La recessione e le banche: una mina da disinnescare

La pandemia ha scatenato anche nell’Euroarea una recessione che già supera quella post-Lehman, quando il Pil nel 2009 scese del 4,5%. Il cedimento del prodotto dell’area previsto per il 2020 dal FMI – prima della “seconda ondata” della pandemia scatenatasi un ottobre – supera l’8%, con punte del 10% circa per Italia, Francia, Spagna e del 6% nella stessa Germania. Anche l’insieme delle economie avanzate subirebbe una flessione del 6% (-5% il Giappone, -4% gli Stati Uniti, -10% il Regno Unito). Seguirebbe nel 202, pandemia permettendo, un rimbalzo quantomeno incerto nei tempi e nel vigore.
La crisi del 2008-2009, seppure molto meno pesante di quella che oggi si prefigura, con i suoi strascichi provocò perdite bancarie cospicue. Costrinse i governi a massicci trasferimenti a sostegno delle banche. Secondo la stima ufficiale ne derivò un aumento d’impatto del debito pubblico complessivo nell’intera Unione Europea di 632 miliardi di euro (4,3% del Pil). L’aumento fu a due cifre rispetto al Pil in Grecia, Irlanda, Cipro, Slovenia, Portogallo, Austria. Fra i maggiori paesi fu massimo in Germania (225 miliardi, 7,4% del Pil), Regno Unito (131 miliardi, 5,1% del Pil) e Spagna (52 miliardi, 4,8% del Pil), minimo in Francia (2,8 miliardi, 0,1% del Pil) e in Italia (1,6 miliardi, 0,1% del Pil). Nel 2015 i 632 miliardi erano scesi a 218 (1,5% del Pil europeo; in Germania la discesa fu da 225 a 39 miliardi) grazie a 414 miliardi di recuperi sugli assets che le pubbliche amministrazioni avevano dovuto rilevare. E’ l’ennesima conferma che poi lo Stato può recuperare, se non addirittura guadagnare come in Italia nei primi tempi dell’IRI e gli Stati Uniti di Obama e Tim Geithner dopo Lehman.
L’attuale è, purtroppo, una di quelle fasi in cui prospettare il peggio fa premio sul confidare nel meglio. Una caduta dell’attività economica quale quella temuta, in particolare se la ripresa slittasse, porrebbe a serio repentaglio la stabilità sistemica dell’industria bancaria e finanziaria. Alla drammatica congiuntura l’Europa perviene con un settore bancario che si è ripreso dalla crisi post-2008 nella base di capitale, ma non nel Roe. Singole banche, anche grandi come in Germania, restano deboli. Soprattutto vi si arriva con una cornice istituzionale della finanza disegnata per tempi normali, che si è stratificata in una sorta di labirinto. Possono addentrarvisi e fuoruscirne illesi solo giuristi cultori della materia, meno degli economisti esposti a dubbi di merito. In particolare si configura come un ginepraio la ripartizione delle competenze fra le autorità comunitarie e fra queste e quelle nazionali.
Sul piano funzionale il central banking europeo è privo del “doppio mandato” (la cura dell’attività produttiva non corrisponde alla cura per il potere d’acquisto della moneta); di una supervisione bancaria collaudata sul campo, non solo sui manuali, e di lunga data (dal 1998 al 2014 questa responsabilità è stata negata alla BCE, che ha poi dovuto improvvisare); di uno stretto coordinamento fra politica monetaria e vigilanza (dipendenti da comitati diversi all’interno della BCE); di gradi di libertà nel credito di ultima istanza (limitato alle banche solide, solo illiquide, a cui non serve se il mercato interbancario funziona). La discrezionalità dei controllori, fondamentale in una materia dove quasi tutto è opinabile, viene riguardata in Europa con sospetto. Quella della BCE è quindi ridimensionata rispetto alle consorelle americana, inglese, persino giapponese.
