioni della regioni dell’Asia e del Pacifico: non solo i dieci paesi dell’ASEAN (Brunei, Cambogia, Indonesia, Laos, Malesia, Myanmar, Filippine, Singapore, Tailandia and Vietnam), ma anche, oltre la Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia, Nuova Zelanda.
Dopo che l’amministrazione Trump ha fatto saltare la Trans Pacific Partnership, con questa iniziativa  Stati Uniti e Europa sono tagliati fuori da come verranno stabilite le relazioni commerciali in un’area che copre un terzo del prodotto lordo mondiale.
Questo aggiunge un ulteriore elemento al rischio che un “decoupling” economico si aggiunga a quello del possibile “decoupling” tecnologico tra Est e Ovest, e rende invece il bisogno di una cooperazione mondiale più necessaria e urgente.