Mentre in passato erano complementari, la vigilanza strutturale è stata soppiantata da quella prudenziale. La vigilanza strutturale –comprensiva della promozione della concorrenza – avrebbe potuto invece esser parte di una politica economica e istituzionale volta a favorire l’adeguamento del sistema finanziario alle nuove esigenze dell’economia quando le forze di mercato stentano, come pure a contenere i costi della transizione da un assetto all’altro. La vigilanza prudenziale – micro e macro, cartolare e ispettiva – affida la solidità delle banche essenzialmente alla loro patrimonializzazione. Questa viene imposta a vari livelli: requisito di base; riserva di conservazione; riserva anticiclica; riserva per le banche maggiori; riserva per il rischio sistemico; leverage ratio. Ma, seppure cospicuo, il patrimonio – uno stock – è per definizione insufficiente a fare fronte a un flusso di perdite che fosse di eccezionale entità e prolungato nel tempo.
La tutela della concorrenza bancaria è stata attribuita all’antitrust, escludendo l’autorità di supervisione sulle banche. Anche sul piano culturale l’antitrust non può che considerare le banche imprese come le altre, mentre sono radicalmente diverse. Nondimeno con evidente asimmetria l’antitrust è coinvolto nella gestione dei dissesti bancari.
La specializzazione degli intermediari finanziari è in Europa minore che altrove. Nonostante le cautele suggerite da Paul Volcker con la sua Regola contro il proprietary trading negli Stati Uniti e dal Vickers Report nel Regno Unito, in Europa si è consentito che una banca commerciale traffichi con titoli di sua proprietà, operando “per conto proprio” ma con i danari dei depositanti. Essa incorre così in alee di mercato che esaltano quelle sui crediti. Ciò avviene quando i margini d’interesse sull’intermediazione depositi/prestiti sono risicati a causa dei tassi a breve nulli o negativi che, pur essendo inutili ai fini del sostegno alla domanda effettiva, vengono dalla BCE imposti da oltre dieci anni con effetti perversi sui profitti da intermediazione bancaria.
Non esiste ancora – andrebbe approntato con urgenza – un generoso sistema unico europeo di garanzia dei depositi. L’ambiziosa costruzione dell’Unione Bancaria manca quindi del “terzo pilastro”, che dovrebbe sorreggerla unitamente al Meccanismo di vigilanza unico (Mvu), operativo dal novembre 2014, e al Meccanismo di risoluzione unico (Mru), avviato nel luglio 2014.
Fra le difese preventive dall’instabilità è stata in particolare smantellata quella offerta dalla separatezza fra banca e industria. Era radicata nella penosa esperienza, non solo italiana, sfociata nel disastro degli anni Trenta: un presidio – che permane negli Stati Uniti – contro i conflitti d’interesse, ma ancor più contro i finanziamenti compiacenti e arrischiati delle banche alle imprese “amiche”. Nel 2008 l’Italia recepiva una delle innumerevoli direttive comunitarie (la dir. 2007/44/CE) in base alla quale il d.l.185 del 29 novembre cancellava l’art. 19 del Testo unico bancario del 1993, che tutelava la separatezza. Ciò avveniva senza che dall’Italia si lanciassero alti lai. Si è così permesso alle imprese non finanziarie di acquisire la proprietà di banche. Una ditta di montature per occhiali intende controllare quella che era la migliore banca del paese… Al tempo stesso imprese non finanziarie possono essere di proprietà di banche, purché la singola partecipazione qualificata e il complesso di siffatte partecipazioni non superino predeterminate soglie del capitale ammissibile delle banche, che però spesso è di tale dimensione da rispettarle agevolmente.
Il tutto è viziato nel profondo dal principio del bail-in. Secondo tale principio il dissesto di una banca non deve ricadere sulle pubbliche finanze e sui contribuenti. Oltre a ricadere ovviamente sugli azionisti, dal gennaio 2016 si possono coinvolgere nelle perdite tutti i creditori non garantiti delle banche europee, depositanti inclusi (fatti salvi i depositi fino 100mila euro, la cifra irrisoria garantita). La brillante idea è stata avanzata dalla Commissione europea sin dalla proposta di direttiva su risanamento e risoluzione delle banche del 6 giugno 2012. Sulla scorta della Comunicazione della stessa Commissione del luglio 2013 è alfine sfociata a maggio 2014 nella direttiva su “risanamento e risoluzione” (dir.2014/59/UE) e nello stesso 2014 nel regolamento 806 istitutivo del Meccanismo unico di risoluzione.
I governi succedutisi in Italia dal 2012 al 2014 e i rappresentanti italiani a Bruxelles, Strasburgo, Francoforte hanno la responsabilità di non essersi opposti con decisione al momento delle valutazioni sui pro e sui contra della rivoluzionaria novità e alla fine l’Italia non pronunciò un formale veto. Non si opposero sebbene in Italia con il bail-out a partire dal dopoguerra i detentori dei depositi non avessero mai perduto un centesimo. La Banca d’Italia e il Tesoro a questo fine avevano impegnato nei salvataggi – delle strutture aziendali, non di amministratori e azionisti – danari dei contribuenti per importi bassi in assoluto e tra i più bassi nel novero delle economie avanzate. Questa moderazione e l’attenta vigilanza della Banca d’Italia sono proseguite, come è confermato dalle poche perdite delle aziende di credito italiane anche dopo la crisi del 2008.

I vantaggi sperati dal bail-in sono essenzialmente tre: tutela dei bilanci pubblici e quindi dei contribuenti; ridotto moral hazard dei finanziatori delle banche e degli stessi banchieri; contrasto del too big to fail e della concentrazione bancaria. Ma in determinate e non improbabili circostanze economiche sui vantaggi possono ben prevalere almeno due fra i non pochi svantaggi: rischi di contagio fra le banche con ripercussioni procicliche sull’intera economia; maggiore esigenza di mezzi liquidi. Negli Stati Uniti alla Federal Deposit Insurance Corporation non sono attribuiti espliciti poteri statutari di bail-in sulle depository institutions, ma solo poteri equivalenti su altri intermediari, mai impiegati. Quando la Brexit sarà compiuta si vedrà se il Regno Unito conserverà questo discutibile strumento: ove se ne liberasse, Londra potrebbe acquisire un vantaggio competitivo rispetto alle banche del Vecchio Continente.
L’incertezza e la precauzione legate al terrore della pandemia hanno impresso un’accelerazione ai depositi. Ma il moto potrebbe invertirsi. Con lo spettro del bail in potrebbe innescarsi una fuga dei depositanti, e non solo dai depositi bancari eccedenti i 100mila euro. La fuga si avvierebbe e diverrebbe valanga prociclica se la recessione dovesse provocare a vasto raggio incagli, sofferenze e perdite sui prestiti bancari (che rappresentano 2/3 dei crediti alle imprese europee, rispetto a meno di 1/3 a quelle statunitensi). Catene di contagio fra banche sull’orlo del dissesto, oltre che divenute illiquide, si susseguirebbero con effetto domino. Già nell’aprile del 2020 nel suo Rapporto sulla stabilità finanziaria la Banca d’Italia, dopo aver apprezzato la maggiore capitalizzazione del sistema e la minore incidenza dei crediti deteriorati registratisi prima della pandemia, stimava “una forte crescita dei rischi di contagio nel settore bancario” italiano (Fig. 1.4, p. 13).
A quel punto, in una crisi fattasi generale, depositanti e contribuenti tenderanno a coincidere, a essere la stessa persona, con buona pace della tutela delle pubbliche finanze a scapito di singoli risparmiatori. Il meccanismo, concepito per casi idiosincratici, andrebbe quantomeno prudentemente sospeso di fronte alla possibilità concreta di instabilità finanziaria sistemica.
Sempre a quel punto la BCE servirebbe a poco, ammesso che la sua politica monetaria, sinora espansiva, non debba tramutarsi in restrittiva. Lo imporrebbe lo statuto – che antepone la stabilità dei prezzi alla difesa dell’occupazione – qualora a causa di strozzature d’offerta dovesse esservi stagflation, come negli anni Settanta/Ottanta del Novecento. La creazione di liquidità – da tempo spinta attraverso acquisti di titoli pubblici da parte del SEBC ai limiti dello statuto – non è in grado di dare sufficiente sostegno alla domanda globale.
L’impotenza “espansiva” della politica monetaria è confermata dai dati di un ventennio.
Dal 1999 al 2019 la crescita annua dei bilanci delle maggiori banche centrali – e quindi la creazione di base monetaria – è stata sostenuta, compresa fra il 13% della Bank of England e il 9% della BCE e della Bank of Japan, con la Fed attestata sul 10%. Ma l’espansione della quantità di moneta è risultata in ciascuno dei casi inferiore, compresa fra il 6% e il 2%. Ancor più lenta è stata la progressione del Pil nominale, compresa fra il 4% e lo 0,3%. Altrettanto deve dirsi per l’aumento dei prezzi al consumo, compreso fra il 2% e lo 0,1%
Il decalage nella sequenza delle variazioni delle quattro variabili nelle quattro economie lungo l’intero ventennio muta si accentua se ci si concentra sul sottoperiodo aperto dalla crisi Lehman nel 2008. All’accelerazione della base monetaria contro la recessione e l’instabilità finanziaria non ha corrisposto l’accelerazione dello stock di moneta, del prodotto, dei prezzi, ma solo eccitazione speculativa e sopravvalutazione delle Borse, dissociate dal profilo mediocre dell’attività economica. Il monetarismo alla Milton Friedman, che in particolare lega la moneta e i prezzi nel lungo termine, è andato in frantumi. La moneta non ha contato molto.
L’effetto moltiplicativo esercitato dalla base monetaria sui depositi bancari – che sono la parte preponderante della massa monetaria – è stato compresso dalla bassa richiesta affidabile di credito, dalla propensione degli intermediari a detenere riserve piuttosto che a concedere prestiti, dalla voglia di contante del pubblico. La moneta che comunque si è creata è stata fortemente domandata, tesoreggiata, sia dalle famiglie sia dalle imprese. “Liquidità non è liquido che stagna, ma liquido che scorre”, diceva nel 1965 Raffaele Mattioli.
Viene spesso sopravvalutata anche la capacità delle banche centrali di controllare, oltre ai tassi d’interesse sul mercato monetario, i tassi a lungo termine, compresa la struttura secondo il rischio dei rendimenti dei titoli pubblici (i cosiddetti spreads). Le teorie dell’interesse sono due: quella di Fisher e quella di Keynes. Se il tasso a lunga dipende da fattori reali quali risparmio/investimento (Fisher, 1930), l’offerta di moneta è irrilevante. Se il tasso a lunga dipende da convenzioni e aspettative (Keynes, 1936) l’offerta di moneta può poco, in specie in un contesto di tendenziale bassa crescita o, come l’attuale, di recessione unite ad attese di deflazione e a liquidità da anni sovrabbondante. Un pegging, segnatamente se esteso a schiacciare gli spreads su specifici titoli pubblici oltre che a ridurre il tasso base, sarebbe insostenibile. Implicherebbe la perdita di controllo della quantità di moneta da parte della banca centrale che vi si avventurasse. Se il tentativo fosse della BCE, verrebbe stroncato per infrazione statutaria non solo dalla Corte di Karlsruhe, ma dalla stessa Corte di Giustizia del Lussemburgo…
Nondimeno i governanti hanno almeno in apparenza riposto fiducia nella politica monetaria espansiva. L’hanno favorita, richiesta, pretesa. Non sono stati seccamente smentiti dai banchieri centrali nell’assumere – o nel fingere di ritenere – che lo strumento monetario potesse bastare. I banchieri centrali non hanno con sufficiente fermezza chiesto che i governi attuassero l’indispensabile politica fiscale. Si sono spinti sino a valorizzare un cosiddetto quantitative easing. Governi e parlamenti non hanno risposto con la politica fiscal, scaricando di fatto le responsabilità sulle banche centrali, che non hanno saputo respingerle al mittente. Il caso europeo – fortemente condizionato dal neomercantilismo della Germania – è di palmare evidenza, con la stranezza che la stessa politica monetaria espansiva della BCE subiva una battuta d’arresto fra l’estate del 2012 e l’estate del 2014, allorché il bilancio del SEBC si restringeva di un terzo.
Di un siffatto equivoco, o giuoco delle parti, in cui i banchieri centrali sono caduti e della conseguente inadeguatezza della politica economica hanno per un ventennio risentito consumi e investimenti, con freno delle attività produttive e pericolo di deflazione dei prezzi. La pandemia ha poi fatto esplodere le pluriennali tendenze.
Anche la capacità delle banche commerciali europee di fare fronte alla recessione con le risorse di cui dispongono era già stata erosa prima del Covid-19, come segnalato dalle forti oscillazioni delle quotazioni dei loro titoli in Borsa.
La mina potrà essere disinnescata solo dal superamento sia della recessione sia della pandemia che l’ha provocata.
Il contrasto della recessione postula politiche di bilancio fortemente espansive, coordinate fra i paesi d’Europa, finanziate anche con fondi europei. Ci si sta pensano, con inenarrabili contrasti e lentezze. Dovrebbero imperniarsi su investimenti pubblici ad alto moltiplicatore, non su spese correnti – diverse dagli ammortizzatori sociali nell’immediato indispensabili – né sulla detassazione, come sinora è avvenuto in diversi paesi, fra cui l’Italia. Massicci investimenti pubblici in valide infrastrutture avrebbero potuto contrastare dal lato della domanda globale una crescita ventennale in varia misura deludente nell’Unione Europea a far tempo dal 2000. Il moltiplicatore della spesa pubblica di parte corrente è basso, compreso fra 0,5 e 0,7. Il moltiplicatore degli investimenti pubblici è almeno di tre volte maggiore. Lo è perché sollecita anche investimenti privati e ha effetti positivi sulla stessa produttività.
Le spese in conto capitale, lungi dall’aumentare, sono state invece colpevolmente tagliate dai governi europei. Su base lorda dal 3,6% del Pil nel 2009 sono scese al 3% nel 2019. In Italia la caduta è stata di un terzo, da 58 a 41 miliardi, e ha colpito persino la sanità pubblica minandone le fondamenta non solo al Sud proprio prima della pandemia. In diversi paesi, fra cui l’Italia, lo stock delle infrastrutture è rimasto invariato o si è deteriorato essendo l’investimento lordo persino insufficiente agli ammortamenti.
Solo massicci investimenti pubblici potranno superare la voragine depressiva aperta dalla pandemia e rilanciare la crescita negli anni che verranno, sia dal lato della domanda sia dal lato della produttività.
Gli investimenti nella sanità e nella ricerca biomedica – è banale ribadirlo – sono i più urgenti. In Italia gli investimenti nella sanità dal 2000 sono stati dimezzati, con una inaccettabile divario fra le regioni e oscene discriminazioni fra i cittadini che vi risiedono. Gli investimenti pubblici vanno almeno raddoppiati rispetto al Pil. Devono inscriversi in un programma esteso a quelli sulla messa in sicurezza del territorio e dell’ambiente, sul capitale umano, sull’efficienza della giustizia, sui trasporti e le comunicazioni, sulle opere più utili ai cittadini e alle imprese. E’ altresì fondamentale concentrare una parte importante della maggiore spesa pubblica in conto capitale nelle regioni economicamente deboli, come il Mezzogiorno in Italia.
Superata la recessione, l’incremento della spesa pubblica corrente per ammortizzatori sociali potrà rientrare. Invece, gli investimenti pubblici dovrebbero permanere e intensificarsi, al fine di alimentare la crescita di trend e per questa via di invertire l’innalzamento del rapporto debito pubblico/prodotto. Come Keynes insegna, la capacità degli investimenti di moltiplicare domanda, produttività, reddito e gettito fiscale non solo assicura la copertura della relativa spesa, ma abbatte il rapporto debito/Pil. La crescita del reddito consentirebbe altresì di riassorbire l’eccesso di liquidità che la banca centrale negli anni ha in parte inutilmente creato.